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Se vogliamo chiamarla "Cultura Pop" allora dobbiamo parlare anche di politica

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Periodicamente si alza la voce "fuori la politica da..." in riferimento a fumetti, film di supereroi, videogiochi e tutta la cultura pop. Ma tutto è politico, che ci piaccia o meno, soprattutto se vogliamo usare la parola "cultura".

“Ma non possiamo pensare solo ai fumetti?”

“Ma non potremmo limitarci a dire se un videogioco è bello o no?”

“Ma perché non posso godermi questa cosa in santa pace?!

“Perché dovete metterci la politica sempre nel mezzo?”

 Periodicamente queste domande affiorano ogni volta in cui il mondo della cultura pop in qualche modo finisce per fare quattro passi fuori dal recinto di unboxing, recensioni entusiastiche, discussioni sulla lore e dibattiti sui livelli di forza di questo o quel supereroe.

Tutte le volte in cui insomma qualcuno entra nella nostra stanza dei balocchi e pretende di interrompere le nostre fantasie aprendo la finestra.

Premessa: Io sono assolutamente a favore di ogni escapismo. Il mondo è un posto orribile, lo era prima, lo sarà ancora, e il nostro cervello può contenere fino a un certo livello di trauma, stress, impegno e consapevolezza. A una certa, se abbiamo il privilegio di poterlo fare (e sottolineo forte la parola “privilegio”) stacca e cerca di godersi le cose per quel che sono: una telenovela, una partita a FIFA, un fumetto di robottoni, un manga romantico. A ciascuno il suo zucchero.

Seconda premessa: Non siamo qua a dare coccarde dei più puri, di quelli che fanno solo scelte etiche. Viviamo in un mondo di compromessi e posizioni che vengono costantemente ridefinite, soprattutto nell'occidente benestante in cui la maggior parte di ciò che maneggiamo ha un costo che viene pagato da altri. Credo in spazi in cui dovremmo apprezzare il cambiamento e non puntare solo il dito per sentirci migliori. E quindi non sono qua a scrivere per sentirmi migliore di nessuno.

Detto questo: escapismo non vuol dire vivere nel vuoto, possiamo chiedere il nostro sacrosanto diritto alla fuga senza perdere i contesti. Perché, mi spiace dirvelo, tutto è politica.

Il problema è che siamo abituati ad attribuire alla parola “politica” tutto un retroterra fatto di accordi, mazzette, gente che ti chiede il voto, le tasse, la corruzione, il viscidume, il populismo, gli ecomostri, gli scioperi e le manifestazioni che ci danno tanto fastidio.

Ma “politica”, cito la Treccani è “Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini”.

La politica è vita pubblica, quindi è società, non è solo un insieme di norme, leggi e accordi, è un sistema di atti, valori e comunicazioni che in qualche modo fanno parte della nostra società di individui.

Paul Watzlawick, Janet Beavin e Don Jackson nel 1971 stilarono cinque paradigmi della comunicazione. Il primo, che poi regola tutti gli altri, non ci lascia molto scampo e recita “Non si può non comunicare”.

Tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è comunicazione, e tutta la comunicazione − compresi i segni del contesto interpersonale − influenza il comportamento". Inoltre, "Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro”.

Se parliamo, comunichiamo, se scegliamo di stare zitti, comunichiamo, se decidiamo di guardare fisso negli occhi qualcuno o distogliere lo sguardo, comunichiamo, se scappiamo ed evitiamo il confronto stiamo comunque comunicando. Anche quando fingiamo che qualcosa non esista.

Con la politica, intesa come tutto ciò che riguarda le cose pubbliche e la società in cui viviamo, il processo è molto simile. Che ci piaccia o no tutto è politica. In forme più o meno forti questo riguarda ciò che compriamo e non compriamo, ciò che decidiamo di vedere e non vedere, le cause che appoggiamo, i giornali e i libri che compriamo.

E tutto questo è politico e lo è indipendentemente dalla nostra consapevolezza e dal nostro desiderio di fuga dalla politica. Possiamo scegliere di non occuparci di politica ma lei si occuperà sempre di noi e sarà sempre nella nostra vita. Le tasse, le autostrade, le notizie che leggiamo, il percorso degli autobus, i programmi di scuola, la presenza di migranti sono solo alcune delle decisioni politiche che incontriamo nella nostra vita. E ci va di culo che non incrociamo più spesso il cammino di una delle decisioni politiche più drammatiche: la guerra.

Ci va di culo che in qualche modo la politica sia espressa solo dal modo in cui ci vestiamo, comunichiamo e consumiamo e non da come spariamo o moriamo.

E anche i fumetti, i videogiochi, la musica, i libri sono politica. E sembra anche assurdo doverlo dire. Sembra assurdo doverlo dire a chi almeno nella vita avrà letto un verso dell’Inferno di Dante, che nell’Ade ha pensato bene di inserire personaggi politici del suo tempo e che era, per il suo tempo, cultura popolare. Oh alla fine era un mezzo isekai, un walking sim a livelli, chiamatelo come vi pare.

O a chi ha ascoltato gran parte della musica prodotta negli anni ’70. Quella che ha fatto da colonna sonora ai film sul Vietnam. O a chi si è visto Rocky prendersi a botte con un russo e lo stesso attore fare macelli in Afghanistan. O di chi magari era pure d'accordo con Sinead O'Connor quando strappò una foto del Papa.

Era politica Classe di Ferro, erano politica i cinepanettoni, lo sono Maus, Berserk, Call of Duty. Anche Tetris era politica, anche solo per dove era nato.

Pensate sia una roba di oggi? Un vezzo moderno? Vi racconto questo aneddotto. Quando uscì per Atari 2600 Custer's Revenge, un gioco dove un cowboy poteva stuprare una donna nativa americana legata a un palo dopo aver schivato delle frecce, ci fu una fortissima protesta delle comunità di nativi e associazioni femministe. Fare un gioco del genere e avere la scarissima consapevolezza di svilupparlo e venderlo è di per sé un atto politico.

Le storie sono scritte da persone, quelle persone riversano in quelle storie le loro esperienze e quelle esperienze fanno parte di un contesto sociale o politico. Sia che si parli di arte sia che si parli di prodotti di consumo. Sia che sia una scelta consapevole che si tratti di un riconoscimento a posteriori di influenze inconsce.

E quindi le storie che produciamo sono tutte politiche, anche quando non vogliono esserlo, perché non possono non comunicare qualcosa. Perché queste storie, questi oggetti, sono il risultato di come percepiamo la realtà attorno a noi. E ogni percezione è mediata da contesti, educazione e politica.

Non esistono cose che nascono nel vuoto, non esiste un’arte che improvvisamente spunta fuori dal nulla senza processi di elaborazione e digestione o rigetto del passato.

Ci riempiamo tanto la bocca con l’importanza della cultura pop, del valore formativo di ciò che fruiamo, che non sono solo cose per bambini che coccolano il processo di infantilizzazione di generazioni spaesate che ritornano a qualcosa che li faccia sentire amati e protetti. Ci piace che la si chiami “cultura”, proprio.

E allora se cultura deve essere che lo sia fino in fondo e che sia dato spazio a chi la produce e che venga rispettato il modo in cui viene fatto e sia rispettato chi di quelle decisioni politiche vi racconta significati e conseguenze. Anche quando ci dicono che Animal Crossing ricorda un po’ il colonialismo, anche quando un autore che ci piace fa scelte politiche che non condividiamo, ma che erano tutte dentro le sue opere. Anche quando ci viene fatto notare che dando soldi a certe opere finanziamo cose non proprio belle.

Poi ognuno decida secondo coscienza, ma non senza consapevolezza. Ricordandoci anche la critica a un prodotto che ci piace non vuol dire automaticamente una critica a noi. Posso dire che Street Fighter ha portato avanti stereotipi culturali razzisti e il secondo dopo godermi comunque uno scontro tra Blanka e Dhalsim.

Sennò torniamo a chiamarle nerdate, giochini, fumettini e non scomodiamo la cultura. Che evidentemente è una parola che non ci meritiamo, e restiamo immoti, per citare l’immortale “Fenomenologia di Mike Bongiorno” di Umberto Eco.

Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli come Mike Bongiorno. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.

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