Sarazanmai e la voglia di connettersi attraverso il corpo
Sarazanmai è il nuovo anime del maestro Ikuhara e ci parla della difficoltà di connettersi, passando attraverso una fisicità del tutto particolare.
La visione di Sarazanmai è un’esperienza che oserei definire unica, con una verve difficilmente ritrovabile nelle altre produzioni giapponesi. Non è tanto in un singolo atipico elemento che si ritrova lo charme dell’opera, piuttosto lo è l’insieme di assoluta creatività e stramberia che filtrano attraverso la penna di Kunihiko Ikuhara, storico autore di successi inestimabili come Mawaru-Penguindrum e Sailor Moon S (e R).
Gli ingredienti sono vari e spesso neanche così correlati: può il folklore giapponese fondersi con un’ambientazione urbana dai connotati moderni? Può la vita di tre ragazzi comuni intrecciarsi con le vecchie leggende e le credenze popolari? Può il soprannaturale insegnarci l’importanza dei legami terreni? Domande dalla risposta completamente non assicurata e che però rimangono ostinatamente al centro della narrazione di Sarazanmai, lasciando allo spettatore il compito di usare le sue capacità interpretative per dare un senso a ciò che compare sullo schermo.
Sarazanmai è una parola dall’apparente significato vacuo se si guarda alla semantica dell’anime. “Sara” è il pezzo più ricorrente all’interno dell’anime e viene utilizzato almeno in ogni puntata in una sorta di gioco di parole e kanji che producono tale suono, tipo la pronuncia di “Ecco fatto” o “così” in giapponese. “Sara” però è anche il nome del piatto/scodella che i famosi Kappa hanno sulla testa, elemento essenziale dell’anime in questione. Per chi non li conoscesse, i kappa sono dei demoni (o yokai) dei luoghi stagnanti che hanno le sembianze simili a quelle di un umano incrociato con un rospo (ma non rimarcate tale somiglianza, a loro non piace). Col passare del tempo queste figure sono diventate sempre meno legate a una connotazione cattiva e sono passate a essere delle macchiette per le serie animate, aiutando gli eroi di turno o venendo resi carini/divertenti nell’aspetto.
In Sarazanmai i kappa rappresentano il fulcro degli eventi che avverranno in una fittizia rappresentazione di Asakusa, con al centro tre ragazzi che si trasformeranno in essi al fine di combattere contro degli spiriti maligni - chiamati kappa zombie - intenti a fare casino nel mondo reale. Per avviare questa trasformazione però devono farsi estrarre la Shirikodama, che tradotto letteralmente significa “sfera del sedere”. Keppi, il principe dei kappa che assolda i tre protagonisti, è in grado di estrarre dalle natiche dei ragazzi la sfera e condurli sul campo di battaglia dove, sorpresa delle sorprese, dovranno estrarre la stessa sfera dalle chiappe ectoplasmatiche del demone gigante che si ritroveranno davanti.
Il tutto è condito da una bella canzone che si ripete ogni singola volta che ciò accade e che varia sul tema centrale della puntata, il quale è sempre un simbolo legato alle parole e ai temi di fondo. L’obiettivo ultimo è quello di ottenere i “dischi della speranza” (o dish/sara, per tenere a mente delle parole chiave dello show) in grado di realizzare un singolo desiderio.
Il clou di questa operazione fatta di sederi e sfere è il risultato chiamato, per l’appunto, Sarazanmai. I tre ragazzi trasformati in kappa si ritroveranno a condividere i segreti più nascosti della loro vita, facendo trapelare ogni volta una parte di esse agli altri membri del gruppo. Questo li porterà a relazionarsi con più fatica, lo sforzo di Connettersi, arrivando ad anelare la relazione umana che lega le loro vite. Il tema delle Connessioni e del Desidero di Connettersi è il secondo pilastro di Sarazanmai e, senza ombra di dubbio, la riflessione maggiore per lo spettatore. Nel corso degli episodi è infatti possibile vedere che ognuno dei “segreti” appartiene alle relazioni che i tre hanno in ballo, tutte distinte da problematiche che spaziano dalle più comuni alle più serie e bizzarre.
Sarazanmai però fa anche un lavoro enorme nel tentare di “connettersi” allo stesso spettatore, lasciando che quanto venga visto sullo schermo sia quasi uno sconvolgimento delle regole della realtà in cui noi tutti viviamo. Ed è qui che il potenziale rappresentativo dell’autore si fa più forte e la faccenda dei sederi assume un significato molto più profondo, così come l’utilizzo del corpo e la decisione di avere quasi tutti personaggi maschili.
Partendo da un contesto un po’ più ampio, nell’animazione giapponese di questo tipo il corpo e la sessualità sono sempre stati trattati in maniera molto più leggera rispetto alla sacralità con cui spesso gli occidentali l’approcciano. È pur vero che nessuno aveva menzionato i sederi e altre tipicità nella produzione di Sarazanmai e che tale punto focale fu aggiunto quando il progetto fu avviato, proprio per evitare una censura creativa (furbi), ma il resto dell’utilizzo della figura maschile come veicolo per un particolare tipo di messaggio è una pratica decisamente utilizzata.
Il primo paragone che viene alla mente dei navigati è Arakawa Under the Bridge e il modo in cui il folklore viene distorto al fine di creare ilarità e caratterizzazione. Anche lì c’è un kappa dall’atteggiamento bislacco e un uomo stella che mette in mostra il suo fisico scolpito ogni due per tre. Non è fanservice per ragazze, piuttosto è quasi una volontà di rendere un personaggio più “sincero” e diretto, caratteristica essenziale se si vuole parlare di connessioni ed emozioni umane.
In Sarazanmai il “nudo”, se così vogliamo chiamarlo, serve ad accentuare principalmente la fragilità dei vari componenti del cast, soprattutto quando devono connettersi insieme dopo aver assorbito il desiderio del kappa zombie. Se nel getto d’acqua del Sarazanmai perdono la forma kappa per tornare umani e svelare i propri segreti, allora non potevano che apparire come mamma li ha fatti in una danza al limite tra il mentale e il subliminale.
Eppure allo stesso tempo, tale espediente serve anche a comunicare la forza “morale” dei protagonisti nello sforzo di connettersi con gli altri, comunicando la loro volontà ferrea di volerlo fare “nonostante” la nudità, l’imbarazzo, i segreti e tanti altri naturali ostacoli che ci impediscono di realizzare il nostro desiderio di avvicinarci. Da qui la necessaria rappresentazione della forma muscolare e della figura scolpita, particolarmente utilizzata nelle sequenze di Estrazione del Desiderio (la shirikodama) e nella danza della parte cattiva delle Lontre: i principali nemici dei kappa simboleggiati da due aitantissimi poliziotti innamorati tra di loro.
Fragilità e forza sono due lati della stessa medaglia e non potrebbe essere altrimenti, considerando che il tema centrale dei collegamenti si accompagna anche a una riflessione sull’amore e sul desiderio: due dei principali motori che portano l’umano a relazionarsi oltre la solitudine. Animale sociale com’è (e vi sarete stancati di sentirlo), è costretto a rispecchiarsi nell’altro per definire la propria identità. Una dinamica che Sarazanmai porta all’eccesso e che, per certi versi, favorisce l’idea della costruzione del proprio io attraverso le riflessioni derivate dalle esperienze di vita.
I due esempi maggiori di cambiamento interiore atipico, messi al cuore della prima parte dell’anime, sono quelli di Enta e Kazuki. Il primo si dichiara omosessuale e non desidera altro che stare con Kazuki, il suo amico di sempre e partner preferito nella squadra di calcio. Un amore represso e lasciato nella propria intimità fino a quando la forma di kappa non gli ha permesso di collegarsi con gli altri, arrivando perfino a un passionale bacio rubato. Da lì Enta lotta per riuscire a far passare i suoi sentimenti al suo amico, puntando alla sincerità nonostante una barriera insormontabile: la paura di non essere accettato, di rovinare il legame creato e di essere escluso sono alcuni dei sentimenti più comuni per chi si trova in situazioni del genere. Eppure anche questa incapacità di comunicare si tramuta e si evolve, diventando qualcos’altro in favore del nuovo trio che si forma con a storia dell’anime.
Kazuki, d’altro canto, pratica crossdressing (ovvero si veste e comporta da femmina) per riallacciare il rapporto con il fratello più piccolo dopo un evento drammatico. Vestendosi però come l’idol preferita del suo fratellino, è riuscito a instaurare un rapporto sincero che altrimenti non potrebbe avere se si collegasse come Kazuki. Senza fare troppi spoiler sul perché, questa decisione viene vissuta con dolore dal nostro protagonista. Annullando la propria identità e genere si è posto di fronte a un enorme sacrificio per connettersi con i suoi cari, distruggendo la propria persona per crearne una finta e presa in prestito. Vestirlo da femmina serve proprio a far capire l’odio che prova per sé stesso, un senso di colpa talmente forte che non può essere espiato dal suo corpo, il quale diventa solamente un contenitore da vestire all’occasione.
Parlando di contenitori vuoti, l’ultimo caso particolare per l’utilizzo del corpo come veicolo immaginifico è rappresentato dalla coppia di poliziotti Reo e Mabu, i quali vengono introdotti con una mascolinità disarmante – essendo poliziotti che si spogliano per cantare – per poi essere veramente svelati nella loro estrema fragilità. I due si amano alla follia ma, per via delle perfide lontre, finiscono per non riuscire a connettersi. Entrambi desiderano di stare con l’altro, è l’unico loro volere, ma per un motivo o per un altro finiscono per essere sempre distanti, impossibili da conciliare se non in brevi e fugaci momenti.
Nelle scene a loro dedicate viene posta molta attenzione alla loro forma fisica, la quale però cela meccanismi ben lontani dalla solidità statuaria dei loro pettorali. Mabu, per esempio, possiede un cuore meccanico che risponde a precise regole dettate dalle Lontre e che, infine, lo porterà a dover fare delle scelte contro la sua volontà. Reo è invece impulsivo, il fatto che sia lui a detenere la pistola dei sentimenti è una dichiarazione d’intenti: lui è ciò che più rappresenta la parte umana, irrazionale, della coppia. La parte che anela al desiderio, alla passione e all’amore più cieco. Un simbolismo che viene esplicitato negli ultimi episodi, dove viene effettivamente approfondito il loro legame.
Tra sipari al limite dell’hot e profonde sequenze dalla forte impronta registica, Ikuhara è riuscito a donare alla fisicità una dimensione assolutamente tutta sua, un po’ come ha fatto in Yurikuma Arashi per la controparte femminile. Il folklore e le tipicità del giappone donano la dimensione onirica del racconto, lasciando che l’intera ambientazione non sia un luogo “fisico” quanto puramente una rappresentazione di un concetto, così come lo è il nemico principale dello show. Non c’è nulla di fisico nel senso letterale del termine se non i corpi dei protagonisti, il resto è totalmente cangiante e astratto, una manifestazione delle parole chiave che Ikuhara ha voluto imprimere in questa visione.
Allo stesso tempo la rappresentazione della fisicità diventa un modo per parlare di sentimenti e accettazione attraverso un canale omosessuale, il quale però non è mai ridicolizzato o visto come atipico, anzi. Parte dell’insegnamento che si può trarre da Sarazanmai è che non importa come esprimi il tuo amore e il tuo io: per connettersi si soffre e si è felice, ci si sforza al massimo per toccare l’altro anche solo per un breve e memorabile secondo. Tenere acceso questo desiderio di volersi costantemente legare con il prossimo, il mondo e i nostri cari è ciò che permette a noi tutti di essere noi stessi, in una sorta di grande ciclo fatto di insiemi e parole. Amore è solo una parola e va ben oltre la scorza esterna degli esseri umani, bensì è la fragilità interna a farci provare questo sentimento dalle mille forme e ramificazioni.