Ricordate la vicenda della Cardiff Electrics?
La Cardiff era una piccola azienda produttrice di software che di punto in bianco, verso l’inizio degli anni ’80, lascia la sua confort zone e inizia a produrre computer. Fu un caso molto particolare, le teorie complottiste di intestine guerre aziendali, spionaggio industriale e reverse engining si perdono, ma tutte vedono al centro della vicenda, ... Ricordate la vicenda della Cardiff Electrics?
La Cardiff era una piccola azienda produttrice di software che di punto in bianco, verso l’inizio degli anni ’80, lascia la sua confort zone e inizia a produrre computer. Fu un caso molto particolare, le teorie complottiste di intestine guerre aziendali, spionaggio industriale e reverse engining si perdono, ma tutte vedono al centro della vicenda, o almeno tra gli attori principali, la figura di Joe MacMillan, ex impiegato di altro profilo della IBM che venne assunto proprio in quel periodo dalla Cardiff e quello che fino ad allora era un ingegnere elettronico dalle aspirazioni castrate occupato a scrivere e riscrivere aggiornamenti software di nome Gordon Clark.
E ancora, sicuramente per una banale casualità, è solo per caso che nei mesi successivi all’assunzione di Joe l’IBM inizio a reclutare molti dipendenti della Cardiff, lasciandoli praticamente a secco, tanto da dover assumere una nuova generazione di programmatori, ragazzini brufolosi e nerd incalliti. Fatto sta che alla fine il loro pc raggiunse gli scaffali dei negozi, il Giant, il primo computer portatile della storia “Sta in una ventiquattrore”, 7kg in tutto, e ancora “due volte più veloce di un IBM e costoso la metà” urlava all’epoca la stampa.
Un successo tale che l’esperimento fu bissato dal Giant Pro, ma ovviamente la storia non si ripete e la seconda macchina non aveva la forza immaginifica del primo, rivoluzionario apparecchio.
La Cardiff da azienda di famiglia venne venduta, il team smantellato e tutti gli azionisti lautamente ricompensati, qualcuno all’epoca mormorava comunque la vendita sottostimata. Ma le leggende metropolitane si sprecano anche sulla vendita, sul motivo della stessa e sulla completa scomparsa dai radar di Joe MacMillan, per quanto uno come lui potesse sparire e come ci sia riuscito si sa poco, se non che l’unica traccia del suo passaggio fu un furgone con il primo carico di Giant ritrovato nel deserto texano completamente carbonizzato.
Ovviamente non potete ricordarla, perché non è mai successa, se non nella realtà fittizia di HALT AND CATCH FIRE, period drama della AMC ambientato ai tempi della rivoluzione del personal computer, quando i computer iniziarono a passare da ingombrante macchina da lavoro ad oggetto di uso (relativamente) comune. In Italia è arrivata tardi e doppiata male, probabilmente perché la materia ritenuta di scarso interesse per lo spettatore medio, in realtà è a tutti gli effetti il Mad Men dei personal computer, con al posto di un carismatico Don Draper un poligono di rapporti di forza tra personaggi in constante ricerca di equilibrio.
È una serie sul pionierismo, sull’incessante spirito dell’essere umano di modificare la propria sorte, sulla capacità di creare imbrigliata in codice e silicio che quell’epoca ha portato. Al centro della scena, come elementi opposti e spesso antagonisti le due figure principali. In un angolo l’affascinante e carismatico Joe MacMillan, interpretato da un Lee Peace perfettamente nella parte, che forse ricorderete imparruccato da Re degli Elfi nella trilogia dello Hobbit di Peter Jackson o bardato da Ronan L’Accusatore per il MCU. Dall’altro lato, perfettamente speculare nei modi, nel carattere e nelle ambizioni, il Gordon Clark di Scoot McNairy, tristemente noto come l’impiegato della Wayne Tech che perde le gambe in Batman v Superman.
Se da un lato Joe è un visionario, elegante e carismatico, un venditore nato che rovescia la realtà con la sua forte ars oratoria, Gordon è un ingegnere puro, ha tentato senza riuscirsi di produrre
una sua macchina anni prima dell’inizio della storia e questo ha quasi distrutto il suo matrimonio e la sua vita, rifugiatosi alla Cardiff per portare a casa il pane, sottosfruttato, infelice e con una
personalità dipendente, la sua vita diventa la miccia innescata dall’arrivo di Joe, questo mutamente di equilibri lo porterà a camminare sull’orlo del baratro. Ma questi due maschi in costante lotta per l’equilibrio tra le aspirazioni visionarie e la reale possibilità di realizzare tecnicamente qualcosa non sarebbero andate lontano senza le loro controparti femminili.
Da un lato abbiamo Cameron Howe di Mackenzie Davis (Blade Runner 2049 e Terminator Dark Fate), tutta gioventù, genio e sregolatezza, artista del codice che si muove sui tasti come su di un pianoforte, compone codice come una sinfonia e renderà possibile il Giant scrivendone da zero il Bios, arrivando alla geniale intuizione di sviluppare un sistema operativo che permette al Giant di dialogare con l’utente. Asperità caratteriali, totale assenza di compromessi e abbondante menefreghismo verso le politiche aziendali completano il quadro. Dinamite pura il contraltare femminile di Gordon è invece sua moglie Donna, anche lei ingegnere informatico bloccata in un lavoro senza sbocchi alla Texas instruments che non perde occasioni per dare il proprio apporto al lavoro del marito con la sua innata capacità di pensare fuori dalla scatola, sarà grazie a lei che verrà sviluppata l’architettura pluristrato rivoluzionaria dell’hardware del Giant.
Ultimo ma non ultimo, il volto umano di tutta la faccenda, il John Bosworth di Toby Huss, il “bravo ragazzo del Texas”, capoccia della Cardiff che dirige la baracca, inizialmente scettico e ostile si troverà coinvolto nell’impresa e affascinato dalle grandissime capacità di Cameron diventato il classico surrogato di figura paterna, disposto a sporcarsi le mani pur di far andare in porto il Giant.
Da bravo period drama, HCF è una storia sui tempi che cambiano, di come l’innovazione ha mutato la percezione della macchina personal computer, ma la cosa interessante è che pur essendo ambientato negli anni '80 non diventa un pacchiano baraccone di luci fluo, canzoni dei Journey, non è pop, non cavalca la nostalgia in nessun momento, nemmeno per sbaglio, del resto nel 2014 la nostalgia non era ancor un business, la serie è collocata lontano dal fittizio ricordo di qualcosa che non si è vissuto avvicinandosi il più possibile alla sfera del verosimile. Non c’è nulla di “fashion”, niente di modaiolo al di fuori dello stile da yuppy di Joe MacMillian, sono gli anni 80 ridotti all’osso senza orpelli, senza la sindrome dell’epoca d’oro, quella fascinazione per un ricordo idilliaco che nessun periodo storico è mai stato. Sempre con la stessa naturalezza vengono trattate le figure femminili che si muovono all’interno di quella che per la cultura di massa è un mondo esclusivamente maschile, un campo nerd, quello della programmazione, dell’hardware.
La centralità di Cameron e Donna non viene mai esaltata né sottolineata, sono le loro azioni che parlano e non una scrittura condita di stucchevole retorica femminista e di “girlpower”, non viene mai relegato loro uno spazio “a parte”, sono i loro ruoli che parlano, le loro capacità a parlare e non un “lasciare il posto” dei personaggi maschili. Il rapporto di contrasto tra queste due figure così forti e ben caratterizzate dà il la alla seconda stagione, a causa di eventi Cameron scarica la Cardiff portandosi dietro i suoi programmatori per fondare Mutiny, una piattaforma di gioco online, un antesignano di Steam, un servizio in abbonamento che distribuisce giochi (su floppy da 5 1/4 pollici) via posta e che finirà per connettere le persone grazie ad un’idea di Donna, ancora una volta, la forza del think outside the box in una circostanza già di per se al di fuori dell’ordinario.
Pur essendo a tutti gli effetti il Mad Men dei personal computer, Halt and Catch Fire è una vicende profondamente umana, parla di visioni, del salto di paradigma che un’innovazione tecnologica può fare, del pensiero creativo che si adatta e cambia con la capacità di un fluido di prendere la forma del recipiente in cui è versato.
Con il senno di poi, conoscendo le varie vicende che hanno coinvolto aziende come id software, o la stessa console war tra Sega e Nintendo negli anni ’90, fino ai recenti casi di crunching nelle software house per rientrare nei tempi di consegna di un gioco, non è difficile considerare questa serie come un modello in scala della realtà, una rappresentazione verosimile delle situazioni che si trovano a vivere sviluppatori hardware e software per l’uscita di un prodotto che può fare la differenza tra il successo e il “tutti a casa”.
Questo articolo fa parte della Core Story di ottobre, dedicata ad Ada Lovelace e a tutto il mondo sommerso del nerdismo al femminile.