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Recensioni Urania – Mike Resnick: Antares – La Prigione

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Continua il nostro viaggio nel Birthright Universe di Mike Resnick, con la recensione del secondo volume della trilogia dei Senza Speranza: Antares – La Prigione

Nello scorso appuntamento abbiamo introdotto i nostri lettori al Birthright Universe del buon Mike Resnick, trattando nello specifico il primo romanzo della suddetta trilogia dei Senza Speranza (per i più anglofoni Dead Enders): Orion: La Fortezza. In quell’occasione assistemmo all’eroica – e altrettanto estrema – impresa di sostituire la più alta carica della Coalizione, l’eminente Michkag, con un clone perfettamente addotto dalla Democrazia. Ma le vicissitudini di Pretorius e dei suoi Senza Speranza si sono concluse con il termine della missione su Orion? Naturalmente no, d’altronde la guerra è pur sempre guerra, solo che questa volta la misuriamo su scala galattica.

In questa missione la squadra si cimenterà in un’impresa in egual modo estrema, il cui svolgimento potrebbe ricordare alcuni fatidici passaggi già intravisti nel precedente scritto: La Coalizione Traskei sta devastando i pianeti colonizzati dagli umani facendo ricorso a un devastante ordigno orbitale, la Bomba Q.

Questa sembra apparentemente non intercettabile e non prevenibile, almeno finché un’illustre ricercatore della Democrazia, tale Edgar Nmumba, mette a punto un sistema in grado di dissipare la bomba e quindi rendere inutile il processo di persuasione violenta della Coalizione.

La guerra torna quindi nel vivo, con le due forze nuovamente paritetiche. Qualcosa di inaspettato e potenzialmente catastrofico accade: Edgar Nmumba viene rapito e apparentemente trasferito in un pianeta prigione nel settore di Antares. Se attraverso la tortura egli dovesse rivelare in che modo permette alla Democrazia di neutralizzare la bomba Q, questi avrebbero la capacità di poter ovviare il difetto e riproiettare la guerra in una fase di costante bombardamento planetario.

Qui entrano in gioco Pretorius e i suoi; dovranno infatti localizzare il pianeta, infiltrarsi nei suoi fitti tunnel, e recuperare Nmumba. L’impresa è nuovamente al vertice della tensione e ai senza speranza spetta il compito di tentare qualcosa che i numeri danno per impossibile.

La diegesi di questo secondo romanzo è tanto simile quanto profondamente diversa rispetto al suo precedente scritto.

Qui Resnick altera la metrica della sua scrittura proponendo un testo freddo e dirompente, sfruttando momenti di tensione di cui il precedente romanzo era in larga parte sprovvisto. Le due imprese potrebbero risultare piuttosto omonime, d’altra parte anche in questa circostanza l’autore edifica l’avventura utilizzando degli elementi archetipi decisamente ricorrenti: abbiamo la delineazione di un obiettivo, l’organizzazione e quindi i preparativi per il suo adempimento, la ricerca di informazioni utili, l’azione, l’assestamento, nuovamente l’azione, l’eventuale colpo di scena (qualora dovesse esserci) e l’epilogo.

Questa è la matrice di sviluppo di entrambe le storie, eppure appena qualche rigo sopra introducevo l’esegesi del testo descrivendo questo romanzo come “tanto simile quanto profondamente diverso” dal predecessore.

Perché? Innanzitutto i tempi del racconto sono diversi, a tratti molti più lenti e ponderati, inoltre in questo caso specifico la funzione dell’intero equipaggio è decisamente meno meccanica, come se in questa iterazione i personaggi siano fuoriusciti dagli schemi della modalità di fabbrica.

Sono meno convenzionali, più estroversi e la loro integrità – fisica in particolar modo – è spesso portata a limiti dall’esito fatale; al contrario in Orion, nonostante le indubbie situazioni al cardiopalma, non si aveva mai la percezione che l’incolumità del gruppo fosse messa in discussione. Il romanzo presenta anche in questo caso delle digressioni degne di nota, nonché variazioni nella tipica economia della narrazione. Resnick propone spessi cambi di direzione, limitando la possibilità dell’lettore di poter congetturare. Questo è piacevole e tedioso al contempo, ciononostante preferisco smentire una mia potenziale deduzione piuttosto che anticipare l’intero romanzo a pagina quaranta.

Con questo romanzo è confermato il modus operandi di Resnick di contaminare i suoi lavori con linguaggi provenienti da altre aree della narrativa.

 La science fiction è senza dubbio il timbro più ingombrante (e vorrei ben dire), ma questa non si limita a riproporre i luoghi e gli spazi del precedente romanzo, bensì ne computa di nuovi, proponendo nuove tecnologie, nuovi mondi e nuove razze con i relativi tratti sociali, biologici e linguistici (non ho trovato esatto utilizzare “antropologici”) .

Nella precedente review individuavo nella spirale stilistica del romanzo la presenza del techno-thriller, uno stilema letterario nato a cavallo fra gli anni sessanta e settanta come estensione del più classico romanzo spionistico, e poi sviluppatosi autonomamente a partire dagli anni ottanta.

Resnick impiega il techno-thriller in maniera convenzionale, importando nei romanzi in questione, tutte quelle sfumature archetipe tipiche del genere. In questa iterazione la sua veicolazione è persino più pertinente, avendo osservato un miglior utilizzo di quei canoni tanto cari agli habitué di James Rollins e compagine.

 A questo punto è obbligatoria una specificazione che nel precedente articolo avevo erroneamente esentato:  il binomio fantascienza/techno-thriller pecca di ridondanza, e vi spiego il perché.

Alla base della costruzione di un setting di stampo techno-thriller c’è, seppur a volte fin troppo sopita, una traccia fantascientifica. La natura di alcune iperboli ingegneristiche presenti in molti romanzi del genere, discendono unicamente dalla buona tradizione fantascientifica.

Questa è una delle ragioni del suffisso “techno”. Michael Crichton su tutti ha compreso a pieno la natura del genere, e romanzi del calibro di Micro o Andromeda Strain ne sono dei fulgidi esempi. Persino Tom Clancy è più volte ricorso a espedienti fantastici per la costruzione di molti dei suoi topoi; la fantapolitica è fanta per una ragione.

Tornando ad Antares, parlavamo di come l’autore abbia nuovamente fatto ricorso alla commistione di generi per la stesura del romanzo. Questo è percepibile, quasi palpabile, per la sua intera durata.

L’ambiente fantascientifico si amalgama meravigliosamente anche a quelle sfumature cinetiche di cui la trilogia è pregna. Le sequenze action qui sono frenetiche in misura di gran lunga maggiore rispetto al suo predecessore, mostrando rocambolesche fughe e sparatorie degne della più calda delle frontiere (la fantascienza è il genere che più ha beneficiato dall’iconografia western).

Per mia somma gioia, la nota più positiva di questo scritto è proprio il suo finale; quel finale che in Orion tanto non avevo digerito per la sua poca cura. Qui Resnick si concede degli ampi respiri, prende fiato e pondera i tempi in maniera ottimale: non avremo alcuna approssimazione, non ci perderemo in dialoghi ricorsivi e prolissi, ma ci verrà concessa l’azione più pura e d’intrattenimento.

 Il grand finale è furbo, volendo ricorrere al più facile degli epiloghi: il cliffhanger. C’è da dire che però funziona, in particolare se consideriamo che questo anticipa il soggetto del terzo e ultimo romanzo della trilogia. 

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