Piggy, il corpo fisico e culturale dell’horror oltre il mito della Final Girl
Con Piggy lo slasher si libera delle vestigia del mito della Final Girl e ci regala una protagonista horror che non si era mai vista.
Un piccolo film spagnolo del 2022, Piggy (o Cerdita in originale) ha avuto la capacità di far incontrare e fondere due annosi dibattiti sulla rappresentazione femminile nell’horror che vanno avanti da decenni. E lo ha fatto in 90 minuti.
Basato sul cortometraggio omonimo della medesima regista, Carlota Pereda (che nel 2019 si è portata a casa il Goya, ovvero il maggior premio cinematografico spagnolo), Piggy si presenta come uno slasher apparentemente classico, ambientato nella campagna iberica assolata dove uno sconosciuto killer se la prende con un gruppo di adolescenti spensierate.
Quello che Piggy fa dal minuto uno è invece un gioco di ribaltamenti e disinnesco delle aspettative che prende lo slasher e lo piega al proprio volere, andando a tagliare in maniera chirurgica dove al cinema horror solitamente fa più male: sul corpo delle donne.
La protagonista di Piggy è Sara e Sara è una ragazza grassa, carina in maniera goffa come gran parte delle adolescenti, ma con un corpo vessato da continue aggressioni grassofobiche da parte della madre e delle coetanee del paese. Quello di Sara è allo stesso tempo un corpo caratterizzato dalla sua essenza materica apertamente femminile che si scuote, si brucia, si eccita, mangia e sanguina (non da una ferita di coltello) ma anche un corpo culturale, sul quale si riflettono convinzioni, pregiudizi e paure della società che lo contiene.
Il corpo del reato
Il corpo di Sara non è neutro, non è una tela su cui proiettare la propria esperienza, perché forza il pubblico ad adottare una prospettiva ben precisa, quella di una corporeità più spesso associata al villain della storia.
L’horror non è particolarmente noto per la sua sfaccettata rappresentazione del grasso e di solito si limita a buttare qua e là un’adolescente grassa da far fuori il prima possibile o più sovente un killer dalla mole imponente, quando non flaccida, come nel caso di Leatherface o di Annie Wilkes in Misery.
Tornando al concetto di corpo culturale, possiamo dire che nella maggior parte dei casi al grasso nell’horror è associata la mostruosità di un corpo assassino, non certo quello di una protagonista. Lo slasher delle origini è inoltre un sottogenere superficialmente associato a un pubblico maschile e infatti solitamente costruito per aderire a uno sguardo maschile con precise direttive di eteronormatività.
Avere una protagonista femminile nello slasher serviva un doppio scopo al servizio del male gaze, come scrisse Carol J. Clover già nel 1992 in “Men, Women and Chainsaws”: “è un congeniale doppio per i maschi adolescenti. È abbastanza femminile da mimare in maniera gratificante (una maniera non consentita ai maschi adulti) i terrori e il piacere masochista di fantasie nascoste, ma non tanto femminile da disturbare le strutture di competenza e sessualità maschile.”
Aggiungerei che, sebbene sia spesso presentata come non sessualmente attiva o più androgina delle sue compagne, la protagonista dello slasher portava con sé immancabilmente anche i canoni della desiderabilità più socialmente accettati. Il suo era sempre e comunque un corpo universalmente riconoscibile come attraente, ed era contemporaneamente oggetto del desiderio per il pubblico e per il killer.
Mettendo in crisi le regole della desiderabilità canonica e della femminilità docile, Piggy ci regala una protagonista che ha poco da spartire con le classiche Final Girl, probabilmente perché non è affatto una Final Girl.
Da qui in poi potrebbero esserci informazioni considerate spoiler. Se volete conservare la completa sorpresa per il finale, guardate prima il film (reperibile in dvd ma non con edizione italiana)
La Final Girl è morta, lunga vita alla Final Girl
La definizione di Final Girl si deve alla sopra citata Carol J. Clover e identifica la protagonista di molto horror, colei che da sola sopravvive agli attacchi dell’assassino, è letteralmente l’unica che rimane in vita. Per certi versi la Final Girl ha dato al pubblico femminile la possibilità di vedersi rappresentato in un ruolo di riscatto, di lotta all’aggressione con tutti i mezzi necessari, ma numerosi aspetti della sua costruzione fanno senza dubbio rivalutare l’analisi spietata di Clover, che vede le figure femminili dello slasher possibili “solo quando leggono un qualche aspetto dell’esperienza maschile”.
Pensiamo alle immancabili caratteristiche di desiderabilità a cui accennavamo prima, pensiamo al fatto che solitamente le Final Girl sono un congegno narrativo basato sulla reazione e non sull’agency, pensiamo alla retorica della scarsità, lo strumento forse più pericoloso nell’arsenale del patriarcato. La Final Girl classica deve quindi essere convenzionalmente attraente, votata unicamente alla sopravvivenza e, soprattutto, una soltanto.
Su queste caratteristiche si è costruito il mito della Final Girl, una figura spesso reclamata dalla critica femminista nonostante la consapevolezza della sua nascita sessista. Per fortuna nel corso degli anni il mito si è più volte incrinato, giocando con l’inversione dello schema come in “Finché morte non ci separi” o “The Hunt” dove una sola sopravvive ma è contrapposta a un gruppo ostile numeroso invece che a un killer solitario, oppure con i remake basati sul punto di vista femminile (anche produttivo) come in “The Craft: Legacy” o “Black Christmas”.
Ciò che caratterizza in particolare questi ultimi esempi è soprattutto il rifiuto della solitudine della Final Girl, l’assenza della sua incoronazione come più forte, più brava, più intelligente, più degna di sopravvivere.
La nuova arma a disposizione delle protagoniste dello slasher (finalmente al plurale) sta proprio nel ricorso alla comunità, alla collaborazione e all’eliminazione della vendetta come obiettivo supremo. In Piggy si trova meravigliosamente questa deviazione dalla norma nel violentissimo finale.
Mentre Sara si allontana dal luogo del massacro ricoperta di sangue ci ricorda una Carrie che è stata battezzata nel fuoco ma ne è uscita trasformata senza bisogno di ritorsione, e può quindi percorrere la strada che la riporta a casa con orgoglio e potere, invece che con la follia negli occhi come la Sally di Non aprite quella porta.