STAI LEGGENDO : “Che cosa vuol dire jump scare?” e altre domande sull’horror

“Che cosa vuol dire jump scare?” e altre domande sull’horror

Condividi su:

La stagione di Halloween è il momento migliore per approfondire il cinema horror, con la seconda parte del glossario che risponde a tutte le domande.

Ottobre è arrivato. Ci addentriamo nella cosiddetta spooky season, la stagione di Halloween. Il suo bello è stringersi attorno al fuocherello digitale degli schermi a guardare le storie di fantasmi. L’occasione è propizia per proseguire col glossario del cinema horror. La scorsa settimana abbiamo visto cos’è un teen slasher, qual è la storia del termine final girl e la differenza tra reboot e remake. Oggi andiamo avanti con la divulgazione del terrore esplorando alcuni argomenti legati al cinema e alla tv degli ultimi vent’anni: vediamo cosa vuol dire jump scare; che cos’è un found footage; perché sono importanti la Blumhouse e James Wan.

CHE COS’È UN JUMP SCARE?

Potremmo tradurre il termine “jump scare” come “spavento che ti fa saltare sulla sedia”. Da sempre usata nell’horror, è una tecnica per girare scene in cui il pubblico viene colto di sorpresa con un grosso spavento.

glossario horror

Ci sono vari modi per creare un jump scare. Il più diffuso segue una struttura divisa in tre parti. All’inizio di una sequenza che culminerà in un jump scare, vediamo un personaggio in una situazione sinistra. Immaginate una donna in casa da sola, che sente un rumore provenire da un’altra stanza. C’è tensione. La donna è preoccupata, va verso la fonte del rumore per controllare. Noi che guardiamo, temiamo per lei. Sappiamo che aria tira: è buio, c’è una musica inquietante e siamo in un film dell’orrore. Il pericolo è in agguato.

 

Seconda parte: la donna entra nell’altra stanza, si guarda attorno. All’improvviso, il suo gatto salta giù dall’armadio, facendole prendere un colpo. “Ah, ma era soltanto il micio! Che sciocca che sono!”, si dice la donna. Ahah. La tensione sembra risolta, il pericolo scampato. Terza parte: la donna si gira per tornare in salotto. SVAM! Un serial killer ghignante le si para davanti col suo coltellaccio. La colonna sonora esplode in suoni stridenti. Eccovi un classico jump scare.

Se chi gira il film ha mestiere, può giocare con questa formula. Il pubblico la conosce, per cui si può spostare il momento dello spavento altrove, dove è più difficile prevederlo. Lo si omette dove sembrerebbe ovvio, per proporlo poi in maniera inaspettata. Oppure si può rispettare la struttura, ma prolungarla fino a rendere la tensione insostenibile.

 

Oltre a questa versione più strutturata del jump scare, ne esiste un’altra più elementare, di solito considerata di cattivo gusto. Non prevede tutta questa costruzione attraverso il depistaggio. C’è tensione e qualcosa sbuca sullo schermo all’improvviso, come qualcuno che arriva e ti fa BU! Questa modalità meno arzigogolata ha avuto un momento di larga diffusione alla fine degli anni 2000.

In quel decennio, era diventato virale un tipo di video in cui era richiesto al pubblico di concentrarsi su un’immagine che veniva mostrata, per esempio una spirale in movimento. Dopo qualche secondo, un mascherone mostruoso faceva irruzione nell’inquadratura, accompagnato da un effetto sonoro rumorosissimo.

 

Si trattava di un meme in formato horror, noto anche come “internet screamer”. Spesso lo abbiamo visto replicato nei film. Questo tipo di facile spavento si è guadagnato rapidamente il disprezzo di fan e critica quando è stato abusato nel cinema. Entrambe le versioni del “jump scare”, sono state ampiamente utilizzate dalla casa di produzione Blumhouse, a partire dal found footage di Paranormal Activity. E questo ci porta a un’altra domanda:

CHE COS’È UN FOUND FOOTAGE?

Paranormal Activity è uno degli esempi più noti di “found footage”. Mi riferisco a opere nell’ambito del falso documentario, presentate come il montaggio di un girato – il “footage” – che è stato ritrovato – “found” – dopo un avvenimento sinistro. Questo footage per sembrare realistico può essere grossolano e pieno di immagini confuse, simili a quelle a cui ci ha abituato l’era digitale.

Il primo grande successo commerciale nell’ambito dell’horror found footage è stato The Blair Witch Project nel 1999. Nel film, assistiamo alla spedizione di tre videomaker che vanno in un bosco per girare un documentario sulla leggenda locale di una strega. Ciò che vediamo ci viene presentato da una didascalia iniziale come il montaggio dei filmati ritrovati dopo la scomparsa dei protagonisti: ecco il “found footage”. Blair Witch non è il primo film a essere costruito in questo modo, ma i suoi risultati hanno segnato un momento di passaggio.

 

The Blair Witch Project ha avuto degli incassi strabilianti: 248 milioni di dollari a fronte di un budget complessivo di circa mezzo milione, di cui solo 60.000 dollari sono stati usati per girarlo. L’estetica del found footage infatti è volutamente povera, quindi non costa moltissimo produrla.

Nel corso degli anni 2000, ci sono stati parecchi esperimenti nello stesso ambito. Uno dei più riusciti è lo spagnolo Rec di Jaume Balagueró e Paco Plaza, del 2007. Nella sua narrazione, il footage è registrato da una giornalista e dal suo cameraman mentre seguono un intervento dei pompieri. Finiscono intrappolati dentro a un condominio in cui si sta diffondendo qualcosa che sembra un’epidemia zombie.

Nel 2008, arriva un found footage ancora più ambizioso con Cloverfield di Matt Reeves, cioè il regista del Batman più recente. Cloverfield racconta un attacco su New York da parte di un mostro gigantesco. La tecnica del found footage risulta particolarmente innovativa in un film di genere catastrofico, che di solito prevedeva un tipo di immagine ben più artificiosa.

 

Per quanto versatile, l’immediatezza data dallo stile found footage descrive bene tutto ciò che si appella alle nostre emozioni più forti. Per prima, la paura. È una tecnica ottima per creare suspense e identificazione.

A maggior ragione, è uno stile perfetto per gli anni 2000. Parliamo di un’epoca costellata da onnipresenti videocamere di sicurezza, telefoni sempre più tecnologici e dispositivi tascabili di ogni sorta. È il periodo in cui nascono nuove piattaforme per video come YouTube, che viene fondata nel 2005. Sono gli anni dei primi social, dei pixel e dei film scaricati. Come vedete, siamo di nuovo nell’ambito di internet, come quando abbiamo parlato di jump scare.

 

Paranormal Activity del 2007 è un film che intercetta sia la contemporaneità dell’estetica found footage, sia la viralità del jump scare. Pur essendo un prodotto totalmente figlio del suo tempo, è anche quello che ci trasporta nel decennio successivo, dando il via a molto di ciò che seguirà.

Spesso tendiamo a pensare all’horror contemporaneo riferendoci ai film con un maggiore riscontro critico, come The Babadook o Midsommar, che sono opere straordinarie. Ma ci dimentichiamo di come tutta una certa nicchia di horror più alternativo sia potuta fiorire perché il genere è tornato a essere di grande richiamo per il pubblico, proprio con film più di cassetta come Paranormal Activity.

 

Una delle novità più importanti a guidare la rinascita dell’horror come genere è stata la casa di produzione Blumhouse, che ha fatto il suo passaggio definitivo all’horror proprio con questo film.

PERCHÉ LA BLUMHOUSE È IMPORTANTE?

La casa di produzione cinematografica di Jason Blum è responsabile di una grossa fetta dell’horror più commerciale degli ultimi 15 anni. Fa eccezione proprio per The Conjuring, che non è un loro progetto, ma che probabilmente non sarebbe mai esistito senza i vari tasselli che vi ho elencato fin qua. La Blumhouse è uno di questi.

Il suo fondatore Jason Blum dagli anni Novanta lavora per la Miramax, lo studio dei famigerati fratelli Weinstein. Nel 2000 fonda la Blumhouse. Realizza per qualche anno film di vari generi, assolutamente non horror. Quello più famoso è la commedia nera The Darwin Awards, del 2006.

 

La svolta però arriva nel 2007, quando Blum riceve il dvd di un film found footage sovrannaturale realizzato con un budget microscopico, soltanto 15.000 dollari. Si tratta di Paranormal Activity, del regista israeliano Oren Peli. Il film colpisce Blum, che lo fa rimontare e trova un accordo di distribuzione con la Paramount Pictures. Nel 2009, Paranormal Activity arriva in sala. Il successo è clamoroso. Da un budget iniziale piccolissimo (circa 200.000 dollari di post-produzione) viene ottenuto un incasso globale di 193 milioni.

È un film all’apparenza elementare, che però riesce a coinvolgere tantissimo il pubblico. È la storia di una ragazza perseguitata da una presenza malevola. Il suo fidanzato – che a mio avviso è una presenza altrettanto sconfortante – decide di filmare la loro vita per documentare quello che sta accadendo.

 

Abbiamo quindi una serie di inquadrature della loro routine quotidiana, continuamente turbata dall’infestazione sovrannaturale. Tutto molto semplice, insomma, però così efficace, forse proprio perché lo seguiamo come se fosse un reality show. Sembra vero, ma allo stesso tempo ha il ritmo di una narrazione costruita ad arte. Jump scare compresi.

Il film di Oren Peli si trasforma nella prima saga della Blumhouse. Da qui in avanti, la casa di produzione continua a usare questo modello di business: realizza film con budget relativamente piccoli – ovviamente non si parla più di 200.000 dollari, ma di cifre tra 1 e 3 milioni, durante i primi anni. L’investimento ridotto dà spazio alla sperimentazione, nel tentativo di intercettare e lanciare nuovi trend di successo.

È un ottimo modello. Gli horror Blumhouse spesso ottengono risultati enormi rispetto al denaro investito inizialmente. Quando le cose vanno bene, si fanno i sequel. Abbiamo quindi i numerosi capitoli di Insidious e di The Purge, i due di Sinister, la trilogia di Halloween. Ci sono poi gli horror “d’autore”, come quelli di Mike Flanagan, di M. Night Shyamalan e Get Out di Jordan Peele. La Blumhouse produce anche alcuni titoli non horror che vengono nominati agli Oscar, vincendo qualche premio: Whiplash di Damien Shazelle e BlacKkKlansman di Spike Lee.

Tornando al discorso del costo dei film, Jason Blum ha impostato il suo modello economico sui budget piccoli perché gli davano la possibilità di correre dei rischi. È la stessa cosa che ha detto il regista James Wan riguardo al progetto di Insidious, la saga che lo ha messo in affari con la Blumhouse a partire dal 2010.

CHI È JAMES WAN?

Australiano di origine cino-malese, James Wan è nato nel 1977. Ha raggiunto il successo ancora giovane grazie al suo debutto cinematografico con Saw - L’enigmista nel 2004. Ideato assieme al suo fido sceneggiatore Leigh Whannell, che meriterebbe un capitolo a parte, Saw corrispondeva al modello produttivo individuato poi da Jason Blum: budget piccolissimo, poco più di un milione di dollari, risultati remunerativi con un incasso da più di 100 milioni.

Saw ha stabilito il mood dell’horror commerciale anni 2000: sporco, claustrofobico, preso male. Ha generato innumerevoli sequel e imitazioni, quasi tutte atroci. Se odiate la saga di Saw probabilmente avete delle ottime ragioni. Ricordatevi però che il primo capitolo, l’unico girato da Wan, è anche un thriller psicologico pieno di colpi di scena e idee intelligenti.

 

I successivi due film di Wan, Dead Silence e Death Sentence, sono andati male, accolti da cattive recensioni e problemi di incasso. Saw è rimasto il suo unico successo fino al 2011, anno dell’uscita di Insidious.

La scorsa primavera, Wan ha pubblicato un post su Instagram per celebrare l’undicesimo compleanno di Insidious. Nel 2022, Wan lo descrive come il suo tentativo di liberarsi dall’etichetta di “torture porn” generata da Saw.
Scriveva: “Essendo grandi fan delle storie di fantasmi e di case infestate, io e Leigh Whannell volevamo farne la nostra versione. Eravamo sicuri di poterci riuscire con un budget molto piccolo, così da avere il completo controllo creativo”.

 

Ed eccoci quindi al modello Blumhouse. Il marketing è perfetto: dagli autori di Saw e dai produttori di Paranormal Activity, arriva una storia di fantasmi e demoni piena di buio, momenti paurosi e soprattutto idee strane.

 

In un articolo per Vox del 2015, la critica Emily St. James parla di Insidious come di una saga incentrata soprattutto su due elementi: l’oltretomba e la famiglia. In queste storie che parlano di case infestate, dice St James, Wan riesce a ricreare le atmosfere dei primi film di Steven Spielberg.

Menziona Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T., per come il sovrannaturale penetra nella vita dei sobborghi. Il punto di riferimento definitivo di Insidious però è Poltergeist, un film che Spielberg non ha diretto, ma che ha scritto e prodotto. Quando St James ne parla in questi termini, non è ancora stata realizzata la serie Netflix Stranger Things, che incanalerà a sua volta le stesse idee ottenendo risultati enormi.

Dal punto di vista del 2022, appare evidente come Stranger Things sia stata fortemente influenzata anche da Insidious, non soltanto perché entrambe le opere hanno subito l’influenza di Poltergeist.
Il primo Insidious è un film che racconta la storia di un bambino intrappolato in una dimensione speculare popolata da creature mostruose. L’Upside Down di Stranger Things sembra figlio del The Further, il mondo parallelo raffigurato da James Wan. Il volume 4 della serie Netflix ha vari rimandi a Insidious, come le mani di Vecna, l’orologio a pendolo, l’uso del colore rosso.

Per quanto riguarda la televisione, ci sono almeno altre due serie fortemente influenzate dallo stile di Insidious. Mi riferisco alla prima stagione di American Horror Story, coi suoi fantasmi camp, e a un’altra serie Netflix: The Haunting of Hill House di Mike Flanagan, che riempie le inquadrature di spettri e jump scare fortemente derivati da Wan e dall’esperienza Blumhouse.

 

St James su Vox nota come Wan abbia dato ai primi due capitoli di Insidious un’atmosfera di classe. In questi termini, Wan può anche essere visto come una delle cause che hanno fatto partire quell’ondata di horror definito “elevato” su cui scherzava l’ultimo capitolo di Scream – ne parlavo in questo pezzo.

Ma si potrebbe sostenere invece che Wan non abbia fatto davvero “horror elevato”, perché il suo cinema non è mai snob. Dipende da come intendiamo la definizione di questo tipo di approccio. Un’opera come Malignant, del 2021, è il suo modo di fare “horror elevato”: è un film colto per via di tutte le sue citazioni e i ragionamenti che fa sulla storia del cinema di genere; ma al tempo stesso, rimane fieramente un b-movie.

Con The Conjuring, Wan ha trovato una collocazione commerciale più imponente. Viene prodotto non più dalla Blumhouse, ma dalla New Line Cinema, con la distribuzione della Warner Bros. I budget per ogni film della saga aumentano fino ai 40 milioni di dollari del secondo capitolo. Il successo che riscuote dà vita a innumerevoli spin-off e sequel, generando quello che fino a oggi è stato l’unico vero e proprio universo cinematico dell’orrore contemporaneo, l’equivalente di un MCU con demoni e bambole possedute.

Chiaramente, in quel contesto Wan non ha più la stessa libertà creativa (e gli manca la collaborazione di Leigh Whannell). Si è lo stesso riuscito a portare dietro tanti elementi da Insidious; per esempio, il compositore Joseph Bishara, che si trasforma nella strega Bathsheba in The Conjuring, interpretava anche il Lipstick Face Demon nella saga di Insidious. Il queer coding dei mostri però ha un effetto diverso nel mondo christian horror di The Conjuring. Ma di questo, vi ho già parlato nell’articolo dedicato al terzo capitolo della saga.

 

Questo glossario è apparso in versione audio nel mio podcast Attraverso Lo Schermo, su cinema e serie tv.

related posts

Come to the dark side, we have cookies. Li usiamo per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi