STAI LEGGENDO : Padri e videogiochi. Once more, with feeling

Padri e videogiochi. Once more, with feeling

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I videogiochi come lingua franca tra un padre un figlio che non si parlano molto, ma che si avvicinano quando c'è da vincere una partita

Febbraio è il mese dell’amore o almeno lo era prima che stessimo tutti a due metri di distanza guardandoci male per paura del Coronavirus. D’altronde dalle mie parti si dice anche “Febbraio, febbraietto, corto corto e maledetto”. Ma visto che questo mese si parla d’amore eccomi qua.

Avevo due scelte per questo tema. Il primo era raccontarvi di quando vidi per la prima volta Il Mistero della Pietra Azzurra, parliamo del 1990, avevo otto anni e improvvisamente capii cosa volesse dire amare qualcuno perché la mia prima cotta non fu per una compagna di classe ma per Nadia. Pelle di ebano di un padre indigeno e occhi smeraldo come il diamante come cantava Jovanotti, che evidentemente se lo vedeva pure lui.

Ciao amo'

Amavo Nadia di quell’amore cortese che poi impari al liceo, ero rapito dalle sue espressioni, dalle sue movenze e anche dai centimetri di pelle scoperta, ma non capivo perché.

Ero così rapito che ancora oggi ricordo solo lei e la sigla, il resto del cartone, che pure guardavo con la precisione di un otaku, mi è sconosciuto. Mi è andata di lusso che non vivevo in Giappone, altrimenti sarei diventato uno di quelli che si sposano i cuscini con le waifu, ma con Anno e lo studio Gaynax il discorso è rimasto aperto quando mi sono arrivati fra capo e collo con Evangelion in piena adolescenza problematica.

La seconda opzione era raccontarvi il mio amore per i videogiochi, ma qua c’è un problema. Io l’amore per i videogiochi non l’ho coltivato, non è sbocciato tipo quello per Lovecraft, la pizza o Alien. Le barrette colorate di Olympics Game per Atari sono il mio primo ricordo d’infanzia, erano là ad aspettarmi, non mi sono innamorato dei videogiochi, mi hanno cresciuto, erano una componente della famiglia, forse la mia generazione è una delle prime per cui era assolutamente naturale averli attorno, come mia madre e mio padre.

Ecco, mio padre, lui sì che amava i videogiochi, ve l'ho già detto nella peggiore delle occasioni.

Mio padre, un fottuto nerd.

Un amore che scocca quando vede Pong alla facoltà di ingegneria in uno di quei computer grossi come stanza, che prosegue quando Pong se lo porta a casa e poi prende l’Atari, due anni prima che io nascessi. Un amore che ovviamente ho sfruttato, perché il motorino è arrivato solo a 16 anni, ma a 15 il mio primo Pentium MMX era già là ad aspettarmi. Perché, perché internet veloce ho avuto la fortuna di provarlo proprio seduto nella poltrona del suo ufficio, dopo aver fatto finta di fare i compiti, un ufficio in cui i computer erano sempre al top e poi quando faceva un upgrade passavano a me.

Così è stato per il Commodore 64 e l’Amiga. Ogni spesa tecnologica è sempre stata giustificata, sempre (salvo console Nintendo e Sega, che erano “pezzi di plastica”). Lui era là, con me, la notte in cui è uscita la PlayStation 4, perché il gancio per prenotarne una l’aveva trovato lui, sfruttando i suoi contatti online della gilda per cui giocava a Travian.

Questo era mio padre, questo era il suo amore, questo era soprattutto il modo in cui ci scambiavamo affetto.

Lo vedete l'amore? Io sì.

Era figlio di un uomo che aveva fatto la guerra e che non esprimeva molto l’amore per chi gli stava attorno, se non col denaro. Non ti avrebbe mai detto che ti voleva bene, ma non ti faceva mancare l'ultimo giocattolo. Mio padre inevitabilmente era un po’ come lui, per fortuna meno di lui. Era una persona taciturna, gentile, ti parlava con gli occhi, non era mai per i contrasti, finché non si incazzava e urlava fortissimo per poi richiudersi a riccio (mi suona stranamente familiare). Finché ci son stati soldi in abbondanza non hai mai fatto passare un sabato a mia madre senza fiori, ma raramente l’abbracciava, pur amandola tantissimo, ne sono sicuro.

Io ero suo figlio, non sono caduto molto lontano dall’albero. Sono cresciuto in un contesto in cui gli uomini esprimono poco i sentimenti, come Clint Eastwood, non parlano di amicizia e affetto, non con i coetanei, figuriamoci con i padri, al massimo coi primi c’è un Predator Handshake, soprattutto dopo l’adolescenza. È il patriarcato, bellezza.

L'unica forma di esternazione dell'amicizia concessa alla mia generazione

Io e mio padre abbiamo sempre sublimato l’affetto attraverso i videogiochi, sulle sue ginocchia ho imparato a respingere la pallina a Pong e Arkanoid, insieme a lui ho aspettato che i giochi caricassero sulle cassettine maledette. Lui ho abbracciato quando finalmente mi ha comprato il lettore di flopponi neri morbidi, a lui mi sono appoggiato quando ho visto l’Amiga in casa e mi sono andate giù le gambe dall’emozione. Sempre lui mi accompagnava dal tizio che piratava i giochi con X-Copy.

Quando ho preso il mio primo PC è stato un po’ come un rito di iniziazione. Siamo andati assieme dal negozio di fiducia, mi ha appoggiato la mano sulla spalla, insieme abbiamo scelto la configurazione, contrattando su ogni pezzo tra la mia voglia di supercomputer e il suo bisogno di tornare a casa senza farsi strappare via la pelle da mia madre. Uscii dal negozio con la testa leggera, come la prima sbronza, ma a base di quella plastichina beige dei vecchi case.

Lui mi ha insegnato come si faceva un memory disk, come far partire un gioco su Dos. Un giorno sono andato via per un campo estivo che sul PC c'era Windows 3.1, al mio ritorno c’era già Windows 95 installato. “Adesso mangia, dopo ti spiego come funziona”. Le discussioni eterne quando qualcosa si rompeva e ci trovavamo di fronte al case aperto, capii di ero cresciuto quando ho iniziato a saperne più di lui.

Attività padre-figlio

Ricordo la litigata feroce quando a sorpresa mi regalò una stampante, ma io ero incazzato perché non avevo trovato Command & Conquer e la ignorai. Lui aveva persino stampato un foglio con scritto “Ciao Lorenzo, spero di poterti aiutare a studiare” e io lo buttai da una parte. Con quel gesto persi il PC per due giorni. Ci penso ora e non mi do pace.

A X-Com ci giocavamo assieme, decidendo ogni mossa, stretti di fronte allo schermo, a incazzarsi per l'ennesimo soldato che veniva ucciso appena metteva un piede fuori dal veicolo da sbarco, vicini come normalmente non lo saremmo mai stati.

Ci sono padri che ti portano a pescare, quelli che ti coinvolgono chiedendogli se gli passi la chiave inglese mentre riparano l’auto, io e mio padre ammazzavamo alieni o cercavamo il tuning migliore su Gran Turismo. Io guidavo, lui, che di corse ne ha viste così tante da rompersi le palle di fare l’università, stava dietro di me, le mani strette sullo schienale, a darmi i tempi e consigli di traiettoria a decidere il prossimo acquisto tra la marmitta e i pistoni migliorati.

Anni dopo sono stato invitato all'evento di lancio dell'ultima versione di Gran Turismo, con tanto di giro in pista e prova di una Lamborghini. Ho avuto gli occhi lucidi per una giornata intera, pensando a quanto si sarebbe divertito.

La prima auto che mi ha comprato mio padre

Avete presente quei colpi di scena alla Sesto Senso, in cui alla fine gli indizi che sono stati di fronte al tuo naso per tutto quel tempo appaiono come palesi, evidenti, dopo la rivelazione finale? A questo punto mi viene da chiedermi: ma io ho amato i videogiochi di per sé o all’inizio li ho amati per come mi facevano stare con lui?

L’amore di mio padre era in ogni gioco, ogni pezzo di silicio, ogni controller spaccato e ricomprato, ogni upgrade. Il suo era un amore sincero per i videogiochi che si è tramutato in un ponte, una lingua franca, uno sguardo di intesa. La mia emozione quando da bambino descrivevo le decapitazioni di Barbarian in pizzeria, mia madre lo guardava storto e lui si stringeva nelle spalle, imbarazzato.

Lei forse l’ha capito subito, perché non si è mai messa in mezzo. Entrambi mi hanno fatto il più bel regalo che qualcuno può fare a un’altra persona: hanno creduto in me, che il tempo che passavo con i videogiochi non era tempo perduto.

Io invece non c’ho capito un cazzo, finché non ho messo questo punto.

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