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Master of None presents: Moments in Love, il passaggio di microfono di Aziz Ansari a Lena Waithe

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La terza stagione della serie Netflix Master of None presenta una nuova protagonista, Denise, e uno stile da festival dai toni più austeri.

Dopo una lunga pausa, è arrivata su Netflix la terza stagione di Master of None, intitolata per l’occasione Master of None presents: Moments in Love. Brevissima, solo cinque puntate di durata variabile, già dal titolo rappresenta l’idea che vuole vendere: l’autore Aziz Ansari ha passato il microfono a Lena Waithe, il cui personaggio Denise diventa qui protagonista.

Il tono è cambiato, non è più quello faceto delle prime due stagioni. Master of None è uno di quei dramedy discendenti da Girls, che riprendono il linguaggio di un certo cinema indie, e questa volta lo fa con un’austerità non sempre funzionale alla fruizione, guardando a Ingmar Bergman e al suo fan Woody Allen. L’inizio della storia sembra rimandare proprio a Mariti e mogli, un film di Allen del 1992 che parla di divorzio.
Seguiranno spoiler sulla trama della terza stagione di Master of None.

Master of None presents Moments in Love recensione 01

Master of None presents: Moments in Love,
Ansari è ancora l'autore dello show

Girata quasi interamente durante la pandemia, la terza stagione di Master of None ne mostra tutti i tratti. La serie ha abbandonato la city per spostarsi nella campagna Upstate New York (in realtà le location sono a Londra), dove si svolge la storia del matrimonio di Denise, interpretata dall’attrice-autrice Waithe. Sembra infatti che Ansari – o il network – abbia capito che l’unica strada possibile per lui fosse quella di farsi da parte, lasciando il ruolo principale a Waithe. Sul perché tornerò nella seconda parte dell’articolo. Ansari rimane comunque saldamente ancorato al ruolo di autore, firmando tutti e cinque gli episodi con Waithe e dirigendoli tutti lui. Fa anche un paio di comparsate nei panni di Dev, l’ormai ex protagonista dello show.

La storia di Denise e della moglie Alicia inizia in una situazione pastorale la cui perfezione allude implicitamente all’impossibilità di mantenere questo equilibrio: è la prima puntata, qualcosa dovrà succedere per attivare la storia. C’è un presagio della piega che la storia sta per prendere, dato dall’apparizione di Dev. L’ex protagonista viene presentato assieme a una fidanzata con la quale le cose vanno malissimo, un’altra storia che potrebbe valere la pena raccontare, mostrata impietosamente in una scena sola – non sarebbe assurdo se uscissero altri 5 episodi che parlano solo di quel pezzo di dramedy. Ma nell’economia narrativa della stagione il ruolo di Dev e della partner è soltanto quella di messaggerз dell’apocalisse sentimentale che andrà ad abbattersi sulla coppia protagonista, il cui idillio sta per finire o forse non è mai esisito davvero.

Master of None presents Moments in Love recensione 03

La narrazione prosegue infatti seguendo lo scioglimento del matrimonio di Denise, concedendosi una deviazione cittadina in un episodio interamente dedicato ad Alicia, la sua ex moglie. Si tratta di una puntata molto lunga, che parla di fecondazione artificiale, sottolineando le discriminazioni assicurative subite dalle persone single e omosessuali che cercano di concepire in questo modo negli USA (non c’è però un approfondimento su questo aspetto, viene soltanto enunciato). L’episodio mostra quanto sia faticoso il procedimento, un tema che non è stato assente dal cinema e dalla tv americane contemporanee e che forse non aveva bisogno di uno spazio così abbondante in questa brevissima stagione di Master of None.

Il vero problema dello show risiede nelle scelte di regia di Ansari e nel ritmo dato alla stagione, dilatatissimo. È come se il regista stesse richiamando un ipotetico linguaggio da festival fatto da lunghissime inquadrature fisse in cui la scena va avanti all’infinito, imponendo tempi abnormi che nel caso di Master of None non aggiungono niente a quello che si sarebbe potuto ottenere con un montaggio più asciutto. L’effetto è frustrante, lascia un senso di vuoto. Grattando via la patina autoriale, gli snodi narrativi sono pochissimi. La storia è appena abbozzata, ma è stata gonfiata a dismisura in una confezione che ci deve convincere della sua appartenenza a un mondo narrativo “alto”. Insomma, siamo davanti al solito dramma dell’estetica art-house usata in maniera pretenziosa.

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I primi episodi non parlano della pandemia, ma rendono evidente che la stagione è stata girata con le restrizioni e la scarsità di mezzi a essa dovuti. La pandemia è presente, la vediamo anche se non fa parte della storia, viene fuori dall’isolamento rurale, dal cast ristrettissimo, dall’assenza di chiasso. Le prime tre puntate mostrano una coppia sospesa in questo mondo spogliato dagli orpelli, facendo quadrare il tema della stagione con le necessità pratiche per realizzarla.

Il quarto e il quinto episodio segnano invece uno scarto in avanti di alcuni anni. Si crea un contrasto tra l’ambientazione della stagione e la gestione del tempo interno alla storia. L’ambientazione suggeriva una collocazione nel presente. Spostandoci lontano da essa, si altera in maniera disarmonica la percezione del tempo evocata fino a quel punto. Questa accelerazione rimane fino alla fine, comprimendo di colpo una storia quasi decennale in due puntate.

Ma d’altra parte il modello streaming è anche questo: episodi di lunghezza diversa, ritmo che non torna quasi mai, snodi narrativi sproporzionati rispetto alla durata della stagione e delle puntate. E la tv stessa non è estranea a quello che accade in Master of None: tentativi che si distaccano dalla linea passata di uno show, cambi di protagonista, dialogo con la realtà dei suoi autori. Non è strano trovarsi davanti a un’opera fatta così.

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La rom-com e l'elefante nella stanza: una storia post #MeToo

Detto questo, è impossibile ignorare l’elefante che nella stanza appare solo fugacemente, perché se questa stagione è particolare, questo c’entra anche con la vicenda del suo autore Ansari. Un riassunto per chi non si ricorda cosa sia successo. Nel gennaio 2018, qualche mese dopo l’esplosione del #MeToo, uscì un articolo sul sito babe.net che riportava la testimonianza di una ragazza che aveva avuto un appuntamento terribile con Ansari, fornendone un resoconto vivido e angosciante.

Non era un’accusa di stupro, ma la descrizione del comportamento di Ansari cozzava violentemente con l’immagine che il comico aveva creato di sé. Come lo stesso articolo faceva notare, “Ansari aveva costruito la sua carriera sull’essere carino e gentile”. Il suo lavoro era sempre strettamente legato alla commedia romantica, tant’è che aveva pubblicato un libro intitolato Modern Romance. L’articolo avrebbe quindi avuto delle conseguenze proprio su questa immagine.

Col suo volto e la sua voce, la credibilità narrativa del protagonista Dev non poteva sopravvivere. È un discorso simile a quello di Louis C.K. e alla fine è una questione di marketing. Ansari si vendeva a un pubblico che lo apprezzava perché si proponeva come il “bravo ragazzo progressista”, il “maschio femminista” (una cosa che anche C.K. ha fatto, benché fosse in chiave più edgy).

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Il problema di Ansari è che proprio questo pubblico è sensibile al tipo di call out che lui ha ricevuto. Infatti, come dicevo sopra, ora è impossibile guardarlo in faccia senza ripensare a una vicenda che sembra svelare un lato oscuro del personaggio di Dev e non soltanto del suo autore, proprio perché Ansari lo interpreta come un avatar idealmente vicino alla realtà. Sono finzioni della (non) fiction, ma funzionano così: l’autore-attore interpreta un personaggio che sembra se stesso e questo lo rende più reale e vicino a noi che lo guardiamo.

In Moments in Love, c’è una riflessione ricorrente sulla fine del successo, che serpeggia di puntata in puntata, rappresentata dall’ascesa e discesa di Denise e anche di Dev. In base all’angolazione da cui la osserviamo, questa scelta potrà rivelare aspetti diversi. Può essere un’espressione dell’incertezza che Ansari deve aver provato a ridosso del suo scandalo, perché era ovvio che il suo lavoro come autore nella commedia romantica non poteva continuare allo stesso modo dopo quel tipo di pubblicità.

L’insistenza con cui Ansari e Waithe fanno riferimento al tema della perdita di successo può suonare anche come un reframing della realtà, in cui Ansari racconta se stesso come quello che ormai è in declino, senza però esserlo veramente: è proprio lui che ce lo sta dicendo da una delle piattaforme più pervasive del mondo, sulla quale era già uscito un suo nuovo speciale stand up nel 2019, un anno dopo il famigerato articolo.

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La carriera di Ansari non è finita, ma ha avuto un rallentamento. C’è però da chiedersi se la sua sia stata poi davvero una caduta: come detto, oggi non interpreta più il protagonista, ha “passato il microfono”; ma la sua serie va ancora in onda su Netflix, dove non è così ovvio arrivare alla terza stagione. Lui è l’auteur del caso, e guadagna denaro: firma le sceneggiature, fa le regie, appare nello show di cui è co-creatore con Alan Yang.

Come fanno notare su Vox, prima che succedesse tutto, nel 2017, Ansari aveva parlato a Vulture del fatto che fosse prevista una lunga pausa per Master of None. Nell’intervista dichiarava di non sapere nemmeno se ci sarebbe stata davvero una terza stagione (ironicamente, l’articolo di Vulture descrive la serie come una versione meno cinica di Louie, azzeccando involontariamente una previsione su tutto quello che sarebbe occorso di lì a poco).

È vero però che il brand creato da Ansari per se stesso è andato distrutto. A differenza di Louis C.K., che ha provato a fare rebranding spostandosi a destra, Ansari tenta la strada del passaggio del microfono, certamente più nobile ma anche più sicura se dovesse funzionare: il suo marchio sarà finalmente ripulito, lui potrà tornare a essere “quello bravo”. Ma probabilmente non potrà più proporsi come volto credibile della commedia romantica indie.

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