L’orrore di The Invisible Man
In The Invisible Man qualcuno perseguita la protagonista, e non è un mostro classico da racconto spaventoso, ma l'uomo che occupava l'altra metà del letto.
The Invisible Man di Leigh Whannell riporta sugli schermi il personaggio dell’uomo invisibile inventato da H. G. Wells alla fine del XIX secolo. Il film fa parte della nuova iniziativa Dark Universe. La produzione è Blumhouse, che ultimamente si dedica sempre più all’horror a tematica sociale con risultati molto buoni. In questo caso, la storia criminale dell’uomo invisibile diventa un horror su violenza domestica e gaslighting, che sfrutta l’abilità di Elisabeth Moss nell’apparire devastata.
Il regista e sceneggiatore Leigh Whannell – storico collaboratore di James Wan – ha già diretto almeno un bel film personale, l’action-thriller fantascientifico Upgrade (2018). Benché l’idea di fondo afferisca soprattutto alla fantascienza, The Invisible Man viene realizzato come un horror giocato sulla paura evocata dalla presenza-assenza dell’uomo invisibile. Questo meccanismo funziona alla perfezione perché Whannell fa una scelta coraggiosa: spostare il punto di vista sulla protagonista Cecilia, perseguitata dalla creatura. Lo sguardo del pubblico converge col suo, risaltando il senso di impotenza provocato dall’invisibilità del mostro.
Narrativamente, tutte le scelte sono coerenti con questo concept. Whannell non usa né introduzioni né flashback, che contestualizzerebbero pigramente la vicenda e renderebbero l’antagonista un personaggio ordinario. Il film invece parte direttamente nel mezzo dell’azione. Senza bisogno di spiegazioni, i gesti di Cecilia illustrano tutto quello che abbiamo bisogno di sapere dell’antefatto: una donna ha paura di un uomo e deve fuggire da lui per salvarsi. Whannell evita accuratamente di mostrarci l’uomo invisibile. Ironicamente, lo “vediamo” solo quando non si vede, fino a che non arriva il momento di rivelarne l’aspetto, verso la fine del film. Questa dissimulazione rende la sua presenza ancora più minacciosa e genuinamente horror.
La coerenza concettuale del film è uno dei suoi più grandi punti di forza. Come Cecilia, cerchiamo angosciosamente di individuare i segni della presenza del mostro nelle inquadrature. Da un lato, questo ci riporta alle presenze fantasmatiche dell’horror alla Paranormal Activity (restando in zona Blumhouse); ma Whannell sta descrivendo alla perfezione anche l’esperienza di chi, vivendo con uno psicopatico, deve sviluppare una sensibilità speciale alle minime alterazioni del suo umore, districandosi tra i segnali di pericolo più impensabili.
Per quanto il film sia costellato da easter egg e citazioni riconducibili al libro di Wells e agli altri adattamenti, è più interessante paragonare The Invisible Man a due film apparentemente più lontani: l’horror Candyman di Bernard Rose (1992) e il thriller Sleeping with the Enemy di Joseph Ruben (1991), che sembrano avere influenzato la struttura di quello di Whannell. Sappiate che per discuterne nel dettaglio, saranno necessari alcuni spoiler sulla trama di tutti e tre le opere in questione.
Il legame con Candyman nasce dalla presenza assente di un’entità maligna, che aleggia sulla storia per lungo tempo, e dalla trasformazione in mostro della stessa protagonista. Gli snodi della trama nei due film sono molto simili: in entrambi i casi, nella prima parte la minaccia dell’antagonista è percepibile, ma mai davvero manifesta.
Quando si svela, l’entità commette almeno un omicidio che viene attribuito alla protagonista. In entrambi i film, la donna viene arrestata, per poi risvegliarsi ammanettata in ospedale ed essere visitata dal mostro mentre è rinchiusa. Una nuova esplosione di violenza si conclude con la fuga della protagonista, sempre più isolata rispetto al mondo affettivo che la circondava prima dell’intervento del mostro.
Nella parte finale c’è l’inevitabile scontro tra protagonista e antagonista, in cui la protagonista acquisisce gli strumenti del nemico prendendone metaforicamente il posto (Helen in Candyman si trova letteralmente con l’uncino tra le mani, che si porterà dietro persino nella tomba; Cecilia si appropria della tuta per l’invisibilità e compie la sua vendetta). In entrambi i casi, la protagonista finisce per trasfigurare nel mostro contro cui ha combattuto per tutto il film.
Per ragioni non così lontane, anche Sleeping with the Enemy c’entra molto con questo Invisible Man, a cominciare dalla grande villa sul mare in cui iniziano entrambi i film. La storia di Sleeping with the Enemy è simile a quella di The Invisible Man: una donna è perseguitata dal marito violento, da cui sta scappando.
Il parallelo che segue si basa sui trope di questo particolare tipo di domestic thriller. Alcuni sono cambiati nel corso dei decenni – quelli degli anni ’90 sono a tratti imbarazzanti – ma altri rimangono invariati.
Una differenza si riscontra già nella scelta di Whannell di iniziare in medias res con la fuga della protagonista dal partner persecutore, che in Sleeping with the Enemy sancisce invece la fine del primo atto. Questo cambiamento strutturale ha un significato profondo: l’antagonista di The Invisible Man non viene mai mostrato nelle vesti di fidanzato o marito, ma solo come minaccia sovrannaturale. Non esiste un setting iniziale della relazione che ne illustri il disgregarsi nella violenza più cupa, come accade invece nel film del 1991. Quello che sappiamo della storia di coppia in The Invisible Man deriva unicamente dai racconti che Cecilia fa della sua esperienza. Non dobbiamo vedere, dobbiamo ascoltare lei.
Con questa scelta narrativa, il film sostiene la necessità di credere al racconto delle vittime e al tempo stesso evita l’estetizzazione dell’abuso. Sleeping with the Enemy mostra Julia Roberts stuprata; The Invisible Man allude alla violenza sessuale sempre col non detto, quello che Cecilia non riesce nemmeno a menzionare quando parla della sua storia, un’altra presenza-assente che ingombra la scena in vari momenti del film.
Una grande differenza riguarda il mondo affettivo dei personaggi. In Sleeping with the Enemy la protagonista non ha amici. Quando scappa, da sola, va in una nuova città. Lì conosce un vicino di casa che si interessa a lei in senso romantico. Ma non ci sono figure che le offrono amicizia disinteressata, non c’è possibilità di famiglia al di fuori della coppia. In The Invisible Man, Cecilia viene aiutata a scappare dalla sorella e si rifugia a casa di un amico, che la aiuta senza secondi fini espliciti. Sleeping with the Enemy dà invece grande importanza alla sottotrama legata al nuovo fidanzato, inquadrata come elemento centrale del percorso di emancipazione della protagonista.
Il film di Whannell mostra il cambio di sensibilità occorso in questi 30 anni, eppure qualcosa continua a unire le due rappresentazioni. Un aspetto simile è la conclusione: entrambe le storie presentano l’omicidio del persecutore come l’unica via d’uscita per le protagoniste. Cecilia organizza l’assassinio appropriandosi degli strumenti del nemico, facendo sospettare che in fondo The Invisible Man potrebbe essere la origin story di una futura supervillain.
Sono tanti i motivi per cui The Invisible Man è un film veramente bello. C’è però una critica che gli si può muovere, per il modo in cui affronta il suo tema sociale usando una struttura basata sull’ennesima variazione del viaggio dell’eroe. Come in Sleeping with the Enemy e tutti i film simili, anche qui la parabola di violenza domestica rimane puramente individuale. La protagonista è nei guai a causa di un’aberrazione; da sola, deve affrontare un percorso in cui diventa sempre più forte e reattiva (la Cecilia finale è calma e determinata, ben diversa dalla donna distrutta che abbiamo incontrato nella prima parte). Nella solitudine della sua relazione tossica la protagonista ha deciso di scappare dal marito, per capire poi che l’unica via d’uscita è ucciderlo.
Il lato negativo di questa rappresentazione è che esclude la collettività dal racconto della violenza domestica, proponendola come un fatto privato che tutto sommato tale rimane fino alla fine del racconto. La trasformazione della protagonista in assassina è a quel punto una conclusione logica. Il problema sembra riguardare gli individui, e mai un sistema culturale che non sa gestire violenza e prevaricazione. E quindi, nonostante tutti i passi avanti fatti da The Invisible Man, il fatto che usi ancora quel paradigma va preso come stimolo per cercare nuovi modi e nuove prospettive per raccontare questo tipo di storia. Un bello spunto lo potete già trovare in un horror indipendente uscito poco tempo fa: Swallow di Carlo Mirabella-Davis, che partendo da una premessa simile sviluppa un discorso radicalmente diverso.