L’isola dei cani – Recensione (senza spoiler)
Il 17 maggio, a quattro anni dall’uscita del pluripremiato Grand Budapest Hotel, uscirà il nono lungometraggio di Wes Anderson, L’isola dei cani.
Il 1 maggio, a quattro anni dall’uscita del pluripremiato Grand Budapest Hotel, è uscito il nono lungometraggio di Wes Anderson, L’isola dei cani.
Nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di assistere all’anteprima – in lingua originale – e non dovendo sottostare né ai tempi di un embargo né a quelli di una consegna urgente, ho potuto metabolizzare il film con calma.
Partiamo dal lato tecnico, il più facile.
Più facile perché Wes Anderson è un maestro che sa maneggiare il materiale a disposizione: una serie di grandi attori, lo stop motion allo stato dell’arte e una fotografia impeccabile, vengono messi al servizio del racconto e plasmati nella solita forma unica e ineccepibile.
I grandi attori, in questa occasione, sono veramente tra i più grandi in circolazione: Bryan Cranston, Edward Norton, l’onnipresente – e meno male! – Bill Murray, Jeff Goldblum, la neovincitrice dell’Oscar come migliore attrice protagonista Frances McDormand, Harvey Keitel, l’altra onnipresente – idem come Murray – Tilda Swinton, Scarlett Johansonn e addirittura Yoko Ono. Già questo elenco di attori (non esaustivo, ovviamente!) rende l’idea di quanto corale sia il film e di quanti personaggi si muovano tra le pieghe della storia.
A proposito della storia, il film racconta le gesta di Atari, nipote del sindaco di Megasaki che, orfano di entrambi i genitori, decide di andare a riprendersi l’unico affetto rimastogli, il cane Spots, esiliato dallo zio su un’isola fatta di spazzatura. Una volta sull’isola, Atari troverà una comunità interamente composta da cani malati, esiliati dalla civiltà e costretti a vivere di espedienti.
Tornando agli attori, le loro voci caratterizzano perfettamente i personaggi sul grande schermo: in questo ci sarà sicuramente il talento delle persone coinvolte ma anche la maestria del direttore del casting e del regista nel sapere accoppiare a ogni attore il personaggio più vicino alle sue corde.
L’animazione, altra chicca del film, è ineccepibile, come dicevo prima: ho trovato difficile capire se mi è piaciuto di più lo stop motion, con il suo effetto retrò e i movimenti leggermente scattosi dei protagonisti, le ambientazioni – che devono aver richiesto dei set particolarmente grandi e complessi, o i fondali, con la loro palette di colori che variava dal pastello delicato dell’isola fino al metallizzato delle scene in città.
Sul regista e le sue caratteristiche trovo anche superfluo scrivere qualcosa: chiunque conosca Anderson e la sua poetica sa benissimo che si troverà di fronte a delle scene curate al dettaglio, in cui la simmetria la fa da padrona e i dialoghi sono sempre una spanna sul resto del panorama cinematografico.
Archiviati i doverosi tecnicismi, rimane la parte più complicata, il vero motivo per cui mi sono seduto a scrivere questa recensione, ossia l’analisi della metaforona di questo film.
Wes Anderson, lungo tutta la sua carriera, ha quasi sempre raccontato delle storie con più livelli di lettura, parlandoci di famiglia e delle disfunzionalità che ne derivano, di amore in tutte le sue forme, del sapore della vendetta, e anche di amicizia, rivalità e gelosia, creando dei mondi che si intrecciano per temi trattati e modalità con cui questi argomenti vengono affrontanti, in un unico affresco (simmetrico, ovviamente) che racchiude tutti i suoi personaggi.
L’isola dei cani non è da meno, anzi spinge ulteriormente l’acceleratore in questo senso, mostrandosi fin da subito come una bella storia con un sottotesto grande come una casa. Per questa spinta, il regista statunitense prende uno degli argomenti più sentiti degli ultimi anni: la diversità. Su questo argomento, il regista costruisce il suo mondo, dicendoci la sua su tutte le varie diramazioni, dai media al potere, passando per la politica, la sovrappopolazione e il dramma dei profughi.
E quindi i cani esiliati sull’isola spazzatura diventano i profughi costretti nei campi di accoglienza, impossibilitati a uscirne non a causa del mare ma della burocrazia o della guerra; o ancora, l’influenza canina si rivela essere un bluff del potere per giustificare l’esilio e il pubblico che si beve tutte le frottole ben raccontate diventa la ggente che non va oltre il titolo di un articolo e che si informa superficialmente. Esempi come questi costellano tutto il film e ci dicono il punto di vista di Wes Anderson sull’attualità.
Forse, ne L’isola dei cani, va riconosciuto al regista proprio la capacità di dirci la sua senza alcuna retorica, mascherando il tutto dietro una favola perfettamente confezionata.
Il primo livello di lettura, la storia di Atari, dei cani e della loro avventura, sarà immediatamente comprensibile a tutti, bambini compresi. Il secondo livello, il dramma dei migranti, l’isolamento, il rapporto tra potere e media, arriverà – molto probabilmente – solo chi ha una certa sensibilità sull’argomento (spero tanti, sia chiaro!). C’è poi anche un terzo livello, fatto di citazionismo e di omaggi che il regista infila nelle due ore scarse di proiezione, gli anime e il giappone su tutto il resto. Questo sarà uno stupendo materiale per articoli e liste a tema, con caccia al tesoro e all’easter egg definitivo.
Insomma, Wes Anderson tira fuori l’ennesimo coniglio dal cilindro, regalandoci un paio d’ore di spensieratezza e qualche settimana di riflessione.