STAI LEGGENDO : Hollywood: la Storia e il sogno secondo Ryan Murphy

Hollywood: la Storia e il sogno secondo Ryan Murphy

Condividi su:

Con Hollywood, Ryan Murphy e Ian Brennan riscrivono la Storia e ci regalano un sogno a occhi aperti fatto di inclusione, glamour e sacrosanta speranza.

La nuova serie tv di Ryan Murphy e Ian Brennan, Hollywood, è una storia a lieto fine. Non consideratelo uno spoiler e non pensate che lo show disponibile su Netflix dal 1° maggio sia soltanto una passeggiata allegra nel glamour e nella spensieratezza. Nonostante la carrellata di orrori che mette in scena, Hollywood rimane comunque capace di regalarci un lieto fine sfavillante, l'elemento più sovversivo di un racconto che ha per protagonisti gli emarginati della Fabbrica dei Sogni: donne, artist* queer, di colore, asiatic*, ebre* e uomini che rigettano l'approccio tossico della mascolinità dominante nella società del secondo dopo guerra americano.

 

Conoscendo un minimo la Storia, verrà spontaneo chiedersi: come è possibile un happy ending totale per il racconto della Hollywood degli esclusi? È possibile, se si decide di riscrivere il passato con gli strumenti del presente, costruendo un sogno ipotetico che ci mostra come sarebbe potuto essere il mondo dello spettacolo se la fiducia avesse vinto sul pregiudizio, ma anche come potrebbe essere se finalmente smettessero di esistere gli esclusi. Il manifesto dell'intero show viene presentato in maniera cristallina dal personaggio di Raymond Ainsley, il regista: "I film non ci mostrano solo come è il mondo, ci mostrano come può essere il mondo, e se cambiamo il modo in cui i film sono realizzati, se si corre il rischio e si crea una storia diversa, penso che si possa cambiare il mondo."

La storia di Hollywood gira attorno a un film da realizzare, il racconto cinematografico della tragica (e realmente accaduta) fine di Peg Entwistle, un’attrice britannica che si suicidò nel 1932 saltando giù dalla H della celebre scritta gigante. Nel progetto verranno organicamente coinvolti un regista di origini asiatiche, uno sceneggiatore gay di colore, un’attrice di colore, la figlia del capo di un importante studio e la moglie del suddetto capo, tutti soggetti desiderosi di prendere parte allo spettacolo, e tutti immancabilmente respinti da un muro melmoso di sessismo, razzismo, omofobia e antisemitismo. Ma le categorie lasciate ai margini non sono le sole a soffrire nel predatorio ambiente della produzione hollywoodiana.

Anche i più insospettabili, gli uomini bianchi, etero (o presunti tali) e avvenenti, soffrono le conseguenze di un sistema marcio fino alle fondamenta, dove l’unica moneta di scambio dal reale valore contrattuale è il sesso. O meglio, le dinamiche di potere, sopraffazione e ricatto morale che il sesso può permettere. Il dolore in Hollywood è una questione molto democratica, che non si nega a nessuno, e fin qui potremmo parlare di legittimazione universale della sofferenza, di solidarietà nella lotta, del classico trionfo collaborativo alla Ryan Murphy, ma non sarebbe niente di particolarmente eclatante. Se non fosse che a un certo punto arriva la svolta, la vittoria della speranza sulla grigia pesantezza del reale.

Con Hollywood, Ryan Murphy è riuscito a realizzare ciò che aveva soltanto abbozzato con la puntata finale di Feud, la storia della leggendaria rivalità tra Bette Davis e Joan Crowford, costantemente messe l’una in competizione con l’altra dal medesimo ambiente malato ritratto nella serie tv di Netflix. Nelle sette puntate dello show, si ritrova essenzialmente tutta la poetica di Murphy, incanalata in un grande sogno collettivo a occhi aperti dove le porte della rappresentazione si spalancano per coloro che ne erano rimasti esclusi con ampio e confortante anticipo.

Tra i grandi meriti di Hollywood c’è infatti il passaggio abbastanza rapido da un quadro di martirio a uno di rivalsa degli oppressi, che quindi non cadono nella trappola molto pericolosa, e francamente diventata stantia, di una narrazione spinta dalla pietà, dalla commiserazione e dalla feticizzazione del dolore, dando inoltre spazio ai personaggi perché raccontino in prima persona la propria storia.

Volendo trovare un difetto evidente nel sogno trionfante di Murphy e Brennan possiamo far riferimento alla sua indubbia parzialità. Tutti i personaggi della serie sono in sostanza bellissimi, 100% abili, magri e cesellati come statue greche anche in vecchiaia, patinati come la fotografia della serie e come l’ambiente ossessionato dalla perfezione dove agiscono.

Da un punto di vista prettamente esteriore, i protagonisti sono ancora un prodotto del loro tempo e si piegano senza problemi agli standard ipersessualizzati e normativi dell’epoca, una problematica che non ha mai avuto particolare risalto nella filmografia di Murphy, imbastita su una visione estetica del bello di matrice piuttosto convenzionale, sebbene incredibile e sempre spettacolare da guardare, anche grazie all'attenzione pazzesca per costumi e set design.

Individuato un punto critico da poter migliorare, rimane comunque il grande lavoro fatto da Hollywood sul valore politico della rappresentazione e dell’arte, raccontato attraverso una prospettiva storicamente inedita che non ha paura di prendersi tutto, in un trionfo totale di riappropriazione e speranza.

Da un un dito, si passa a tutto il braccio, senza paura di nulla, neanche di risultare stucchevole, perché a volte abbiamo bisogno anche di storie dove finisce tutto bene, dove ognuno è ricompensato per il proprio talento e accolto a braccia aperte in tutto il suo splendore. Lasciateci sognare, anche se è una bugia.

related posts

Come to the dark side, we have cookies. Li usiamo per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi