STAI LEGGENDO : Ghost in the Shell_SAC2045 - Cercasi Ghost disperatamente

Ghost in the Shell_SAC2045 - Cercasi Ghost disperatamente

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Netlix esce con una nuova incarnazione di Ghost in The Shell, celeberrima icona del cyberpunk nipponico, ma sembra aver sbagliato completamente il tiro.

Ghost in the Shell è una materia difficile, si muove nel campo del cyberpunk duro e puro che travolge lo spettatore ignaro con una serie di nozioni che deve assimilare velocemente per godere dell'esperienza e si pone un sacco di domande esistenzialiste che non sono proprio il pane quotidiano dei fruitori di anime.
Il film di Mamoru Oshii del 1995, tratto dall'omonimo manga, rappresenta uno dei rari casi di animazione giapponese che ha avuto più successo all'estero che in patria, ricevendo un accoglienza fredda al botteghino casalingo ma raggiungendo velocemente lo status di cult cyberpunk degli anni '90.

Lo si deve molto all'idea che l'Occidente ha del mito dell'Oriente ultratecnologico di cui questo film rinsalda il collegamento e ad una base culturale fertile composta dai capisaldi del genere letterario della fantascienza Cyberpunk come Gibson e Dick.
Sta di fatto che la rilevanza culturale arriverà dopo.

A distanza di 25 anni dalla sua uscita originale il film è ancora bellissimo nella sua versione pura, non quella rimaneggiata in digitale dei primi '00.
Lo si potrebbe paragonare per respiro a Blade Runner anche data la sua natura volutamente fuorviante: ad accomunare le due pellicole è il non essere mai solo una banale caccia al villain e trovare compiutezza negli elementi di contesto.

C'è una storia tutta legata al mondo della videoarte della fine degli anni '90 direttamente ispirato a Ghost in The Shell.
In Giappone c'è Kworks, un'agenzia che sviluppa character design per film, pubblicità, anime e manga.
Philippe Parreno e Pierre Huyghe, due artisti francesi, nel 1999 acquisiscono dalla Kworks per pochi spicci i diritti di Annlee, un personaggio minore ed economico condannato a scomparire presto perché non abbastanza interessante ma che nonostante la povertà di dettagli ha alcune caratteristiche che richiamano al Maggiore protagonista di Ghost in the Shell.
A modo loro salvano un'entità virtuale destinata a morire.

"True heroes are rare and extremely expensive …" (Parreno)

Il progetto prende il nome di "No Ghost Just a Shell" e consiste nel mettere a disposizione gratuitamente questa entità virtuale vuota affinché altri artisti la usino per i loro lavori e, alla fine del progetto, ogni lavoro costituisce una specie di capitolo di una grande opera ideale costruita attorno ad un personaggio senza identità.
No Ghost Just a Shell, a parafrasare lo slang inventato per il manga di Masamune Shirow che diventa slogan identitario di un personaggio nato solo come involucro e privo di una mente.

Ma perché la sto prendendo così lunga per parlare dell'ultima serie Netflix dedicata al mondo di Ghost in The Shell?

Perché guardando il primo episodio non mi è venuto in meno il Maggiore, ho pensato immediatamente ad Annlee, all'involucro senza personalità strumentalizzato per produrre contenuti.
Ma procediamo per gradi.

L'opening è un misto di suggestioni con da un lato la sigla originale e dall'altro l'opening di Westworld, spudoratamente, senza nemmeno provare a nasconderlo.
Vediamo la creazione della protesi fullbody del Maggiore a mezzo stampante 3D su un fondale bianco.
In questo modo ci viene presentato anche il "nuovo" aspetto di Motoko Kusanagi e lo stile artistico che caratterizza tutta la produzione.

L'animazione è ascrivibile a quel deprimente stile di computer grafica che cerca con tutte le sue forze di scimmiottare l'animazione tradizionale con risultati miseri. La abbiamo già vista all'opera su altre produzioni Netflix come il nuovo Ultraman e il remake dei Cavalieri dello Zodiaco.
Tra superfici piatte prive di texture, espressività facciale ridotta al minimo storico, si ha la sensazione di vedere muovere pupazzi economici.

L'animazione non è un dettaglio da poco nell'economia di una serie di Ghost in The Shell.
Tutto ha a che fare con la resa dei personaggi a schermo.

Il Maggiore è un cyborg, un ghost (inteso come spirito) umano in corpo completamente artificiale, ciò la caratterizza con una innaturale fissità nello sguardo e nei modi di muoversi.
La sua condizione è anche il principale motivo di riflessione esistenzialista tanto caro alla filosofia cyberpunk sul rapporto tra reale e virtuale.
Il Maggiore Motoko Kusanagi è per definizione un personaggio perturbante nella sua accezione di incapacità di discernere la natura animata o inanimata di ciò che si osserva.

Il Maggiore Motoko Kusanagi è per definizione un personaggio perturbante

Nel momento in cui tutti i personaggi sono indistintamente fissi, rigidi e inespressivi questo azzera la differenza sostanziale che c'è tra il Maggiore e tutti gli altri.
Sembra di vedere a schermo tanti Personaggi Non Giocanti di un qualsiasi GDR alla giapponese. Ma non quelli importanti, quelli anonimi che popolano gli shop, quelli a cui riporti il gattino, quelli al quale consegni le rape rubate dalla banda di predoni mentre sei a livello 3.
La stessa mobilità, la stessa espressività e tu per loro hai lo stesso grado di empatia.

Questa assoluta mancanza di empatia tra lo spettatore e i protagonisti ha una ricaduta diretta sull'efficacia dei dialoghi.
Niente delle linee di dialogo che si scambiano i protagonisti è veramente interessante e, stranamente, è una serie in cui parlano tantissimo. Troppo.
Puntate e puntate di dialoghi statici in spazi anonimi di cui, alla fine, non ci resta nulla.
Tutti i dialoghi che non riguardano la trama principale sono un accessorio di cui le spettatore può fare a meno.

Altro discorso da approfondire è sulla qualità della resa degli ambienti: il mondo rappresentato è troppo "pulito", come nuovo, come se anche le rovine e i banchetti della frutta siano appena stati tolti dal cellophane.
Non si può pulire troppo il cyberpunk, non può essere credibile astraendolo da una condizione di usura materiale e sporcizia.
Similmente, gli ambienti virtuali del cyberspazio hanno un gusto decisamente anni 00, tra .Hack e Digimon.

Perdonali, William Gibson, perché non sanno quello che fanno.

La storia prende l'avvio dalla fine di Stand Alone Complex (dal quale il SAC del titolo), inizia con la Sezione 9 sciolta ma riciclatasi come mercenari noti nel mondo delle Guerre Sostenibili con il nome di GHOST (così, in capslock, per i meno attenti).
Guerre Sostenibili perché pare che sia successo un evento traumatico nel mondo, un attacco informatico che ha azzerato il valore delle valute e i Paesi, per sostentarsi, hanno riscoperto il business della guerra.
Se sembra non abbia il benché minimo senso, è perché è proprio così.

Sta di fatto che alla seconda puntata, Aramaki che nel frattempo è diventato un pezzo grosso del governo giapponese, incarica Togusa di trovare GHOST per riformare la Sezione 9, perché "lo scopo principale di questa rifondazione è accontentare le richieste degli USA (Netflix itself) che ci chiede di fornire loro risorse speciale (la serie)".
Una dichiarazione che puzza di metatesto lontano un migliore.

Ma perché i personaggi giapponesi hanno gli occhi tondi?

Brutta trama, brutti personaggi e visivamente mediocre
Tirando le somme, questa serie non ha niente da dire, nè sul piano meramente estetico formale, nè su quello contenutistico.
La drammatiche carenza sono messa ancora di più in risalto dal confronto con l'altra serie anime che sto rivedendo) a causa del mood lockdown: Neon Genesis Evangelion.
Ho fatto veramente fatica per portarla a termine, in sacrificio solo per voi, miei amati lettori di Nerdcore.

Se volete congiuntamente farvi del male e guardare Ghost in the Shell vi consiglio di ripiegate sul film live action con Scarlett Johanson del 2017.

Non che mi sia piaciuto, ma è molto più Ghost in the Shell di questo prodotto Netflix, e oltre a Scarlett Johansson ha un sempre ottimo Takeshi Kitano che pur recitando in ciabatte, trasforma subito la situazione in uno spin-off di Violent Cop in salsa Sci-fi.

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