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Dynasty Warriors Origins - Wuxia per le masse

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Dynasty Warriors Origins è il nuovo capitolo della lunga serie di giochi a tema battaglie campali che riporta il gioco ad una dimensione più essenziale, senza perderne in cura e profondità: bentornati nel mistico oriente del wuxia

Per Dynasty Warriors la redazione si è mobilitata mettendo in campo ben due firme: oggi trovate un articolo doppio, a firma di Francesco Tanzillo e Alessandro Palladino!

Francesco Tanzillo

Dynasty Warriors rappresenta per almeno due generazioni di videogiocatori la power fantasy per eccellenza: il musou, che dovrebbe significare, strettamente, "colui che non ha rivali".

Un uomo solo che con la forza delle sue arti marziali pialla via interi eserciti come se fossero soldatini di plastica, super coreografato, con un sistema di combattimento spesso "essenziale" e una versatilità che dopo svariate iterazioni a tema storia (o pseudo storia molto romanzata) orientale può contaminare qualsiasi universo narrativo esistente.

Quando eravamo giovani noi ed era giovane anche la Playstation con la sua seconda versione, arrivò il secondo capitolo della serie Dynasty Warriors a far vibrare le nostre eccitabili fantasie adolescenziali. Ne ricordiamo il secondo soprattutto perché è il primo ad avere la forma che noi associamo al genere Musou oggi; il primo episodio della serie era un normale e potenzialmente dimenticabile picchiaduro ad incontri tridimensionale.

Da Dynasty Warriors 2 il genere ha riscosso una strana forma di popolarità, accogliendo nel suo sistema ibridazioni da altri generi e forme di altre serie ma lasciando solo in parte il solco nelle vite degli altri giochi.
Per quanto all'apparenza sembri un gioco non particolarmente complesso, che non richiede nemmeno chissà quali skills per essere giocato, è difficilissimo riprodurre efficacemente questo tipo di esperienza in giochi non sviluppati da Omega Force che si trova quindi a detenere il monopolio del genere Musou. Gestire enormi battaglie campali richiede una serie di compromessi, un certo approccio mentale, un'attitudine tutta votata all'esagerazione; c'è una sorta di patto tra sviluppatore e giocatore secondo il quale le regole sottese al genere sono strettissime, ma il risultato riesce ad essere costantemente "sgravato", un altro termine che utilizzavamo quando eravamo giovani ed eroi.

Non che la formula non abbia provato a reinventarsi, ci sono le versione Empire con una gestione dell'azione più imperniata sulla strategia di quali territori occupare (e quindi su quali campi di battaglia e contro chi combattere); ricordo addirittura una versione Strikeforce con elementi ancora più fantasy esagerati. Per non parlare di quando il "sistema Musou" è stato prestato ad altri immaginari.

Personalmente mi sono devastato con i due Dynasty Warriors Gundam usciti durante la generazione X360/PS3. Ma una quantità di ore senza senso, buttata nel ripetere sempre le stesse cose per poi culminare in una sorta di nausea da azione ripetuta. Però mi capitava di tornarci sempre, per vedere quanti modelli e quali universi di Gundam ci fossero. Addirittura il Musou di Ken il guerriero, sul quale spesi qualche ora, ma senza entusiasmo, adesso non so nemmeno dire se lo sottovalutai io o era davvero mediocre, chissà. Poi i ricordi iniziano a farsi nebulosi e preferisco lasciare nell'incertezza il vago ricordo di un Musou a tema Berserk arrivato sempre verso la fine di quella generazione là, perso tra le nebbie del tempo.

Iterazioni più di successo: i quattro One Piece Pirate Warriors, che credo abbiano il loro senso (perverso), fino alle versione nintendose del genere con gli Hyrule Warriors e Fire Emblem Warriors.

Come (e dove) lo si voglia mettere, il Musou ha una sua dignità e un suo seguito, facile, forse anche di bocca molto buona che non si pone troppe domande e non chiede poi troppo altro ad un videogioco se non intrattenerlo per un lasso di tempo che il giocatore stesso ritiene soddisfacente.

Origini

A sentire di più la prova del tempo è probabilmente proprio il troncone principale, Dynasty Warriors: non se la passava benissimo con la penultima iterazione, schiacciato dalle ambizioni mal riposte nell'indicare il mondo aperto come la cura per tutti i mali che affliggono i videogiochi.

Il team di Omega Force ha quindi saggiamente deciso di ritornare alle basi del genere. Ancora il romanzo dei tre regni, ancora l'epopea fondante della Cina come ci venne trasmessa in principio, con i suoi nomi bislacchi, i suoi dialoghi pomposi e il suo gusto squisitamente orientale nella trattazione noncurante per le masse di soldati digitali mandati al macello contro il generale figlio di mazinga che siamo chiamati ad interpretare.

E, straordinariamente, funziona. Ma non solo funziona e basta, perché è dal 2000 che questa serie, quando messa in scena quadrata riscuote un meritato successo (anche solo nel selezionare il tema nel quale trasfigurare il gioco). Dynasty Warriors Origins, funziona, diverte e ti fa venire voglia di giocarci con convinzione e attenzione, che probabilmente 25 anni fa non avevo, e senza nemmeno il senso di nausea da full immersione che mi procuravano le ore spese su DW: Gundam 2.

DW Origins non fa niente di straordinario, se non riportare al suo nocciolo duro l'esperienza di gioco per presentarla al giocatore contemporaneo nella sua forma migliore, fino ad ora.

Il giocatore è chiamato ad impersonare un misterioso e smemorato maestro di arti marziali che si risveglia nel bel mezzo della Rivolta dei Turbanti Gialli (l'evento che dà origine alle vicende del Romanzo dei Tre Regni); dotato di abilità eccezionali e mosso da saggezza in odore di santità e attenzione per gli ultimi viene in contatto con tutti i principali personaggi della storia, che si dipanerà per tutta la lunghezza dell'epopea con gli esiti che già sappiamo: è l'interpretazione in salsa Musou del personaggio muto dei videogiochi, dal passato oscuro che si svela con il proseguire della trama, il destino rivelato di essere un Guardiano della Pace che si batte per l'ordine sedando le rivolte nel paese contro un grande caos imminente rappresentato dalla guerra fratricida che coinvolge le diverse fazioni in lotta.

è il ritorno della power fantasy nella sua forma migliore, più sfrenata, ma non per questo scontata in termini di realizzazione ludica e grafica del pacchetto.

Il gioco è bravo nel centellinare i progressi, nel non mettere il giocatore davanti a troppe cose subito, in modo che il senso di progressione sia bilanciato e gli ostacoli posti davanti a esso (solitamente rappresentati da eserciti dalle dimensione smodate e scenari di battaglia a complessità crescete con obiettivi multipli) offrano sempre un morigerato senso di sfida, giocando a livelli di difficoltà più alti.

Non avrete mai chissà che situazioni insormontabili, ma ripaga il livello di difficoltà virato al basso con un generale senso di ispirazione e soddisfazione nel superamento degli scenari più complessi. Ad esempio, io ho impostato il livello più alto e per risolvere alcune battaglie cruciali ho dovuto fare abbastanza attenzione e anche ingegnarmi per dosare le forza, capire dove intervenire quando e come recuperare gli approvvigionamenti.

Ad un certo punto ho anche dovuto imparare a parare, schivare e deflettere gli attacchi più forti portati dai generali nemici. Non mi era mai capitato prima.

La via del guerriero

Per quanto riguarda il senso di progressione: c'è una dimensione relativa alla crescita del personaggio che passa per i punti che si ottengono in battaglia, i gradi delle armi che si acquisiscono a furia di utilizzarle, gli sblocchi di una serie di tecniche speciali che una volta padroneggiate si potenziano ulteriormente. Il nostro personaggio quindi non è statico, vuoi per una questione di parametri interni di crescita, sia per lo schema dell'equipaggiamento che cresce progressivamente di rango, con la raccolta di gemme, amuleti, nuove armi. Il tutto però non è chissà quanto dispersivo, non saremo mai messi di fronte ad uno skill tree di cui difficilmente vedremo la fine, non è quello che vuole fare il gioco, tuttalpiù Dynasty Warriors Origins approfondisce un sistema di per sé funzionante con una blanda infrastruttura ruolistica a sblocchi progressivi. Non vi troverete mai a dover costruire un build del vostro personaggio, al massimo a potenziare di più un'arma con la quale siete più in sintonia rispetto ad un'altra il cui moveset vi suona di meno, con uno specifico set di supermosse a seguire.

Il succo del Musou c'è e risulta, dopo tanti anni, anche fresco e curato, anche capace di restituire un piacevolissimo colpo d'occhio pur scendendo a patti con una sintesi grafica abbastanza netta e senza fronzoli che non brillerà mai e poi mai per recitazione o profondità della caratterizzazione dei personaggi, ma che in mezzo al casino fa il suo.

Dynasty Warriors Origins è un titolo onesto e divertente, di mestiere più che di cuore, probabilmente; una macchina rodata che fa le cose giuste per non subire staticità e vecchiaia senza snaturare il concetto su cui si basa tutto il gioco e che, sistemato e ripulito è anche capace di brillare nel suo essere esattamente quello che si prefigura essere: un grande gioco di battaglie campali, ambientato nella Cina tra il II e il III secolo d.C. dove da soli sconfiggiamo miglia di nemici in una volta.

Alessandro Palladino

Da che ne ho memoria, i Musou sono sempre stati un genere di una nicchia pazzesca, a prescindere da quanto le compagnie ci provassero a renderli più o meno commerciabili. Pensiamo agli enormi sforzi di Bandai Namco con IP come One Piece, Attack on Titan o Berserk, marchi che in generale si prestano alle battaglie campali che caratterizzano questo genere. Per non parlare di Nintendo che più volte ha provato, con più o meno successo, a tradurre le sue icone in tale declinazione, partendo da Zelda e arrivando a Fire Emblem. Cercando bene e spulciando un po' le infinite librerie digitali delle piattaforme, troverete un Musou per ogni evenienza e occasione. Tuttavia è innegabile che il capostipite di questo intero genere sia Dynasty Warriors e oggi, con Origins, torna a rimettersi la corona per far capire la potenzialità di questo sbocco ludico e narrativo.

A essere onesto, sono uno che ha sempre apprezzato il genere per diversi motivi, il principale penso sia alla sensazione di essere su un campo di battaglia pieno di obiettivi su cui ci si può spostare e con truppe alleate ad effettuare azioni indipendenti. Caratteristica in comune con qualsiasi strategico, certo, ma la dinamicità e spettacolarità di un musou non ha eguali, quando fatta a dovere. Per esempio, ho apprezzato molto quanto fatto con Attack on Titan perché, in quel contesto specifico, la mobilità dell'equipaggiamento tridimensionale incrementa il concetto di mobilità alla base di ogni musou e lo fa in una maniera che rispetta la sensazione del marchio su cui si basa. Spostandosi sul combattimento, direi che Fate/Extella ha fatto la cosa migliore grazie a un roster di personaggi con poteri strabilianti da cui prendere. Strategicamente, invece, Fire Emblem è stata la scelta migliore per unire una programmazione più attenta all'azione sul campo di gioco.

Se questi titoli spesso si vedono risplendere su uno specifico aspetto, la punta di diamante classica, Dynasty Warriors: Origins invece è una somma di tutte le parti, ridotta nei punti più ostici ma senza detrarne nulla in termini di qualità, quantità o resa tecnica. Molti colleghi prima di me hanno evidenziato quanto Origins sia un distacco netto rispetto ai precedenti Dynasty Warriors, tuttavia – per quanto giusta sia questa analisi – mi trovo più vicino alla posizione espressa dal producer di Omega Force Tomohiko Sho, il quale ha spiegato in un’intervista a SpazioGames quanto l'intenzione del team non fosse di resettare tutto e creare uno scisma, piuttosto quella di concentrarsi su un nuovo tipo di raccontare la storia e i Tre Regni, un qualcosa che fosse più personale per il giocatore e che, di conseguenza, non apparisse come una sorta di grande scacchiera dove l'utente seleziona “i pezzi” da utilizzare e vivere. Spesso la grandezza del roster è una caratteristica intrinsecamente associata al concetto di Musou e quindi Origins, che esce fuori da innumerevoli capitoli con modalità cooperative e una marea di protagonisti, diventa estraniante quando invece scarta totalmente quell'idea per dare un avatar delineato al giocatore.

Invece ho avvertito che il cuore della bellezza di Dynasty Warriors sia rimasto integro e inalterato, con le gioie e i dolori che ne conseguono a seconda del gradimenti per il genere. Rinvigorito, a mio parere, da tutta una serie di funzioni che rendono sia la pianificazione che l'azione più diritta e stratificata. Le battaglie campali rimangono le stesse di sempre ma si arricchiscono di variabili costanti, tanto dar l'impressione di “dimenticare” la mattanza generale che contraddistingue questo genere. Proprio perché il protagonista è un perno centrale indissolubile, dargli la posizione di comando e rendere il suo intervento centrale personifica un po' quella che è sempre stata l'azione del giocatore come “entità astratta”, pur rimanendo fermi nel bisogno di mostrare gli eroi principali dei Tre Regni e, anzi, introdurre delle scelte significative che vanno prese solo dopo averne osservato la storia da ogni angolazione, partendo proprio dalla “tela bianca” del protagonista senza memoria o identità definita. Scegliere, comandare, dialogare e altre funzioni assimilabili alla macrocategoria del gameplay sono costruite in modo da darvi l'impressione di vederle fuori da dei menù, iscritte nelle storie e nei momenti più che nella schermata di pausa e preparazione.

In questo preciso aspetto, secondo me, è il fattore che Dynasty Warriors: Origins utilizza per conquistarvi, per farvi credere che state affrontando una bestia totalmente diversa da un musou qualsiasi ma che in realtà ne è solo la naturale evoluzione verso una sintesi più immediata, coinvolgente. Non cela ciò che rende il genere tale, ne cambia i connotati per asservirli a una modernità presupposta, anche perché vi basterà scendere in campo per rendervi conto che tutto sommato la storia del marchio si fa sentire anche un motore grafico del tutto rivisto. L'unica debolezza che vi concedo è il non avere il roster di Sparking Zero, ma per il resto siamo su una linea che a ben vedere rimanere nel tradizionale, e anzi per fortuna lo fa!

Con un po' di magia e rimestamento degli elementi, complice proprio questo approccio diretto e dinamico delle funzioni strategiche, Dynasty Warriors: Origins sembra essere adatto a tutti, una sorta di illusione che ha spezzato la barriera che accompagna i musou da tanto tempo, senza però farvi rendere conto che in realtà non ne ha alterato per niente scheletro, dinamiche e funzioni. Lo dice lo stesso producer: non è un reset, è un modo diverso di interpretare l'offerta, di focalizzarsi su un qualcosa di più narrativo e personale rispetto alla vasta coralità a cui siamo abituati. Ed ecco che forse, come quando si mette il miele sul bordo del bicchiere per la medicina amara, Dynasty Warriors: Origins fa mandare giù il boccone amaro dello stigma da Musou per rendersi conto che, in realtà, ‘sti musou non sono per niente male.

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