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Dune - La recensione

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Abbiamo visto il nuovo film di Denis Villeneuve, Dune. Nelle intenzioni del regista, l'inizio di una piccola saga. Per noi, un grande film.

Dune, il pianeta più importante dell’universo narrativo creato da Frank Herbert. Dune, il film onirico di David Lynch, massacrato dalle logiche di una produzione miope. Dune, il capolavoro mancato di Jodorowski. Dune, l’inizio della nuova saga firmata da Denis Villenueve.

Quando parliamo di Dune, riferendoci alla serie, ai film, ai videogiochi o ai progetti mancati, non possiamo prescindere da un aspetto preciso e fondamentale: le opere in questione hanno sempre cercato di rendere – con alterne fortune – la complessità del mondo immaginato dallo scrittore statunitense e i molteplici livelli di lettura dell’opera originaria.

Il film di Villenueve arriva ben trentasette anni dopo quello di Lynch, forte di un notevole salto in avanti dal punto di vista tecnologico, di una produzione degna di un kolossal della grande stagione del cinema e di un regista che decide da subito che un progetto così dovrà essere diviso in (almeno) due film.

Questo ultimo aspetto è stato uno dei punti su cui mi sono maggiormente interrogato, mentre aspettavo l’inizio della proiezione. Più volte mi sono chiesto come avrei potuto recensire un’opera così complessa (da tanti punti di vista), vedendone solo una metà.

Poi è partito il film e mi sono riempito di meraviglia.

Tutto, nel film di Villenueve, grida rispetto e ammirazione per il romanzo: i tempi narrativi, i costumi, il design delle astronavi, il tempo necessario a far imparare allo spettatore i dettagli dell’universo di Dune, l’azione frenetica e coreografica.

Questo aspetto, da solo, non sarebbe sufficiente a rendere il film in questione un grande (grandissimo) prodotto. Ma se a questo si aggiunge che dietro alla macchina da presa c’è Denis Villeneuve, a comporre la colonna sonora c’è Hans Zimmer, a dirigere gli effetti speciali Gerd Nefzer e così via, il quadro diventa più chiaro.

Quindi questo Dune mi è piaciuto. Ma perché?

Gli aspetti da trattare sono tanti, come potete ben immaginare.

Ricostruire sullo schermo il mondo di Dune è una sfida estremamente complicata: dalle casate provenienti da pianeti diversi tra loro ai poteri delle Bene Gesserit fino alla costruzione di ecosistemi e relativi sistemi di sostentamento, c’è sufficiente materiale per perdere la testa.

Il compito in questione è stato mirabolantemente portato a termine da un meccanismo produttivo eccellente e da una squadra di talenti dei rispettivi settori.

Partiamo dai costumi, gestiti da Jacqueline West, che accompagnano e sottolineano gli aspetti fondamentali dei personaggi. Le Bene Gesserit, vestite di nero e velate, che lavorano nell’ombra da secoli, sono appunto delle ombre che si confondono coi paesaggi scuri delle stanze del potere. I soldati, siano essi Sardaukar al soldo dell’imperatore, col grigio delle uniformi imperiali o Harkonnen con i caschi neri o ancora Fremen con i veli ispirati alle popolazioni nomadi del deserto, sono immediatamente riconoscibili ed inquadrabili. La corte imperiale, di cui vediamo solo un assaggio, ma che fornisce allo spettatore un’immediata comprensione di cosa voglia dire essere imperatore di un interno universo, composto da razze, pianeti, usanze e linguaggi diversissimi tra loro.

Passiamo poi alle scenografie, al cui vertice c’è Patrice Vermette, e che ancor più dei costumi immergono lo spettatore all’interno della politica e del mondo di Dune con un semplice colpo d’occhio. La maestosità degli ambienti in cui si svolgono le scene del film rende immediatamente il calibro di un’azione che si muove su livelli interplanetari e di una trama che deve abbracciare tutto il tempo e lo spazio. Ancora ho negli occhi le immagini delle immense astronavi – da carico, da attacco o d’appoggio – che si vedono lungo il film e che fanno spalancare la bocca per la meraviglia a chi vive nel 2021 e vede davanti a sé oggetti usciti fuori da millenni nel futuro.

Aver affidato la colonna sonora a Hans Zimmer sarebbe già da sola una condizione sufficiente a garantire la qualità del prodotto finale. Mi preme però sottolineare come il compositore più famoso in circolazione abbia fatto un lavoro egregio, andando a pescare sonorità etniche e unendole a quelle elettroniche, in un mix che colpisce allo stomaco come un pugno mentre la battaglia infuria e ti culla sulla poltrona mentre la telecamera indugia sui paesaggi di Arrakis.

Il cast stellare è l’ultimo dettaglio su cui mi soffermerò, per poi tornare a guardare il film da un punto di vista più generale. Già nell’aggettivo stellare c’è tutto il significato che voglio dare a questo aspetto ma voglio soffermarmi in particolare su tre attori:
Stellan Skarsgård, nella parte del Barone Harkonnen, quasi non ha bisogno del trucco e degli effetti speciali per trasmettere il disgusto e il terrore che si addice a una creatura di quel tipo. Pur apparendo per pochi minuti, il suo sguardo vuoto e truce mi è rimasto appiccicato addosso.
Rebecca Ferguson trascende la sua umanità e diventa qualcosa di diverso, un misto tra la madre che teme per il proprio figlio e una guerriera implacabile. Una Bene Gesserit dei nostri tempi.
Infine, Timothée Chalamet. Lo spettatore conosce Paul come un timoroso rampollo di buona famiglia e lo trova alla fine nei panni di un Duca decaduto, profeta di una guerra santa. E non sono il trucco o i costumi. È tutto l’atteggiamento dell’attore, dalla postura delle spalle al suo modo di parlare.

Non ho ancora risposto alla mia domanda di qualche riga più in alto, però. Tutti questi punti, anche messi insieme, non riescono comunque ad offrire un quadro veritiero del lavoro firmato da Villeneuve.

La risposta, forse, sta proprio nella scelta di aver deciso di raddoppiare Dune in due film, seguendo lo schema del romanzo (che è diviso in tre parti, a onor del vero). Solo così il regista ha potuto accompagnare lo spettatore all’interno delle stanze del potere delle singole casate, presentandogli i consiglieri e facendo assaporare la brutalità degli Harkonnen, la lungimiranza degli Atreides e la saggezza tribale dei Fremen.

Dilatando i tempi e appiattendo il film sulla trama del libro, Villeneuve ha cercato di far metabolizzare quel misto di politica, misticismo, filosofia e azione che ha dato al romanzo Dune il successo che merita. Solo così ci ha restituito un film in cui è possibile seguire per più di un’ora Paul tra riunioni del consiglio di famiglia, nella stanza della Veridica o nei suoi sogni premonitori senza annoiarsi e poi catapultarci nell’azione febbrile nel volgere di una scena, dandoci un assaggio di quello che vedremo nel prossimo film.

E quindi immagino questo film come una grande overture di un’orchestra affiatata, diretta da un talento della bacchetta, che scava nel profondo di una storia e la trasmette lentamente al pubblico, in un crescendo di velocità e azione. Per poi fermarsi sul più bello e dire “Questo è solo l’inizio”.

Che è una bellissima promessa ma io la seconda parte la voglio domani.

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