Dona Bailey, come sopravvivere due anni in Atari e uscirne in punta di (mille)piedi
Il racconto della prima donna a programmare un cabinato da sala giochi che entrò in Atari grazie a una canzone e che ne uscì senza voltarsi indietro
Nel 1981 lavorare all’Atari era un po’ come vivere l’impunibilità fracassona, goliardica e edonistica di Atari con il coding al posto delle pubblicità della Lucky Strike. Riunioni in jacuzzi a cui erano invitate anche le più carine dell’ufficio, giochi che avevano come nome di produzione quello delle segretarie (pare che Darlene fosse il working title di Home Pong), gente che si vestiva come voleva, marijuana che circolava libera.
In parte era un mito alimentato all’epoca dallo stesso Bushnell, in parte ci sono conferme dalle poche donne che lavoravano all’epoca nell’azienda più “cool” degli Stati Uniti, due anni prima che crollasse tutto.
Tra queste donne c’era anche Dona Bailey, Dona non era una segretaria, non portava i caffè, non era nella catena di montaggio, Dona era una programmatrice, una delle pochissime in un club quasi esclusivamente maschile. Il motivo per cui i videogiochi sono stati per anni pensati e sviluppati in gran parte da uomini è da ricercarsi nel loro retroterra: i primi computer a disposizione di chi voleva imparare a programmare si trovavano in università e settori in gran parte popolati da maschi, di solito bianchi, i quali spesso erano anche tra i pochi a potersi permettere o a voler comprare uno dei pochi e costosi personal computer a disposizione in quegli anni, com l’Apple II o il Vic 20. E poi, tendenzialmente, i maschi assumono i maschi.
Dona già prima di entrare nel mondo dei videogiochi era diversa rispetto alla media, era una programmatrice assembly e lavorava per la General Motors, ma le sale giochi, la Atari e il concetto stesso di videogioco gli era quasi del tutto alieno. Curiosamente, saranno proprio gli alieni ad avvicinarla al settore, quelli di Space Invaders.
Un bel giorno sente una canzone dei The Pretenders, un pezzo che gli piace veramente tanto: Space Invaders. Un suo amico che gestisce un negozio di dischi gli dice che è ispirata a un gioco elettronico che sta avendo un grandissimo successo e che lei ignora almeno quanto oggi un sessantenne ignora Minecraft. Incuriosita, la Bailey va nella più vicina sala giochi per capire cosa diavolo fossero questi alieni invasori e si trova davanti al gioco di Toshihiro Nishikado.
Mette una moneta e dopo pochissimo tempo arriva il Game Over, Dona non ci capisce niente, come molti al loro primo impatto con un videogioco. In tanti avrebbero mandato tutto a quel paese, ma Dona si fa subito contagiare da queste nuove strane macchine, macchine che, guarda caso, utilizzano gli stessi transistor con lui lei ha a che fare tutti i giorni alla General Motors.
Nel 1980 varca i cancelli dell’Atari, è l’unica donna programmatrice su 30 persone con la stessa qualifica. Quando se ne andrà sarà l’unica su 120.
Successivamente la Bailey definirà gli uffici Atari su Gamasutra come “l’esperienza più vicina a una confraternita studentesca che io abbia mai provato in vita mia”.
“Fu la mia prima esperienza con una situazione di questo genere: quando sei l’unica persona di un certo tipo. È come se tu perdessi la tua identità, è molto strano. Non è che io mi sia mai dimenticata del tutto di essere una donna, ma in certi momenti era proprio così. È stata una bella esperienza, ma anche tosta. Ricordo che alla fine del secondo anno, dopo 27 mesi là dentro, a un certo punto ho pensato “Voglio ricordarmi di nuovo ciò che sono, da sola, con me stessa, senza niente di tutto questo attorno a me”.
Ma prima di arrivare a questo punto c’è Centipede, c’è lei che viene messa di fronte a una scrivania con un solo obiettivo: fare un gioco, che in quegli anni poteva voler dire qualunque cosa, ma nei confini di un hardware molto limitato. Le varie idee e gli spunti dei potenziali giochi venivano raccolte dai creativi dell’Atari in un taccuino con delle brevissime frasi che ne descrivevano sommariamente il concetto.
Tra tutte le proposte ce n’è una che la attira particolarmente: "un insetto in più segmenti che scende verso il giocatore”. Tutto qua. D’altronde per creare un gioco in quegli anni non serviva molto altro. Dona lo sceglie perché è l’unica tra trenta idee che non è violenta, o meglio, lo è un po’ meno delle altre perché “non c’è niente di male non voler eliminare un insetto”.
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Il progetto coinvolge quattro persone ed è guidato da Ed Logg, che si occupa anche di gran parte del desing, mentre la Bailey ricoprirà il ruolo ingegnera del software. La parte più interessante e pioneristica di questa vicenda sta nel fatto che, come riporta la Bailey stessa, non c’erano manuali di design a cui fare riferimento, non c’erano altri giochi di quel tipo a cui rifarsi né molte persone a cui chiedere aiuto.
Di sicuro il suo punto di vista differente rispetto alla media dei dipendenti Atari fu utile per Centipede, che nelle intenzioni dell’azienda doveva essere il cabinato pensato per portare in sala giochi un pubblico femminile e ci riuscirà, almeno secondo le stime del periodo, secondo cui metà dei giocatori di Centipede erano donne. Per comparazione, il 95% dei giocatori di Defender erano uomini.
Il gioco verrà inoltre lodato per la sua grafica particolarmente colorata, nel 1983 sarà al nono posto nella top ten dei titoli Atari per una rivista dell’epoca, la sua versione casalinga nell’84 vincerà premi e sarà un must per ogni possessore di Atari 2600.
Ma tutto questo Dona Bailey lo vedrà solo una volta andata via da Atari dopo non aver completato il suo secondo progetto a cui stava lavorando perché le limitazioni hardware dell’epoca le impedirono di realizzarlo come avrebbe voluto.
Prima dell’uscita di Centipede la sua presenza in azienda era senza dubbio fonte di attenzioni e di una certa pressione: è palese che se sei l’unica programmatrice in un settore maschile sei un po’ come una tigre bianca allo zoo, una sorta di strana creatura da guardare con meraviglia o con un po’ di ironia. La cosa può essere particolarmente logorante se sei un po’ timida e introversa, e la Bailey lo era, ma il suo essere una rarità le impediva di scivolare sullo sfondo come avrebbe voluto, aveva sempre un faro puntato.
“Non ero abituata a attenzioni extra in ambito professionale ed erano senza dubbio maggiori di quelle ricevute fino a quel momento! Devi fare determinate cose per adattarti a tutto questo e non penso di essere stata veloce nel capire come gestire tutto ciò”.
Ma la parte peggiore arrivò dopo l’uscita del gioco, perché dopo il successo di Centipede la Bailey non fu accolta nel “Boys' Club” come una che sapeva il fatto suo, dimostrando di poter competere tranquillamente in un settore maschile, ma anzi dovette fronteggiare le obiezioni di chi pensava che avesse barato, che non avesse realmente lavorato al gioco e fosse tutta una montatura, qualcun altro aveva fatto il lavoro al posto suo.
Quella fu probabilmente la goccia che fece traboccare un vaso già abbastanza pieno di stress. Dona Bailey se ne andò da Atari nel 1982 e dopo aver lavorato brevemente in Videa, un’azienda di ex dipendenti Atari, si separò del tutto dal settore senza mai voltarsi indietro, se non per rilasciare interviste sul suo passato nell’azienda e collaborarci nel 2012 per il lancio di Centipede: Origins. Oggi insegna retorica e scrittura nell’Università dell’Arkansas a Little Rock. Anche perché poco dopo il suo addio ci fu il collasso totale del settore nel 1983.
Difficile dire oggi cosa sarebbe potuto succedere se un ambiente di lavoro un po’ meno asfissiante le avesse reso più semplice continuare la sua carriera di programmatrice, resta comunque una pioniera in un settore che oggi è molto diverso, ma non ancora abbastanza diverso.