The Art of Atari, quando la copertina era tutto
Qualche giorno fa stavo parlando a un collega di un titolo che dovevo recensire e per descriverlo ho detto “è tipo Cabal”. Quando mi ha fatto notare che lui era nato proprio nell’anno in cui era uscito il gioco (1988) ho sorriso, mentre dentro di me qualcosa cercava un cappio. A 35 anni nel mondo ... The Art of Atari, quando la copertina era tutto
Qualche giorno fa stavo parlando a un collega di un titolo che dovevo recensire e per descriverlo ho detto “è tipo Cabal”. Quando mi ha fatto notare che lui era nato proprio nell’anno in cui era uscito il gioco (1988) ho sorriso, mentre dentro di me qualcosa cercava un cappio.
A 35 anni nel mondo dei videogiochi si entra di diritto nel novero dei vecchi rompiballe, quelli che quando dispensano perle di saggezza alle nuove generazioni di videogiocatori vogliono essere ascoltati non vedere occhi che si alzano al cielo, e che hanno tutti i sacrosanti motivi per utilizzare espressioni altisonanti come “ai miei tempi…” in ogni frase.
Del resto noi veterani di pad e cartucce ancora portiamo i segni delle guerre tra console, delle brucianti delusioni quando spendevamo le paghette di mesi per un gioco che poi si rivelava una sola ipergalattica e dei traumi quando la mamma o il fratello ci staccavano la spina senza darci il tempo di salvare. Ma che ne vuole sapere questa generazione Millenial? Hanno tutti gli strumenti per valutare un videogioco e invece li trovi solo a lamentarsi sui forum (a dire il vero anche a noi piaceva) e gridare allo scandalo quando un titolo esce con una grafica diversa da quella della demo o dei primi video.
Il filmato, spesso rilasciato mesi prima del gioco, serve infatti a impressionare la stampa e convincere i negozianti a prenotarne quantità ingenti, ma poi l’inferno dello sviluppo di un videogioco moderno di fascia alta è tutt’altra storia. Questo procedimento si chiama “downgrade” e, anche se non fa mai piacere dirlo, segue logiche di business. Può quindi talvolta succedere che la versione di un gioco finale sia deludente rispetto alle prime grandiose aspettative.
Il giocatore moderno però ha mille modi per capirlo, ai miei tempi invece sì che venivi fregato, perché la grafica era quello che era, i trailer manco esistevano, le riviste erano poche e gli unici elementi che potevi usare per farti un’idea del gioco erano:
- L’amico figlio di papà che lo aveva già, evento abbastanza raro.
- Il parere del negoziante, che però spesso non sapeva neanche cosa stava vendendo.
- La copertina, ma la descrizione sul retro era in inglese e tu avevi a malapena 7 anni.
Prendiamo ad esempio Cabal: il gioco era questo.
Solo che te lo spacciavano così, con teschi, muscoli, urla e adrenalina!
Come potevo io non rompere i coglioni a mio padre dopo la convincente visione di un tizio che impugna una Uzi?
Per questo motivo in quel periodo le cover dei videogiochi erano vere e proprie opere d’arte, quadri che in un solo colpo d’occhio dovevano affascinare il potenziale acquirente, giusto il tempo necessario all’acquisto, facendogli dimenticare che alla fine si sarebbe trovato di fronte a un ammasso di pixel colorati.
In quell’immaginario totalmente da inventare era la copertina che ti faceva sognare, era la copertina che ti vendeva il gioco, era la copertina che riempiva gli spazi vuoti tra ciò che avresti voluto e ciò che giocavi veramente.
Questo valeva per il Commodore 64, per l’Amiga (che però era così piratato che le copertine non le vedevi mai) ma soprattutto per l’Atari.
Ed è per questo motivo che le copertine dei videogiochi Atari erano fondamentalmente dei piccoli capolavori di fascinazione, scorci di mondi bellissimi, pensate per evocare nel giocatore immagini favolose, gesta eroiche, avventure emozionanti, mostri terrificanti… che poi alla prova dei fatti si rivelavano dei blocchetti colorati sullo schermo e il resto dovevamo mettercelo noi.
Ecco perché un libro come The Art of Atari, che uscirà a ottobre con prefazione di Ernest Cline (quello di Ready Player One da cui Spielberg sta ricavando un film) non solo ha senso di esistere, ma è anche una di quelle cose da mettere in libreria e mostrare ai nipoti prima che ti umilino a Call of Duty XX.
The Art of Atari è la prima raccolta di tutti questi artwork, presi da collezioni private di tutto il mondo (strano che non siano venuti a bussare a casa mia). Tra le pagine del libro scorrono oltre 40 anni di storia dell’Atari, dalle copertine, al merchandising, dalla pubblicità ai cataloghi. Non mancano restrospettive sui giochi più famosi, concept e foto dei bozzetti originali, prove scartate, schizzi, interviste agli artisti coinvolti nella creazione, dietro le quinte e così via.
Ah è un’ottima riprova del fatto che, a volte, più bella era la copertina e più brutto era il gioco. Basta guardare quella di E.T.
Insomma, se cercate un tuffo nel passato, Art of Atari è probabilmente il trampolino giusto.
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