Dino Crisis e l’orrore primordiale.
A cavallo tra il '99 e il 2000 Dino Crisis portò sugli schermi di milioni di giocatori un orrore che mescolava Resident Evil e le fascinazioni provocate da Jurassic Park per un gioco di cui tutti aspettano il remake
Gli anni ’90 sono stati iconograficamente rilevanti per ogni media esistente; nessuno escluso. Tuttavia osservando oggi l’offerta videoludica del periodo, risulta piuttosto chiaro quanto siano state essenziali alcune idee (o concept se preferite) nate nel corso dei decenni precedenti.
Prendiamo per esempio il più noto fra i franchise Capcom, quello di Resident Evil (o Biohazard per i puristi). Do per sottinteso che senza il retaggio culturale del cinema di genere, nello specifico, quello di George A. Romero, non solo non avremmo avuto il piacere di conoscere Chris, Leon e i relativi Tyrant; ma l’iconografia, quasi industrial, dello zombie non avrebbe mai raggiunto la portata a noi nota. Per cui una domanda sorge spontanea: quale soggetto videoludico nato allo scadere degli anni '90 ha osservato un processo simile?
Personalmente considero Michael Crichton uno dei più influenti e rappresentativi autori del XX secolo. A lui dobbiamo alcuni fra i soggetti più belli della letteratura contemporanea: The Andromeda Strain, The Terminal Man, Sphere e molti, troppi altri romanzi. Alla fine degli anni ’80 però, comincia a insinuarsi un’idea ricorrente e persistente nella mente dello scrittore, un’idea che maturerà per un anno intero finché, proprio nel ‘90, prenderà definitivamente vita.
Quell’idea prendeva il nome di Jurassic Park. Purtroppo non posso dare per scontato che chiunque abbia avuto un’infanzia più o meno felice abbia letto Jurassic Park. Io personalmente fui quasi costretto, o meglio dire, fu la mia ossessione per teropodi e creature estinte a costringermi; eppure, con il senno di poi, ringrazio e guardo con fare nostalgico quella mia vecchia ossessione, memore di un’infanzia passata a ruggire ed emulare i grandi predatori del passato.
A dirla tutta una mezza ossessione per i dinosauri è rimasta, versi ed emulazioni a parte.
A prescindere dai ricordi, i due romanzi di Crichton, Jurassic Park (’90) e Il Mondo Perduto (’95), sono corrispettivamente due grandi perle della narrativa, capaci sì di meravigliare il lettore, ma anche di sottoporlo a interessanti riflessioni di carattere etico; ove l’etica viene richiesta per giudicare l’uso estremo e incondizionato del potere scientifico, nello specifico: l’ingegneria genetica. Al di là di questo, prim’ancora che il romanzo fosse ultimato, Crichton fu contattato da un tale, un certo Steven Spielberg, che acquisì preventivamente i diritti del romanzo per poterlo adattare al grande schermo.
Dopo anni di rinvii e vicissitudini varie, nel 1993 il mondo ammirò per la prima volta il Jurassic Park di Spielberg, primo di una lunga serie di successi commerciali che, nemmeno poi così indirettamente, ispirò uno dei videogiochi più belli di sempre e di cui io, e non solo io, sento una mancanza bestia.
Appena sopra citavo Resident Evil, esempio lampante di come il videogioco abbia attinto a dei stilemi passati per poter imbastire un concept. Ciononostante, l’enorme proprietà intellettuale maturata da Resident Evil a partire dalla seconda metà degli anni ’90, servirà a sua volta per gettare ulteriori fondamenta a un survival horror indubbiamente singolare – sempre per il suddetto concept – ma filologicamente riconducibile a un’esperienza ludica quanto più prossima ai canoni del sopracitato Resident Evil; sto parlando ovviamente di Dino Crisis o Dino Kuraishisu (sempre per i sopracitati puristi)
Nel nominare Shinji Mikami - senza eccessi uno dei game director più blasonati di sempre – tutti gli aficionados di Leon, Claire e compagine potrebbero (e dovrebbero) drizzare le orecchie; motivo? La sua mano dietro la direzione di Dino Crisis. Il celebre director infatti, diresse e gestì la produzione e lo sviluppo di questo nuovo survival horror. La forma mentis del gioco era geneticamente derivativa, mostrando il non plus ultra del know-how maturato nei primi tre capitoli del franchise a tema zombie.
Il risultato fu una ip maestosa, con un nuovo comparto audio-video, questa volta esente da fondali prerenderizzati, ma dotato di un motore grafico dedicato capace di immergere il giocatore in una realtà dinamica, ma contemplativa in quei frammenti ove l’ingegno nel saper risolvere gli iconici enigmi – timbro assoluto dei survival Capcom – si coadiuvava con l’osservazione dell’ambiente: migliorato e curato ai limiti dell’hardware del periodo.
Al di là di questo lato “edonista”, Dino Crisis proponeva uno script di buona traduzione fantascientifica, in cui una squadra di estrazione (ricorda qualcosa?) veniva eliportata su di un’isola, Ibis Island, da cui da tempo provenivano strani rapporti. Qui vestiremo i panni di una nuova femme fatale: Regina. Costei sarà immersa nel incubo sin dai primi minuti di gioco, costatando con estremo orrore i resti martoriati del personale della struttura di ricerca. Questo dettaglio ricco di gore e suspance denotava immediatamente gli intenti del gioco; definendo un registro stilistico che non voleva far altro che raccomandare il videogiocatore: “niente zombie? Poco male. Questa volta il pericolo sarà primordiale”.
Mettiamo quindi da parte le braccia tese e la carne in putrefazione, per far posto ad animali ufficialmente estinti e poco avvezzi alla coabitazione con gli umani; che tutt’al più apparivano come un “buffet ambulante”. I dinosauri proposti non erano numerosi, ma costituivano ugualmente una costante temibile, essendo questi molto più agili, pericolosi e intelligenti rispetto ai comuni mob di Resident Evil.
Nell’insieme questi ci proiettavano in una lotta alla sopravvivenza estrema e al cardiopalma, in cui la routine di gioco lasciava davvero poco spazio per riprendere fiato. Il tutto veniva veicolato con un gameplay già rodato e quindi familiare ai veterani di Raccoon City, ma proponibile senza troppe difficoltà anche a un pubblico di neofiti. Andava calcolato tutto: munizioni, kit di soccorso, oltre all’intero arsenale che la nostra agente avrebbe usato fra un velociraptor e uno pteranodonte.
Questo era Dino Crisis in tutta la sua ferocia.
Il mondo dei 32 bit rispose in maniera entusiasta, premiando ed elogiando il lavoro di Mikami sotto ogni aspetto; un’onda di consensi che con ogni probabilità spinse la casa di Osaka ad avallare lo sviluppo di un secondo capitolo. Dino Crisis 2, arrivava dunque nei negozi giapponesi appena un anno più tardi, il 13 settembre del 2000 (il 24 novembre nel vecchio continente).
Dino Crisis 2 ebbe una gestazione di gran lunga diversa rispetto al capitolo precedente; innanzitutto cambiò la direzione, che vide Shū Takumi (già presente nel team di Dino Crisis) sostituire Sinji Mikami; mentre la scrittura venne affidata alla buon’anima di Noboru Sugimura. L’aspetto più divergente consisteva non solo nell’impianto tecnico, meno virtuoso del precedente, ma anche e soprattutto nella grammatica di gioco. Dino Crisis 2 compiva un’enorme digressione rispetto al capitolo precedente, affievolendo la componentistica horror in favore di un’azione frenetica e dirompente.
Qui aumentavano in gran misura i dinosauri, così come i sistemi per poterli abbattere: dalle semplici armi individuali, passando per carri armati e satelliti in orbita. Un grand guignol di sangue, piombo e zanne, parecchie zanne. Il gameplay rimase canonico, nonostante un timbro decisamente più arcade e una gestione delle risorse elementarizzata. Il plot persisteva – per sommi capi – sulla direttrice fantascientifica, mostrando una storia decisamente più altisonante rispetto al registro del primo capitolo di matrice più residenteviliana. Fra plesiosauri e squarci temporali, Dino Crisis 2, seppur profondamente disallineato dai binari stilistici del predecessore, offriva un’esperienza di gioco senz’altro complementare, chiudendo un cerchio che ahimè, al di là di qualche rada incursione, è totalmente scomparso dai radar delle generazioni successive alla prima macchina Sony*.
Riesco già a udire le legioni di smartass sotto casa, armati di ingiurie, forconi e copie di Dino Stalker e Dino Crisis 3. A costoro manco fossi il Papa la domenica dico: vogliamo davvero considerarli? Certamente, Dino Stalker era carino se giocato con light gun, ma facilmente dimenticabile alla stregua del peggior Time Crisis; mentre Dino Crisis 3…sarò sincero, non l’ho mai ritenuto un’aberrazione, al contrario, anelo da tempo una sua rivalutazione; tuttavia siamo dinanzi a qualcosa di completamente avulso al franchise, per cui in definitiva, mi tocca ometterlo a tempo (in)determinato.
Cosa rendeva così speciali i due Dino Crisis e perché ne sentiamo la mancanza? Ignoriamo tutti la ragione dietro il presunto coma farmacologico della serie, eppure non riusciamo a fare a meno di sperare, ogni sacrosanta volta, in una sua riapparizione all’limite di una visione religiosa. Questo è un segno inequivocabile del pesante retaggio culturale che la serie continua imperterrita ad avere fra i suoi fan; d’altronde perché pensare il contrario? Dino Crisis era un’esperienza che, seppur chiaramente influenzata dai fasti horror del ben più celebre Resident Evil, riusciva ugualmente a proporre qualcosa di profondamente originale: dai dischi fissi essenziali per lo sblocco di alcune porte, alle tubature mobili multicolor appena dopo i pteranodonti, per non parlare degli outfit – profondamente figli degli anni 90 – tutto fuorché tattici.
Il saper coadiuvare questi elementi stilistici a un’avventura colma di tensione e dinamismo, contribuiva a tracciare quello standard qualitativo che, a scanso di equivoci, non è “assolutamente” andato a diminuire negli anni, al contrario è aumentato capillarmente; tuttavia, proprio il consolidamento di questo standard qualitativo lascia imperterriti sulla sorte spettata al franchise. Data la longeva continuità di Resident Evil, si potrebbe pensare che il problema dietro Dino Crisis risieda nel concept, forse proprio in quei dinosauri che tanto distinguevano le due ip negli anni 90; eppure continuo a credere che proprio loro costituivano il vero memorabilia della serie, contribuendo in maniera significativa alla naturale dose di orrore a cui si era sottoposti: dalla visione in soggettiva del velociraptor che si avvicinava a Gail nel prologo – come dimenticare l’inconfondibile suono dei passi del raptor? – o al T-Rex che faceva capolino nella “Stanza del Capo” rompendo l’enorme vetrata e afferrando il cadavere dello scienziato.
Tutto questo mi manca, non posso e non voglio nasconderlo, e non posso neanche pensare che in quel di Osaka qualcuno non abbia deciso di riesumare cotanta bellezza. A prescindere da questo criptico mistero, sono assolutamente convinto che Capcom abbia in serbo dei piani per Dino Crisis, magari un restyling non dissimile da RE 2 e RE 3 Remake. In tal caso, giù i pantaloni.
*prima che mi lapidiate, Dino Crisis 2 è uscito in seguito anche per PC, ma trattasi di un porting, peraltro neppure di qualità.