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Cosa stiamo perdendo nella TV del 2020? Analisi del UCLA Hollywood Diversity Report

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Mentre i numeri parlano di un timido aumento della diversità nella produzione televisiva, le cancellazioni del 2020 richiano di vanificare gli sforzi fatti.

Pochi giorni fa è stata pubblicata la seconda parte del UCLA Hollywood Diversity Report 2020, un ricco documento statistico e analitico che riporta i dati sulla rappresentazione nell'audiovisivo americano. Il documento redatto da Darnell Hunt e Ana-Christina Ramón fa riferimento alle due stagioni passate e permette di farsi un'idea piuttosto chiara di come, lentamente, il mondo televisivo si stia aprendo alla diversità, ovvero alle donne e a professionisti di colore. Le percentuali raccolte monitorando 453 show nel 2017/2018 e 463 nel 2018/2019 sono generalmente in crescita, pur restando la testimonianza di un baratro di disparità tutt'altro che colmato.

Il report suddivide la produzione analizzata in tre categorie: Braodcast, Cable e Digital. Per semplicità utilizzerò i dati raccolti nell'ambito Digital, ma qui potete trovare il documento nella sua interezza per un ulteriore confronto.

Il maggiore incremento nella rappresentazione femminile e delle minoranze è senza dubbio avvenuto davanti alla videocamera, ma i dati rimangono estremamante deludenti quando si passa dietro le quinte, nelle writers room, alla regia e ai vertici della catena di comando, creativa quanto produttiva. Sebbene la popolazione degli Stati Uniti sia composta circa al 50% da donne e al 40.2% da persone di colore (numero costantemente in crescita), la percentuale di creatrici di contenuti si ferma al 26.6%, mentre per la creazione di contenuti da parte di minoranze si scende a un penoso 10.3%, uno su dieci.

when they see us

Mentre la maggiore diversità nei cast tende a far gioire più del dovuto, i numeri che riguardano la scrittura e la regia raccontano una storia diversa. Non è infatti sorprendente trovarsi di fronte a personaggi provenienti da gruppi marginalizzati che non sfruttano a pieno le proprie potenzilità, perché molto spesso a scrivere e dirigere quei personaggi sono uomini bianchi. L'introduzione di cast diversificati rischia quindi di rispondere semplicemente a una politica dei token, dato che solo il 29.6% degli credits di sceneggiatura sono per donne bianche, il 12.6% per donne di colore e il 10.1% per uomini di colore. Passando alla regia va pure peggio: 22.7% di donne bianche, 6.4% di donne di colore e 11.8% di uomini di colore.

Questo tipo di situazione rispecchia in pieno l'andamento generale della diversity hollywoodiana. Più si scala verso l'alto la catena di comando, meno diversità troveremo, poiché il vero potere, quello dei CEO, è ancora al 92% bianco e al 68% maschio.

Alla luce di questa nuova miniera di dati, cosa possiamo dire del 2020?

La pandemia del Covid-19 sta mettendo a dura prova l'intero sistema mondiale dell'audiovisivo. Il cinema è in piena burrasca, con la continua chiusura a singhiozzo delle sale e lo slittamento di gran parte dei blockbuster programmati, rimandati anche di anni oppure nel limbo della possibile distibuzione in streaming. A sua volta, la tv ha dovuto sospendere le riprese di numerosi show, costretti a riorganizzare da zero i set secondo le nuove regole anti-contagio. L'adeguamento alle norme sanitarie correnti ha rallentato in maniera drammatica la produzione, facendone contestualmente aumentare di molto i costi. I più fortunati sono stati sospesi e rimandati, tipo Stranger Things o American Horror Story, ma altri nel 2020 ci hanno lasciato le penne.

Teniamo a mente che, nonostante l'innegabile aumento dei costi produttivi, per i servizi di streaming online la pandemia ha anche significato un notevole incremento di abbonati. Secondo il Deloitte’s Digital Media Trends Study, soltanto negli Stati Uniti ora l'80% degli utenti ha all'attivo almeno un servizio di streaming, contro il 73% dell'era pre-Covid. Il picco di consumi dovuto ai periodi di isolamento forzato non è però riuscito a salvare alcuni degli ottimi show che nel corso degli ultimi mesi hanno visto revocare le proprie conferme. E non parliamo di ritardi, parliamo di cancellazioni. Tra le vittime, guarda caso, ci sono serie che avrebbero contribuito a implementare le percentuali deboli dell'UCLA Hollywood Diversity Report.

high fidelity

In agosto, senza dare troppe spiegazioni, Hulu ha cancellato High Fidelity, lo show con Zoë Kravitz che aveva fatto il pieno di reazioni più che positive sia dalla critica che dal pubblico. La serie è stata interrotta dopo una sola stagione e giustamente Kravitz ha commentato dicendo che "È tutto ok. Almeno Hulu ha un sacco di altri show con donne di colore protagoniste da poter guardare. Oh, aspetta..."

In ottobre, anche Showtime ha fatto fuori una delle sue serie esordienti. Dopo una sola stagione, On Becoming a God in Central Florida ha visto revocare la sua conferma per la seconda stagione, e stavolta tra le motivazioni rese pubbliche c'è esplicitamente il Covid. Anche in questo caso la protagonista e star dello show era una donna, Kirsten Dunst, la writers room era per metà composta da donne e la showrunner era una donna, Esta Spalding.

on becoming a god in central florida

Arriviamo, infine, a Netflix. Da tempo ormai la sua politica produttiva sembra orientata a un ricambio continuo di titoli, talvolta anche scarsi ma comunque numerosi. Raramente uno show originale arriva oltre la terza o quarta stagione. Ultimamente, questa tendenza al taglio precoce sembra aver preso una strada un po' estrema, con cancellazioni quanto meno inaspettate anche dopo soltanto una singola stagione. Il 2020 ha regalato il contesto perfetto per questo tipo di condotta e temo che il Covid sia stato almeno in parte una mera scusa per eliminare serie che non avevano raggiunto il numero desiderato di visioni. Non è che Netflix si è adagiata sugli allori pensando di aver raggiunto la quota minima di diversity con Ryan Murphy?

Tra i primi titoli falcidiati ci sono I'm Not Ok With This e The Society, ma in ottobre è caduta anche Teenage Bunty Hunters, creata da Kathleen Jordan e co-prodotta da Jenji Kohan, serie molto divertente e assolutamente meritevole di almeno una seconda stagione. Cioè, ci hanno messo due anni per capire che Insatiable è una cosa imbarazzante e poi cancellano a destra e a manca con tale leggerezza? Esiste senza dubbio un problema di soldi, ma è anche vero che nel primo trimestre del 2020 Netflix ha acquisito qualcosa come 15.77 milioni di utenti, seguiti da un secondo trimestre da 10.9 milioni, scendendo poi a 2.2 tra luglio e settembre.

Con la questione dei costi ci abbiamo rimesso anche Mindhunter, che comunque era già in fase di stallo dall'inizio dell'anno, ma lo scandalo vero, doloroso e miope, è stata la cancellazione di Glow.

glow

A riprese già iniziate, e con un episodio in saccoccia, lo show creato da Liz Flahive e Carly Mensch, insieme al suo incredibile cast di wrestler, è stato messo a dormire. Fonti interne hanno dichiarato a Vulture che la quarta stagione non sarebbe uscita prima del 2022, quindi si temeva che gli spettatori avrebbero semplicemente perso interesse. Fa senza dubbio riflettere il fatto che nel giugno scorso alcune attrici del cast (Sunita Mani, Ellen Wong, Sydelle Noel, Britney Young, Shakira Barrera e Kia Stevens) abbiano scritto una lettera ai produttori di Glow per richiedere un maggior approfondimento e maggiore spazio per le protagoniste di colore dello show, mentre nelle strade americane scorreva il sangue degli attivisti di Black Lives Matter.

glow

Nel frattempo, il futuro del catalogo Netflix è ben riassunto da un pezzo di Mat Elfring su Gamespot.com, Cosa c'è di nuovo su Netflix a novembre 2020: Dawson's Creek e un mucchio di film di Natale. Il titolo mi ha fatto molto ridere e anche parecchio incazzare. Siamo lontani dai claim iniziali che presentavano Netflix come il polo produttivo che non ha paura di osare, di correre dei rischi per proporre tv di qualità e rilevanza. Fregandosene della fidelizzazione e puntando solo all'attenzione dei nuovi utenti, Netflix rischia per altro di trasformare la propria offerta in un cimitero di show senza finale, incapaci di invogliare il pubblico a recuperarli, perché che senso ha se tanto è monco?

I numeri del Diversity Report 2020 dovrebbero quanto meno dare un indizio sui possibili danni causati dalle politiche di cancellazione che vedono gli utenti come meri indici di consumo, e chiudo con le parole di Betty Gilpin su Vanity Fair all'indomani della soppressione di Glow: "Evidentemente, a livello di numeri, Glow interessava soltanto a uomini in kimono e gattare, che personalmente reputo il cuore pulsante delle arti e la ragione per continuare a svegliarsi la mattina."

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