Capek e i robot: il sogno della macchina
Cento anni dopo, cosa resta di R.U.R. di Karel Capek, l'opera che crea il fortunato termine "Robot"? Forse più di quanto ci piaccia pensare.
Forse dobbiamo tutto ai fratelli Capek.
Viviamo indubbiamente in tempi interessanti: che può voler dire, ovviamente, terribili o grandiosi.
Mai l'umanità è stata così vicina a quella che oggi viene definita la Singolarità, ovvero il momento in cui potrebbe nascere una intelligenza artificiale paragonabile a quella dell'uomo. Un tema dibattuto e discusso, ma che, realizzandosi, andrebbe a compiere un sogno per certi versi antico quanto l'uomo, e segnerebbe indubbiamente una nuova epoca nella storia dell'umanità. O, forse, l'anno zero di una nuova era.
Pertanto, mentre l'I.A. sta avvicinandosi, forse, al reale, ho deciso ripercorrere in queste serie di articoli il sogno della macchina (nella speranza, ovviamente, che il sogno non si tramuti in un incubo, come alcuni hanno paventato - tra cui anche Elon Musk - e come mostra il nostro Capitan Troll nella sua bella vignetta di copertina).
Partendo da un autore - anzi, due - che a questo sogno hanno contribuito a dare un nome.
Karel Capek (1890-1938) nacque il 9 gennaio 1890 a Male Svatonovice, un piccolo villaggio della Boemia, allora parte dell’impero Austro-Ungarico. Il padre era il medico della locale industria tessile, un razionalista ateo e positivista con cui l’autore aveva un rapporto ambivalente di ammirazione e ribellione. Il fratello maggiore, Josef Capek (1897-1945), era nato tre anni prima, nel 1887: fu pittore e cartoonist, ma anche autore di vari testi e racconti, e affiancò spesso il fratello Karel nella sua attività letteraria.
Dopo anni tumultuosi – fu anche espulso da scuola per l’adesione a un club anarchico – Karel studiò gli ultimi due anni a Praga, dove si diplomò nel 1909. In città non si era forse ancora dissolta l’aura iniziatica del Golem, l’illustre antesignano delle sue moderne creature.
Egli intanto provava – come il fratello pittore, anch’egli operante a Praga - una grande fascinazione per il Cubismo picassiano, che dal 1907 aveva iniziato a tramutare completamente l’arte con l’imposizione di un Homo Cubicus che grande influsso avrà sulla prima idea dell’automa novecentesco.
Il fratello Josef era stato a Parigi nel 1910, per confrontarsi con questa scena direttamente: qui conobbe Apollinaire – che Karel poi tradusse – e vide in prima persona la scena astrattista, che traspose poi nelle sue opere. Dato che Karel lo accrediterà come l’ispiratore della parola Robot (“schiavo”) per indicare i suoi celebri automi, è interessante notare come la sua lettura del cubismo vada fortemente nella direzione di un Homo Cubicus che ci può richiamare appunto un automa nella sua concezione primo-novecentesca (si veda ad esempio questo Fisarmonicista del 1913).
A Praga Karel Capek intanto continuava a studiare, formandosi in filosofia, laureandosi nel 1915. Riformato per ragioni di salute, osservò la Grande Guerra da Praga, e iniziò a maturare nella sua filosofia la critica verso il totalitarismo che andava affermandosi sempre più nel mondo europeo. La rivoluzione russa del 1917 pone le basi del totalitarismo sovietico; in quest’anno, il racconto Opilec (“L’ubriacone”) del fratello Josef Capek contiene il primo nucleo del futuro R.U.R., che sviluppò il concetto più ampiamente, e introduce il termine, mentre qui si parla ancora di “automat”.
Sono anni di grande rivolgimento. Dopo la fine della guerra (1918), in Europa inizia a serpeggiare il fascismo (fondato da Mussolini nel 1919).
Sempre nel 1919 Sigmund Freud sente l'esigenza di dedicare un saggio al Perturbante, che egli sviluppa con particolare attenzione agli automi, i quali fanno nascere il dubbio, terribilmente inquietante, che un essere in apparenza animato sia vivo davvero, e viceversa che un oggetto privo di vita possa animarsi.
Un'analisi che Freud sviluppa a partire dal Sandmann (1818) di Hoffmann e della figura di Olympia, inquietante per il suo essere sospesa tra figura umana e figura artificiale, senza la possibilità di decidere fra le due. Un concetto che ritornerà nello studio sull’estetica robotica, nell’idea di “Uncanny Valley”: quell’inquietudine prodotta da ciò che è abbastanza simile all’uomo senza esserlo del tutto. Non c’è forse un’influenza diretta di questo studio di Freud sull’archetipo della robotrix sul padre dell’idea compiuta di robot, ma certo la vicinanza temporale segna una interessante consonanza.
In questo clima, dunque, nel 1920 Capek inizia a ideare il suo dramma teatrale, R.U.R., ovvero Rossum Universal Robots, che andò in scena a Praga nel 1921. Il successo fu subito tale da avere un’eco internazionale: tradotto nel 1922, l’opera fu portata in USA – che divenne poi la vera patria della nascente robotica – nel 1923, e tradotta in trenta lingue diverse. La copertina originaria mostra, come accennato, l’influsso dell’estetica cubista.
I robot di Rossum, il fondatore dell’industria del titolo, sono costituiti di materia organica artificiale, e più simili a degli androidi che a uomini meccanici.
Nel primo atto, Helena – figlia di un capitalista di primo livello – visita la fabbrica-isola e scopre la storia dei Robots, che nel 2000 (circa) dell’ambientazione sono ormai una tecnologia quotidiana, al servizio dell’uomo. Naturalmente, molti hanno visto una metafora dell’oppressione dei lavoratori nei robot, e questo piano, a un livello allegorico, è legittimo: ad esempio, i robot salvano solo l’ingegnere capo Alquist, perché “lavora con le mani come un robot”.
Simbolicamente, quindi, i lavoratori dei campi e delle officine riconoscono di aver bisogno di tecnici e quindi li integrano alla rivoluzione, pur essendo parte della classe privilegiata, mentre i capitalisti improduttivi vengono eliminati senza problemi. Tuttavia ha anche un valore specifico nella trama: i progetti per nuovi robot sono stati distrutti dagli umani quando hanno iniziato a temere i loro schiavi meccanici, e se i robot vogliono prosperare hanno bisogno di Alquist.
In parte, viene in mente una possibile influenza in questa lettura allegorica de “La macchina del tempo” (1895) di Wells, dove l’estrapolazione fantascientifica era usata in chiave di critica del capitalismo. I lavoratori, oppressi nel sottosuolo senza poter più nemmeno tollerare la luce umana, divengono i Morlocks, mentre i diafani Eloi vivono una vita all’apparenza paradisiaca in superficie.
Ma, divenuti inetti, gli Eloi vengono mantenuti dai Morlocks solo per usarli come un cibo prelibato, secondo una feroce metafora che ha le sue origini nella Modest Proposal settecentesca di Swift (c’è una soluzione con cui i ricchi inglesi possono risolvere la noiosa piaga dei troppi figli dei poveri irlandesi: trasformandoli in un cibo succulento), qui ovviamente in antifrasi.
Ma in molti punti appare evidente che in Capek vi è anche una riflessione autonoma su un possibile sviluppo tecnologico, secondo le regole dell’estrapolazione fantascientifica. Possiamo dire che l’avanzata delle masse proletarie dei lavoratori – che nel 1917 ha portato alla rivoluzione russa – serve da modello per l’analoga ribellione delle macchine, ma c’è anche l’intuizione che non si sta parlando di una pura simbologia, ma di una possibile, anche se remota, evoluzione concreta (vista da oggi, possiamo dire che Capek non ha nemmeno sbagliato troppo di anni, anche se si limita a proiettare, come convenzione fantascientifica, le cose avanti di circa un secolo: ovvero fino a noi).
In ogni caso, nel secondo atto, dieci anni dopo, l’economia umana dipende integralmente dai robot, e le nascite di nuovi umani hanno avuto un calo radicale. Il dottor Gall mostra a Helena i suoi progetti per un nuovo robot – e una robotrix, a lei dedicata – sempre più avanzata, ma lei brucia i progetti che servono a creare nuovi automi, ormai scettica come molti verso questa svolta dell’umanità. Intanto, però, la rivolta dei robot prende il suo avvio.
Nel terzo atto, la rivolta ha ormai quasi cancellato l’intera umanità. Gli ultimi esseri umani paragonano la distruzione al mito della Torre di Babele: essi sono puniti per la loro hybris nel voler replicare l’atto divino di creare vita intelligente.
La metafora della Turris Babel, forse ovvia, tornerà pochi anni dopo nel “Metropolis” (1926) di Fritz Lang, in cui le classi lavoratrici oppresse non sono simboleggiate nei robot nel suo 2026, ma appaiono proprio come tali, lavoratori oppressi in un sottosuolo alle dipendenze di sempre più pochi capitalisti sempre più ricchi, che ne controllano ossessivamente la produttività tramite sgherri e videocontrollo. Una fase intermedia, verrebbe da dire, dei futuri Morlocks di Wells che alla fine metteranno in pratica il notorio motto punk “eat the rich”: anche a loro è inibita la luce del sole e la visione dello splendore della metropoli del progresso che hanno contribuito a creare (possono avere il pane, insomma, ma guai a dargli le rose).
Nell’epilogo dunque Alquist, “ultimo uomo sulla terra” (ma non in un pianeta popolato da zombies come in “Io sono leggenda” di Matheson”) deve trovare per i suoi nuovi padroni robotici – rapporti rovesciati... – il modo di crearne di nuovi.
L’opera si conclude quando egli trova due robot amanti, Primus ed Helena. Alquist dovrebbe disassemblarli per studiarli, secondo gli ordini del governo robotico – che si dimostra così ugualmente totalitario degli antichi oppressori – ma essi si offrono l’uno in sacrificio per l’altro. Alquist si rende conto che essi provano autentico amore, e quindi sono divenuti la nuova umanità.
Da notare che, in “1984” di George Orwell, il trionfo assoluto del totalitarismo sul protagonista si ha ottenendo che egli chieda di torturare la sua amata al posto suo, quando il suo terribile inquisitore trova la paura ancestrale in grado di portarlo a rinnegare anche quest’ultimo scampolo di vera umanità (e a sua volta Alan Moore, in “V for Vendetta”, rovescerà di nuovo archetipo: nella sua prigione, Eve apprende da Rose – in modo indiretto – che nell’amore si può trovare “quell’ultimo centimetro” che permette di non farsi vincere dal “buio a mezzogiorno” del totalitarismo).
Interessante notare che i robot di Capek sono ancora vicini a una duplicazione golemica dell’uomo, di tipo organico (anche se la magia non passa più per una alchimia cabalistica della Parola, ma tramite la “scienza”, su un piano – allora – puramente evocativo). Così come Olympia, così come – in seguito – la robotrix di Metropolis, indistinguibile da Maria, la leader degli operai che va a duplicare per ordine dei capitalisti. L’aspetto innovativo è farne non un singolo esempio eccezionale, la creazione isolata del Mad Doctor, ma di esaminare il momento in cui essi divengono tecnologia diffusa (e in questo effettivamente ciò che è cambiato sono le masse operaie, ormai ben evidenti nella loro presenza e, dal 1917, nella loro possibile ribellione).
Per paradosso, questo tipo di robot tornerà moderno nel mito dell’androide, che si scinderà dal “robot classico” ritenuto la classica “lattina sferragliante”. Philip K. Dick ne è presumibilmente il patriarca moderno, e i suoi figli divengono protagonisti con il Blade Runner uscito nell’anno della sua morte (1982), e poi in loro eredi moderni quali i Cyloni del secondo Battlestar Galactica (dove la svolta è evidente proprio nel raffronto con la serie del 1978, ancora “metallica” e con influenza al limite del “classicismo ironico” di Star Wars ripreso senza ironia) o gli automi di Westworld (in questo, sia quelli recenti che quelli di Michael Crichton nel 1973).
Invece, Isaac Asimov prevedibilmente detestò quest’opera e la vedrà come un caposaldo della “Sindrome di Frankenstein” da lui avversata, avviata dall’opera di Mary Shelley nel 1818 ma consolidatasi indubbiamente con il lavoro di Capek agli albori della fantascienza novecentesca.
Tuttavia, in fondo, Asimov stesso, nel suo illudersi di ridurre i robot a un normale dispositivo che prevede quindi delle misure di sicurezza, ci dice in fondo che in una estrapolazione propriamente fantascientifica l’allegoria deve essere contestualizzata adeguatamente (altrimenti, siamo in un racconto fantastico in cui “robot” – in questo caso, o in altri “alieno” – è un pretesto per parlare di altro).
Vedasi la satira che ne fa “Robocop” di Verhoeven: le leggi della robotica esistono, certo (e in questo l’estrapolazione asimoviana ha ragione, sulla tecnica) ma saranno introdotte per difendere il capitalista (il robo-poliziotto, cyborg o meno, non può arrestare un dirigente OCP), non certo per un teorico “bene dell’umanità”.
L’attuale utilizzo preminentemente, se non esclusivamente, bellico dei droni e delle forme di I.A. più avanzate di cui disponiamo fa pendere la bilancia più dalla parte di Capek e dell’adorabile cerbero meccanico di Black Mirror che da quella del “Buon Dottore”.
Nonostante il successo teatrale e letterario della sua opera, Capek continuò negli anni ’20 a dedicarsi al giornalismo.
Negli anni ’30, di fronte al proliferare del fascismo e alla sua nuova minacciosa incarnazione hitleriana, la sua prosa si fece più politica, fino a renderlo un antifascista dichiarato, inviso all’onda nera che si preparava a travolgere l’Europa. Nel 1936 Capek trattò questo tema tornando sul genere fantascientifico con “Guerra con le salamandre”, riprendendo in parte i temi di R.U.R ma anche ragionando sul nuovo totalitarismo nazionalista incombente, e usando piuttosto la metafora della razza senziente aliena.
Nel 1938 morì ancor giovane, a soli 48 anni, per pneumonia. Le sue opere furono proibite dal nazifascismo, e il fratello, di posizioni analoghe, fu deportato nei lager, dove morì. Anche il comunismo guardò però con sospetto alle sue opere, specie quella più celebre, allegoricamente irriducibile al comunismo di stampo stalinista.
Egli inoltre si era pubblicamente dichiarato “non comunista”, e quindi il suo successo (relativo, rispetto alla sua oggettiva importanza) fu soprattutto occidentale. L’anno della sua morte, uno show della BBC che mostrò riprese di uno spettacolo di R.U.R è ritenuto il primo esempio di fantascienza televisiva.
Nel 1941 e nel 1948 vennero realizzate delle versioni radio dalla BBC (nella seconda, a recitare la parte del robot Radius fu Patrick Troughton, poi il secondo Doctor Who). Ma la ripresa più intrigante viene in tempi recenti: nel 2010, l’artista Leonel Moura ha portato in scena a San Paolo una versione di R.U.R dove per la prima volta le parti dei robot sono recitate da Robot stessi (nell’anno, più o meno, di ambientazione dell’opera).
Un’esperienza ancor più radicale apparve nel 2015 a Praga, presso il Café Neu-Romance (citazione presumiamo di William Gibson e del cyberpunk) presso il Museo di Tecnologia della città del Golem: tutti i ruoli vennero recitati da robot, anche quelli umani. In attesa dell’inevitabile terzo atto, in cui l’opera di Capek andrà in scena nella realtà: speriamo, con qualche variazione nel copione.