Borderlands, il film non tiene testa alla fantasia
Tante buone premesse, dal cast alla regia. Il risultato potrebbe però non soddisfare neppure gli appassionati: un prodotto patinato che non alza l’asticella del settore
Non sono il più titolato, qui dentro N3rdcore, a parlare di opere tratte da altre opere su un media differente: quella titolata sarebbe Fabrizia, che ha tutte le pubblicazioni scientifiche al punto giusto, quindi se avete voglia di capirne tecnicamente qualcosa di più vi lascio nelle sue sapienti mani. Quello che posso fare io, modestamente, è cercare di rispondere all’annosa domanda: questo film di Borderlands rende giustizia al videogioco?
Vi anticipo che la risposta non sarà assoluta: il film, firmato da Eli Roth, ha fatto anche delle cose buone. Ma, e faccio una cosa che non si dovrebbe fare (in queste recensioni bisogna fare di tutto per tenervi in sospeso fino alla fine), vi anticipo anche che ne ha pure sbagliate tante.
Una storia già sentita
Se siete appassionati del videogame, la cui prima uscita credo risalga al 2009 (ho controllato, è così), non serve in realtà spiegarvi di cosa parla Borderlands: esattamente come nel gioco tutto ruota attorno al pianeta Pandora, su cui sarebbe sepolto un tesoro misterioso. E, proprio come nel gioco, c’è un gruppo di avventurieri male assortito che si lancia alla ricerca di questo tesoro con pochi indizi molto vaghi: mutuando i personaggi a cui molti di noi si sono appassionati su PC e console, la protagonista assoluta di questo film è Lilith (Cate Blanchett) a cui si uniranno presto i vari volti che ricalcano una per una le classi dei PG. Così ci sono i vari Kevin Hart, Jamie Lee Curtis eccetera che riprendono anche stilisticamente gli avatar ideati da Gearbox: c’è pure Jack Black che presta la voce a un personaggio CGI.
Guardando questo film non vi nascondo che l’ho trovato estremamente familiare: c’è l’effetto “corsa in giro per lo spazio” che è un po’ il marchio di fabbrica di JJ Abrams (uno schema che abbiamo visto in azione sia nella sua trilogia di Star Wars che in nei nuovi Start Trek, tanto per capirci), così come l’interazione tra i vari personaggi è esattamente quella che James Gunn ha sviluppato per i suoi film de I Guardiani della Galassia nel MCU.
Di fatto Roth prova ad assemblare un blockbuster estivo, con componenti dalla riuscita fin qui eccellente: cast di volti famosi, tanta azione e tanti effetti speciali, musica e colori sgargianti (quest’ultimo aspetto davvero un tocco azzeccato, per rendere appieno l’atmosfera del gioco originario).
Lo sviluppo del racconto ci porterà in giro per Pandora e tutti avranno i propri 5 minuti in cui brillare sullo schermo: ciascun personaggio avrà modo di sfoggiare i propri talenti speciali, che anche in questo caso riprendono quasi pedissequamente il videogame. Anche i costumi sono realmente molto simili, o comunque pesantemente ispirati, a quelli che magari già conoscete: da questo punto di vista, atmosfera ed estetica, il film è decisamente riuscito.
Cate Blanchett splende come sempre, gioiello più prezioso in un diadema di nomi di sicuro richiamo: ma forse, questa volta, non basta neppure lei a tenere insieme i mattoni con cui questo lungometraggio è costruito.
Provaci ancora Roth
Quando si porta a schermo un videogioco, lo abbiamo già visto succedere, possono avvenire due cose: o si tende a ricalcare in modo ossessivo le dinamiche, l’estetica, i tormentoni del gioco, dando vita a una sorta di caricatura; oppure si prova a tenere lì alla base l’IP originale, per trarne solo una vaga ispirazione e costruirci sopra qualcosa di diverso. In realtà, mi sbilancio anche se non ho i titoli accademici per affermarlo senza tema di smentita (ma confido nella clemenza di Fabrizia), la stessa situazione si verifica anche quando si prova a portare in sala un libro.
Pensate soltanto a quanto ha fatto Denis Villeneuve con Dune: ha scelto di tenere una traccia dei libri nella sua sceneggiatura, ma ha avuto il coraggio di staccarsene per rendere il prodotto finale più efficace e più adatto al diverso linguaggio della celluloide rispetto alla parola stampata.
Borderlands non compie questo passo: l’impressione è che questa produzione - costata comunque oltre 100 milioni di dollari - abbia provato a riproporre al cinema l’esperienza di ciò che avevamo giocato magari su una Xbox 360, ma così facendo di fatto sembra un pugile salito sul ring con una mano legata dietro la schiena.
Se quando giochiamo siamo abituati a colmare le lacune con la nostra immaginazione, se quando leggiamo un libro è ancora la nostra fantasia a costruire un universo in cui far abitare i personaggi, lo stesso non può avvenire al cinema: non c’è un percorso lineare e fluido che ci porta dalla premessa del primo atto alla conclusione del terzo, in Borderlands lo stesso stereotipo del viaggio dell’eroe risulta un po’ menomato da un tentativo di offrire a tutti i nomi del cast un tempo a schermo che pare quasi sia stato definito da contratto.
Il già citato Guardiani della Galassia è forse il miglior termine di paragone: in quel caso Gunn ha scelto, proprio come Villeneuve, di staccarsi dalla storia originale per renderla il più possibile funzionale al racconto cinematografico (e incastrarsi nel Marvel Cinematic Universe), rimanendo riconoscibile nel proprio linguaggio.
Non accade lo stesso a Borderlands: Roth sceglie un percorso diverso, che potenzialmente avrebbe un finale aperto, che potrà senza dubbio divertire chi ha giocato al titolo originale (e ai suoi seguiti: viene il dubbio che Roth lo abbia fatto, o qualcuno lo abbia fatto per lui), ma che stenta ad essere realmente digeribile per il grande pubblico che magari è solo in cerca di un blockbuster estivo. Se siete realmente in fissa con il gioco originale potete dargli una chance: gli altri troveranno che manca qualcosa al film, nonostante quasi 15 anni di produzione alle spalle non pare il prodotto più riuscito di questa stagione.