Amiga, quanto t’ho amato
Allacciatevi le cinture, perché il trenino della nostalgia videoludica sta per partire, destinazione: Amiga.
In vita mia ho avuto la fortuna di toccare con mano molte piattaforme di gioco. Ho avuto l’Atari 2600, quello in finta radica, ho avuto il Commodore 64, in cui il caricamento con le cassettine ti insegnava da subito la via del dolore e della pazienza, ho avuto il Game Boy, fedele amico di centinaia di pranzi noiosi, ma soprattutto ho avuto l’Amiga, il sistema che più di tutti ha elevato il mio rapporto col mondo dei videogiochi da semplice passione a qualcosa di pericolosamente ossessivo.
L’Amiga era quello che se arrivavi dall’Atari ti sembrava un altro mondo. Se poi avevi passato gli ultimi anni caricando i giochi dalle cassette del Commodore 64 (ovvero l’equivalente moderno della rupe di Sparta) l’effetto era ancora maggiore. Era impossibile non rimanere qualche secondo imbambolato di fronte ai 12 livelli di parallasse di Shadow of the Beast pensando che eravamo arrivati al limite e che una grafica più bella era impossibile.
Era quello in cui i giochi si potevano copiare in maniera bieca e senza troppi sensi di colpa, perché nessuno all’epoca pensava alla pirateria. In cui per farlo ti dovevi armare di pazienza e X-Copy, un programmino scritto magnificamente che copiava i dischetti in maniera quasi perfetta. Tranne quando sullo schermo comparivano le X rosse, segno che o il disco era danneggiato o era protetto, in quel caso imparavi anche le tue prime bestemmie e la sofferenza associata da sempre al mondo dell’informatica.
In alternativa potevi andare “dal pirata”, ovvero un negozio di hi-fi loschissimo che frontalmente vendeva telefoni cordless, calcolatrici scientifiche e qualche joystick, ma che nel retro teneva stabilmente almeno quattro Amiga, con tanto di lettori di dischi esterno, che non facevano altro che copiare giochi tutto il giorno. Di solito la cosa era gestita da qualche studente d’informatica fuori sede. Il tutto ti faceva sentire come quelli che spacciavano francobolli con l’LSD di fronte alle scuole.
Era quello in cui quando non piratavi i giochi potevi comprarli in scatole che spesso avevano disegni spettacolari, ma manuali tradotti da un team di scimmie ubriache.
Era quello in cui le colonne sonore erano spettacolari, e ti capitava di rimanere ipnotizzato dai suoni delle schermate che cracker mettevano prima dei giochi, tra cui quelle bellissime dei Paradox, che ancora si trovano su Youtube.
Era quello in cui c’era un altro suono bellissimo: quello del computer che accede al disco, col suo tipico ticchettio che faceva da colonna sonora alla tua attesa.
Era quello in cui già partivano le faide mortali tra amanti di Kick Off e Sensible Soccer, quando ancora neanche si sapeva cosa voleva dire “casual gaming” e tu ti sentivi un dio ogni volta che facevi un tiro al giro o riuscivi a controllare la palla per più di tre secondi. E dove quando in Sensible World of Soccer compravi Riedle provavi un senso così forte di godimento che capivi quelli che si iniettavano l’eroina nei parchetti.
Era quello in cui ti prendeva male quando vedevi le croci che si accumulavano in Cannon Fodder e ti toccavi quando vedevi la lapide col tuo nome in Wings! E fischiettavi “War has never been so much fun” mentre gli altri ti prendevano per scemo.
Era quello in cui quando riuscivi a finire Toki morendo pochissime volte non ti rendevi conto che avevi appena fatto la cosa più difficile della tua vita e che in confronto esami, figli, lanci col paracadute sarebbero stati molto, molto più semplici.
Era quello in cui magari non sapevi la lezione di storia e ti perdevi in giro per la città, ma conoscevi a menadito ogni dungeon di Eye of the Beholder.
Era quello in cui ah Sim City bello Sim City eh? Ma solo quando evochi i mostri per distruggere la città.
Era quello in cui giocavi a Monkey Island e poi provavi a disinnescare il bullo della scuola con gli stessi insulti degli spadaccini, ma lui non capiva il senso di “Molto appropriato, combatti come una mucca” e ti pestava a sangue, insegnandoti la differenza tra reale e virtuale.
Era quello in cui giocavi a Syndicate e poi scoprivi il mondo della letteratura Cyberpunk, per poi passare gli anni successivi a cercare di capire quando finalmente avresti potuto innestarti un braccio bionico.
Era quello in cui bastavano due tasti, quasi sempre.
Era quello dove giocare a Worms avrebbe potuto seriamente incrinare rapporti di amicizia che andavano avanti dalle elementari, cementati con centinaia di merende insieme e scambi di giocattoli.
Era quello in cui hai sentito un groppo alla gola quando sei arrivato alla fine di Another World e non capivi come mai, in fondo erano solo giochini.