Alla ricerca del roguelike perfetto: appunti su Hades
Qualche appunto su Hades: l'ultimo videogioco della Supergiant Games, un rpg d'azione roguelike, uscito a settembre 2020 e diventato subito un piccolo cult.
Questo pezzo parlerà di Hades, ma visto che comincerà a farlo ragionevolmente tardi mi sembra corretto citarlo subito nel primo paragrafo per far contenta la SEO.
Bene, ora che ho placato l’algoritmo posso cominciare.
Il primo roguelike che ho giocato nella mia vita, quando ancora non sapevo che si chiamassero così, è stato Castle of the Winds, un RPG a generazione casuale e antenato di Diablo creato da Rick Saada nel 1989 e distribuito nel 1993 da quella che allora si chiamava ancora Epic MegaGames con il modello shareware, o freeware, o come lo chiamavate voi all’epoca: Saada aveva scelto di far circolare gratuitamente la prima metà del gioco, A Question of Vengeance, e se volevi la seconda, Lifthransir’s Bane, dovevi spedirgli del cash.
È quasi ingeneroso definire Castle of the Winds un roguelike, nel senso che non era pensato per brevi partite (o “run” come lo chiamerò da qui in avanti in ossequio alla terminologia internazionale più diffusa) da aprire e chiudere in mezz’ora nel tentativo di arrivare più avanti o di fare il massimo punteggio possibile, ma per campagne di ore e ore che, certo, prevedevano in teoria la perma-death e la conseguente necessità di ricominciare da zero, ma prevedevano anche l’esistenza di save state e la possibilità di caricare una partita andata male.
Quello che aveva di roguelike era la generazione random dei dungeon, dei mostri che vi abitavano e dei tesori nascosti in forzieri o stanze segrete (o abbandonati in un angolo in una stanza vuota); quel meccanismo di ricompense casuali che sta alla base non solo di ogni buon roguelike ma anche di tutta quella valanga di giochi loot-based che esistono grazie al già citato Diablo e che prevedono che trovare un’arma viola ti faccia fare un salto di gioia sulla scrivania più alto di quanto te ne faccia fare una gialla.
Il primo roguelike che ho giocato nella mia vita sapendo che stavo per giocare a un roguelike, invece, è arrivato parecchi anni dopo, quando ormai il termine roguelike era stato codificato e definito con precisione (qui, se volete) e cominciava a venire usato in recensioni e articoli di critica per riferirsi a una serie di giochi old school nello stile e anche nell’approccio e nel loop di gameplay, e che si avvalevano di algoritmi di generazione casuale dei livelli per mantenersi sempre freschi e nuovi; era un modo di concepire i videogiochi che negli anni era stato dimenticato in occidente ed era diventato appannaggio quasi esclusivo del Giappone (e in particolare della serie Mystery Dungeon, del quale segnalo il secondo capitolo Shiren the Wanderer), e che era tornato di moda dalle nostre parti grazie soprattutto – non esclusivamente, ma quando si fa storia dell’arte perdersi dietro ai rivoli è controproducente e le semplificazioni aiutano – a Derek Yu e al suo Spelunky.
Spelunky non è il gioco a cui accennavo all’inizio del paragrafo precedente (quello l’ho scoperto solo quando è arrivato su Xbox, nel 2012), che si chiama invece FTL ed è uscito solo qualche mese dopo quello che è invece il secondo roguelike a cui abbia giocato nella mia vita sapendo a cosa stavo giocando, cioè The Binding of Isaac. FTL e TBI appartengono sulla carta allo stesso genere: sono roguelike, appunto, quindi ispirati a Rogue, quel vecchio gioco di ruolo a sua volta ispirato a Dungeons & Dragons nel quale ogni run è diversa dalla precedente per geografia dei dungeon, distribuzione di armi, nemici e trappole, e ogni run costringe il giocatore a ricominciare da zero.
Eppure FTL e TBI sono due giochi molto diversi che rappresentano due approcci al genere che sono apparentemente opposti ma che trovano proprio in Hades (visto che ci sarei arrivato?) il loro punto d’incontro.
FTL, che sta per Faster Than Light, è un simulatore di essere il capitano di una nave spaziale in un viaggio dominato dalla legge di Murphy per la quale se qualcosa può andar male lo farà. È un gioco su Star Trek se al posto di Kirk o di Picard ci fosse Paperoga, un percorso di settore stellare in settore stellare punteggiato da catastrofi, incidenti, incendi, incenerimento di membri dell’equipaggio e altre sfighe assortite; e se lo scopo del gioco è arrivare dal punto A al punto B, la ciccia dello stesso è gestire una quantità sempre crescente di parti in movimento che cospirano segretamente per fare più danni possibile.
The Binding of Isaac, invece, è un simulatore di dungeon del primo Zelda per NES, assemblati ogni volta da zero combinando casualmente una quantità francamente imbarazzante di template diversi e riempiendoli di oggetti e mostri la cui natura e quantità è altrettanto casuale (per quanto, come in ogni buon roguelike, soggetta alle regole dell’algoritmo che rendono alcune combinazioni impossibili e impediscono al gioco di chiudersi in un vicolo cieco). Anche il gameplay non ha nulla a che fare con quello strategico di FTL: Isaac è un twin stick shooter alla Super Smash TV, dove i riflessi e la conoscenza dei pattern valgono più di qualsiasi oggetto o power-up.
È un’altra però, ed è più profonda, la differenza tra i due. FTL è un gioco con una trama minimale, tanto minimale quanto poteva esserla quella di Pac-Man, e affida il compito di creare storie interessanti all’interazione tra algoritmo e giocatore. È quello che chiamo “generatore di aneddoti”, il tipo di gioco del quale si parla non in termini di «oh ma hai visto quel boss lì, e poi quando il tuo amico Gianluca ti tradisce?! Pazzeschissimo» ma di «oh ma ieri ho fatto un salto ultraluce e mi sono trovato davanti DUE navi degli spaziopirati, e contemporaneamente mi è saltata una valvola ed è scoppiato un incendio nella sala macchine...»; l’aspetto narrativo di FTL è al 99% emergente, determinato dal dialogo tra i sistemi che governano il gioco e chi ci sta giocando.
Anche Edmund McMillen, il creatore di The Binding of Isaac, sfrutta una forma di narrazione emergente per raccontare quello che gli sta a cuore, cioè il terrore di un bambino cresciuto in una famiglia ultrareligiosa e la cui madre vuole sacrificarlo perché “gliel’ha detto Dio”, e per questo si nasconde in cantina dove scopre un mondo sotterraneo popolato di cacche, mosche e tumori parecchio aggressivi. La narrazione classica in Isaac è affidata tutta a un’intro di un paio di minuti, ma invece che farsi da parte una volta poste le basi del racconto, McMillen non abbandona mai il giocatore, ma anzi lo accompagna, silenziosamente e senza farsi notare, in un viaggio nella mente di Isaac, non spiegando ma lasciando che sia l’evidenza a parlare per lui.
È un discorso vastissimo e che ha generato analisi infinite (questa, per esempio, è datata 2012, e al tempo sembrava aver messo la parola “fine” sulla questione; sembrava, appunto), ma che mi piace riassumere in questo esempio semplice semplice. Una delle statistiche che caratterizzano il protagonista del gioco, e che possono venire migliorate nel corso di una run grazie all’uso di oggetti appositi, è il cosiddetto “tear rate”, la velocità a cui Isaac spara le sue lacrime (che nel gioco sono l’equivalente dei proiettili in uno sparatutto); uno degli oggetti che più di tutti alza questa statistica è questo, l’appendiabiti. Ci vuole un attimo a capire il motivo per cui un appendiabiti dovrebbe far piangere un bambino inseguito dalla madre, ma quando la nozione arriva colpisce duro; è questo che intendo quando dico che Isaac è un gioco narrativo molto più di quanto lo sia FTL: ogni elemento del gioco ha qualcosa da dire sull’intera faccenda, e parte del divertimento è anche leggere e re-interpretare quelli che sembrano solo dei power-up ma che sono in realtà pezzi di puzzle.
Per un qualche motivo inspiegabile che credo però abbia a che fare con il fatto che a SuperGiant Games lavora gente con poteri magici, Hades (eccolo!) riesce a unire questi due approcci, quello più sistemico di FTL e quello olistico di Isaac, in un unico pacchetto, seppure con una certa predilezione per la seconda parte dell’equazione. È un roguelike nel quale ogni run fa storia a sé ed è in grado di generare aneddoti e da fornire carburante per un sacco di narrazione emergente, ma è anche un racconto dal respiro epico, regalato però a chi gioca a spizzichi e bocconi, a pezzi e pezzettini, a briciole e pulviscolo; lasciando così a chi sta dall’altra parte dello schermo il compito di mettere insieme gli stimoli e ricomporli in un quadro unitario.
La storia è quella del figlio segreto di Ade, Zagreus, un adolescente ribelle (o la versione “dinività ctonia” di un adolescente ribelle) che vuole fuggire di casa ma non ha tenuto conto del fatto che “casa” è l’oltretomba, un immenso e sempre riarrangiantesi sistema di caverne e cunicoli, tipo le scale di Hogwarts ma tre metri sottoterra, o se preferite tipo il feng shui applicato a un intero reame ìnfero. Per cui ogni run corrisponde a un tentativo di fuga, durante il quale il nostro palestratissimo e supersexy semidio infernale riceverà l’aiuto di una vasta selezione di divinità greche, che lo vorrebbero con loro in cima all’Olimpo invece che in fondo al Tartaro.
Questo spunto semplicissimo (adolescente prova a scappare di casa e inevitabilmente fallisce e ricomincia da capo) dà vita a un loop altrettanto basilare: l’Ade è composto da quattro regioni, ciascuna composta da un certo numero di stanze; si procede di stanza in stanza eliminando tutti i mostrilli che ci si parano davanti e raccogliendo ricompense di vario genere, gentilmente fornite dagli dei dell’Olimpo o rubate dai forzieri di papà Ade.
(“E si si arriva in fondo?”, be’, quello scopritelo voi perché la gestione del “finale” meriterebbe un approfondimento a parte)
La varietà tra una run e l’altra è fornita dall’enorme quantità di ricompense diverse fornite da Zeus, Artemide, Ares e il resto della banda, e la fucina di aneddoti è alimentata principalmente dalle combinazioni tra gli stessi, come da tradizione roguelike.
Anche qui vi faccio un esempio semplice: l’altro giorno ho ricevuto due gentili omaggi dalle mie amiche divinità, il superpotere di convertire i nemici alla mia causa e quello di ricaricare quasi all’istante detto superpotere. Hades è un gioco dove si passa il tempo a picchiare i cattivi, ma in quella run in particolare non ho dovuto praticamente alzare un dito: ogni paio di secondi affascinavo un nemico e mi godevo lo spettacolo di vederlo menarsi con i colleghi.
Hades, però, ha anche una storia complicatissima da raccontare, che ha a che vedere con l’identità di Zagreus e della sua famiglia, il suo rapporto con le divinità superne e una serie di altri dettagli che non svelerò qui per ovvi motivi.
E invece di raccontarla tramite lunghe cutscene inserite strategicamente nel corso della progressione (come faceva per esempio un altro roguelike che tentava un approccio simile, Children of Morta), la affida a brani spesso incompleti di conversazione che vengono distillati e forniti a chi gioca in dosi omeopatiche – una, due, tre frasi pronunciate da uno, due, tre personaggi dopo ogni run, e poi di nuovo silenzio fino alla fine di quella successiva.
Né la storia è fornita in ordine, in comodi capitoli da consultare per non perdersi: a seconda degli dei con i quali si decide di interagire, dei regali che si sceglie di fare a questo o quel personaggio, persino delle armi utilizzate per (provare a) completare il gioco, le reazioni del cast sono diverse, come lo sono i pezzi del puzzle forniti.
Per cui scoprire la storia di Hades diventa non tanto una questione di seguire una narrazione tradizionale, ma di affidarsi alla casualità insita nei roguelike per assorbire pezzi e frammenti di informazione e assemblarli a formare un’interpretazione coerente – potrà sembrare un paragone bizzarro, ma è un metodo non dissimile da quello utilizzato da Lucas Pope in Return of the Obra Dinn, e mi sto risparmiando dal citare quell’altro clamoroso esempio di narrazione ambientale e disgiunta e affidata almeno in parte alla lettura di chi gioca, quello che viene dal Giappone e che da quando è uscito nel 2011 viene utilizzato come pietra di paragone per qualsiasi cosa abbia a che fare con l’elettricità.
Hades è un clamoroso esempio di come si possano coniugare le due anime dei roguelike perfettamente incarnate da FTL e The Binding of Isaac: quella meccanicistica e che affida all’algoritmo e alla fantasia di chi gioca il compito di generare storie, e quella autoriale che sfrutta meccaniche e sistemi per dire qualcosa anche sulla storia e sui personaggi.
È anche un clamoroso esempio di un sacco di altre cose che rendono grandi i roguelike, tra cui:
- un gameplay frenetico ma sempre leggibile, che inizia relativamente semplice e complica le cose seguendo la curva di crescita delle capacità di chi gioca
- una notevole varietà di, per chiamarli con un termine un po’ antiquato ma sempre valido, power-up di ogni genere, che interagiscono in modi più o meno sempre interessanti, con il risultato che due run raramente si assomigliano e che bisogna dedicare al gioco decine di ore per vedere tutte le combinazioni possibili e dire di conoscere Hades almeno un pochino
- nessun riguardo per il bilanciamento; non in senso negativo, ma nel senso che come in ogni buon roguelike ci sono oggetti fortissimi al confine con la divinità, altri mediocri ma sempre meglio che non averli, altri ancora molto legati alla situazione e potenzialmente inutili senza le combinazioni giuste. Uno dei più grandi errori che si possano fare con un roguelike è cercare di appiattire queste differenze, e di avere un pool di possibilità tutte più o meno equivalenti; Hades non fa questo errore, e preferisce riconoscere che il fascino del genere è anche nel trovarsi di fronte a una run completamente rotta, in senso positivo o negativo, e nell’uscirne trionfante (nel primo caso), oppure nel sopravvivere e trionfare per una combinazione di fortuna e abilità (nel secondo)
- una costante sensazione di crescita e un altrettanto stabile flusso di dopamina somministrata sotto forma di upgrade e ricompense sempre abbastanza significative da lasciare il segno, ma mai troppo generose così da ridurre eccessivamente la necessità di giocare decine e decine di run prima di aver visto abbastanza da dichiararsi a posto
- una colonna sonora che verrà necessariamente ascoltata e riascoltata migliaia di volte, e che quindi dev’essere sì gradevole all’ascolto, ma non troppo invadente, così da poter essere relegata in sottofondo dopo la cinquantesima run
- l’equivalente di 24 personaggi diversi, un’enormità per un roguelike. E lo so che ho detto che il protagonista è uno solo, ma ha comunque sei armi diverse tra cui scegliere, e considerate che ogni arma è radicalmente diversa dalle altre in termini di gameplay, e anche che ognuna si presenta in quattro possibili varianti altrettanto distinte, e quindi fate un po’ i conti: significa che prima di poter dire davvero “ho imparato a giocare ad Hades” bisogna farlo non una ma ventiquattro volte
Dai tempi di Castle of the Winds ho giocato a una quantità vergognosa di roguelike e roguelite (questa ve la lascio qui, se avete voglia approfondite voi), e ho visto anche i più interessanti affossati da ogni possibile difetto: scarsa varietà di oggetti e situazioni, gameplay non rifinito o poco interessante, pessimo algoritmo di generazione casuale dei livelli, difficoltà eccessiva, difficoltà troppo bassa...
Era da tempo che non ne giocavo uno come Hades, al quale faccio fatica a trovare dei difetti; e i difetti nei roguelike sono, per la stessa natura del genere, roba che spicca con estrema facilità, perché non c’è nulla come rigiocare lo stesso gioco centinaia di volte per notare le cose che non vanno.
E non ne avevo, credo, mai visto uno così tanto interessato a raccontare una storia da intrecciarla così strettamente con meccaniche e sistemi; un gioco in cui anche l’azione più comune nei roguelike, cioè morire e ricominciare da capo, è un modo per portare avanti la narrazione e non solo una schermata di caricamento.
E non vi ho neanche parlato dei pesci! Ma avevo promesso solo degli appunti, quindi mi fermo qui.