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Alcune cose che ho fatto nelle ultime settimane

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Una storia di neve, campeggio, moto e disastri

AVVERTENZE

Questo pezzo è molto lungo e, per questo (e per ragioni di funzionalità narrativa) è stato diviso in più capitoli.

Il primo capitolo è allegro e parla di avventure, viaggi, moto, montagna, campeggio, bushcrafting, amicizia e tante cose belle.

I capitoli successivi sono meno piacevoli e contengono tutta una serie di elementi che potrebbero generare del disagio in qualche lettore. Per questo motivo vi indicherò chiaramente dove finisce la strada con il sole e inizia la tempesta.

Vi anticipo fin d’ora che la fine è lieta, per quanto non priva di dolore e sofferenza.

Ma nella mia vita ho imparato che sono davvero poche le cose buone della vita che non si pagano con questa moneta.

Buona lettura.

LA PARTE BELLA

Ogni avventura inizia con un passo fuori dalla porta, a quel passo ne segue un altro e poi un altro ancora e capita, alle volte, di scoprire di essersi spinti più avanti di quanto ci si potesse aspettare.

La mia avventura inizia un sabato mattina di gennaio.

Fa freddo, è l’alba, e io ho caricato la mia motoretta adorata (una Royal Enfield Himalayan che, a poco a poco, ha scalzato dal mio cuore tanto l’Africa Twin quanto il mio nuovo Ténéré) di tutto il necessario per un campeggio sulla neve. Fino a questo momento ho avuto poca fortuna con le escursioni avventurose in moto d’inverno, e sono sempre stato costretto a tornarmene indietro con le pive nel sacco. Qualche volta non avevo la preparazione o l’equipaggiamento adatto, qualche altra volta sono state le condizioni meteorologiche a diventare troppo avverse.

Questa volta però sono fiducioso perché le regole del gioco delle regioni mi hanno imposto una meta vicina (dei monti sopra Cassino) e perché, una volta arrivato, non sarò da solo ma con me ci sarà Adamo, che oltre che un bravo sceneggiatore è anche un esperto di vita in montagna e di escursionismo. Poca strada da fare. La sicurezza della compagnia. Mi sento tranquillo.

Il bagaglio è importante perché per fare campeggio selvaggio d’inverno hai bisogno grossomodo delle stesse cose, ma alcune, nella loro versione invernale, sono più ingombranti. Quindi nella sella della Mosko Moto (miglior acquisto fatto per i viaggi in solitaria) ho dietro la tenda (sempre la stessa, una leggera e piccola Ferrino, che d’inverno la tenda fa la differenza per gli agenti atmosferici come il vento e la pioggia, non per il freddo), il materassino gonfiabile e il telo argentato per isolarmi dal terreno, il sacco a pelo invernale (sempre Ferrino e questo sì, invece, fa la differenza tra la vita e la morte con il freddo), una luce da fronte, una gavetta, due borracce, un coltello grande da survival della Gerber sponsorizzato da Bear Grill (che serve più a fare scena che altro), una pinza multiuso Leatherman (che fa gran parte del vero lavoro), fornellino a gas con piccola tanica, piccola torcia da survival uguale a quella di Last of Us II, kit di pronto soccorso, scarpe da trekking (che salire in montagna con gli stivaloni da moto non è il massimo), due pasti pronti, qualche barretta. E l’ascia strafiga da commando che ho comprato per scherzo ma che mi sono messo in testa di trovare l’occasione di usare.

In realtà, di tutta questa roba vorrei portarmene dietro il meno possibile perché questo viaggio ha come primo scopo di migliorare le mie capacità di vita all’aperto, andando oltre al semplice wild camping per entrare nel territorio del bushcrafting, che è quella roba che in USA fanno i prepper survivalisti e da noi gli scout, e che prevede come fine ultimo, di poter entrare in un bosco con addosso solamente un coltello e di uscirne settimane dopo come se niente fosse.

Quindi, voglio imparare a costruirmi un riparo semi-permanente e isolato dal terreno, ad accendere un buon fuoco da campo senza ricorrere agli accendini e via dicendo. Il mio amico Adamo è esperto in questa roba e dice che può iniziarmi a tutta la pratica. Io però, per sicurezza, la tenda, il materassino e il telo argentato me li porto, che se mai il rifugio non dovessimo riuscire a costruirlo, non vorrei mai fare la fine di un McCandless qualsiasi. Nemmeno per avere una colonna sonora dei Pearl Jam.

Sono abbastanza soddisfatto del mio bagaglio perché sono riuscito anche a razionalizzare una cosa che, nei precedenti viaggi è sempre stata un problema: le borse da moto sono perfette per portare le cose quando sei in moto, ma poi diventano un problema quando la moto decidi di lasciarla indietro per proseguire a piedi per andare a fare un campo dove il tuo mezzo (o le tue capacità nel guidarlo) non sono in grado di arrivare.

Questa cosa, nelle precedenti scorribande avventurose, mi ha fatto fare cose stupide (dall’infilarmi nei guai con la moto a dormire in luoghi inadeguati) e volevo trovare una soluzione. Uno zaino da trekking che la mia ragazza mi regalato al compleanno, me l’ha data. Lo porto vuoto sulle spalle mentre viaggio ma poi, quando la moto si deve fermare, scendo, scarico dalla moto l’equipaggiamento essenziale che mi serve per proseguire a piedi e fare il campo e lo ricarico sullo zaino, che ha una compensazione del peso che mi sembra quasi magica.

Perfetto.
Sono anche molto contento dell’abbigliamento perché, fino a questo momento, non avevo mai trovato una soluzione invernale che mi soddisfacesse davvero. Anche la mia giacca invernale da motociclismo Revit, pensata proprio per questo tipo di situazioni avventurose a basse temperature, aveva sempre mostrato grossi limiti rispetto a dei veri capi tecnici pensati espressamente per il tipo di esperienza che avevo in mente.

Ma questa volta ho avuto un’illuminazione e ho comprato un parka della North Face di quelli abbastanza seri (un New Peak), pensato proprio per il tipo di escursioni che ho in mente in futuro. L’ho preso di una taglia più grande, in modo da poterci mettere sotto la giacca da moto estiva della Revit che ha tutte le protezioni al posto giusto e il tessuto antistrappo, ma in più è del tutto traspirante, quindi non mi isola dal calore del parka. Aggiungiamoci la calzamaglia in lana merinos, i pantaloni tecnici da moto con protezioni al ginocchio e all’anca, un maglione di lana pesante, lo stivale da enduro alto, i sottoguanti in lana e i guanti pesanti da moto, e posso dire di non essermi mai sentito più caldo, comodo, leggero e protetto in vita mia.

 

Si parte.

Il primo tratto di strada è noioso, un banale trasferimento autostradale che ha il solo merito di farmi scoprire che il mio abbigliamento è perfettamente isolato da vento e freddo.

L’autostrada non è il contesto preferito dalla Hima ma io non ho fretta, quindi non patisco troppo la bassa velocità con cui mi muovo. Arrivo presto a casa di Adamo e, dopo un caffè e aver controllato di aver preso tutto il necessario, partiamo assieme alla volta del monte su cui vogliamo costruire il nostro campo invernale. Io in moto, lui su un pick-up 4X4. Adamo mi ha detto che la strada è abbastanza buona, tranne un ultimo tratto dove si fa meno bella.

Ora, dovete capire una cosa: Adamo è un autoctono di questa zona, ci è cresciuto e ha fatto queste strade e sentieri mille volte, in qualsiasi condizione, quindi non ha gli stessi parametri di persone che vengono da fuori. Se lui ti dice che una strada è “abbastanza buona”, vuol probabilmente dire metterà alla prova le tue capacità in off-road, se ti dice che “è meno bella”, la traduzione più saggia è “non ci provare nemmeno a imboccarla se non ti vuoi trovare all’inferno”. Lo dico alla luce di varie esperienze con lui dove una “tranquilla giornata di pesca” si è rivelata essere (dal mio punto di vista) un corso di sopravvivenza estremo, con tanto di scalate sopra dei burroni e discese appesi alle liane.

Alla luce di questo, ho deciso che quando la strada inizierà a sembrarmi troppo complicata per le mie capacità di motociclista e per le condizioni della mia gamba sinistra (mi sto riprendendo da una frattura scomposta del perone che giusto dopo un salto in moto in off-road mi sono procurato), mollerò la Hima, trasferirò l’equipaggiamento nello zaino e farò l’ultimo tratto sul pick-up di Adamo.

È una scelta saggia perché, quando finalmente arriviamo sul cucuzzolo del monte e ci troviamo ad affrontare l’ultimo parte del percorso sul veicolo di Adamo, la strada è un vero incubo di fango, ghiaccio, neve e buche, il tutto sul ciglio dello strapiombo.

Comunque sia, arriviamo e smontiamo tutto. Da quel punto in poi, si procede a piedi.
Mi bastano dieci passi sulla neve per capire che sarà durissima e che non sono assolutamente in forma per un impegno del genere. Lo zaino, nonostante la sua mirabile compensazione, mi sembra pesare una tonnellata, la neve mi rende le gambe di cemento e l’altezza (siamo poco sopra i mille metri, limite fisico che non posso superare per questioni di salute) mi taglia il fiato.

Fortuna che c’è Adamo che da una parte mi sprona e, dall’altra, mi aiuta quando proprio non ce la faccio. Mentre avanziamo, inoltre, mi mostra le tracce nella neve delle volpi, dei cinghiali, dei cani e dei lupi, insegnandomi come distinguerle.

Lo scenario è magnifico, specie per me che non ho tanta confidenza con la neve, ma la neve è un problema perché a meno che non vogliamo provare a creare un rifugio in stile artico, scavandoci dentro i nostri ripari, l’unica soluzione per montare il campo, stando anche lontani dalle piste di tracce degli animali selvaggi che abbiamo incontrato lungo il cammino, è inerpicarsi lungo una parete del monte colpita dal sole, sgombra dal nevischio e asciutta, che però è una pietraia ben battuta dal vento. Individuiamo un punto adatto, abbastanza in piano nel caso volessimo piantare le tende e con degli alberi vicini che faranno da struttura portante al nostro riparo naturale.

 

Il piano di Adamo è costruire un “lean-to” (un tipo di struttura che si poggia a qualcosa di preesistente), con un “letto” isolato dal terreno. La cosa più complicata, non volendoci dare all’abbattimento selvaggio di alberi, è trovare tutti i rami e i tronchi adatti, raccoglierli, pulirli, tagliarli. Questa attività ci prende metà della giornata e mi insegna alcune cose:

- la mia ascia da fighetto è del tutto inutile rispetto a quelle convenzionali.

- bisogna mettere nei nastri colorati su ogni strumento, perché appena li poggi a terra si mimetizzano e poi non li trovi più.

- avere un fischietto è fondamentale perché mentre te ne vai in giro a cercare legna è un attimo perdere il contatto con il proprio compagno d’avventura.

Ma la verità più importante che acquisisco è che non ho la forza fisica necessaria per praticare la via del bushcrafter duro e puro alla Donny Dust: Adamo porta tronchi sulle spalle che io non riuscirei nemmeno ad alzare dal terreno, taglia la legna con pochi colpi d’accetta e non si ferma mai. Io incespico mentre trascino rametti, respiro a fatica e vedo puntini neri davanti a me ogni pochi secondi. È una fatica massacrante da svolgere in fretta, oltretutto, perché bisogna costruire il rifugio prima che cali il sole e bisogna farlo abbastanza bene per non morire di freddo.

Alla fine, comunque, nonostante la competenza e le energia di Adamo, il risultato che otteniamo non è il massimo: il letto è venuto piuttosto bene, con il telaio ben rialzato dal terreno e ben isolato, grazie alle felci e al muschio di cui lo abbiamo riempito. I vari tronchi che ne costituiscono il piano sono ordinati e, tutto sommato, comodi. La struttura superiore, invece, è troppo alta e, soprattutto, abbiamo scoperto che ha la bocca a favore di vento, cosa che rende tutta l’impalcatura superiore piuttosto inutile.

Io sono sfinito e non me la sento di dormirci dentro, quindi monto la mia tenda e tutto il mio accampamento tradizionale (cosa in cui sono diventato abbastanza bravo, lo devo dire).

Adamo, invece, ha faticato troppo su quel rifugio per non volerlo provare e ci mette dentro il suo sacco a pelo.

Accendiamo il fuoco.

Che scritto così sembra una cosa semplice, invece è un’arte a parte, che fortunatamente Adamo domina meravigliosamente.

Il cerchio di pietre è abbastanza largo per sviluppare due focolai vicini, uno più grande (per tenerci caldi) e uno più piccolino, dove cucinare su una rudimentale pietra ollare che Adamo si è portato dietro. Sono piuttosto felice perché, fino a questo momento, ho sempre usato il mio fornellino a gas per cucinare all’aperto ma la cottura su un fuoco vero è una cosa del tutto diversa.

Prepariamo bistecche e salsicce, che mi sembrano buonissime mangiate accanto a fuoco, difesi da una temperatura di meno cinque gradi. Poi io preparò un caffè mentre il mio socio si prepara una tisana alla mela. Mi accendo la pipa, chiacchieriamo un poco, guardiamo un cielo splendente e, pochi minuti dopo, siamo nei nostri sacchi a pelo, io nella tenda, isolato dal telo argentato e dal tappetino gonfiabile, Adamo è nel rifugio che ha costruito, su un letto fatto di tronchi, muschio e felci.

Eroe.

Mi sveglio poco prima dell’alba.

Il sacco a pelo ha fatto il suo lavoro e non ho avuto troppo freddo. Mi sono svegliato durante la notte solo quando un nutrito gruppetto di piccoli roditori indefiniti è venuto a curiosare vicino al campo, per il resto, ho dormito come un pisello nel suo baccello.

 

Adamo, sorprendentemente, è ancora vivo e sembra in forma.

Facciamo colazione, io cerco di darmi fuoco provando ad accendere la mia pipa con i rimasugli del fuoco da bivacco, poi guardiamo il cielo e decidiamo di non fermarci un secondo giorno perché non sta arrivando nulla di buono e rischiamo di rimanere bloccati dal cattivo tempo.

 

Smontiamo tutto e cancelliamo ogni nostra traccia, torniamo al pick-up e poi alla moto. Rimonto in sella e mi faccio la lunga e complicata discesa, poi siamo di nuova a casa di Adamo dove pranziamo con la sua famiglia. Carico la moto e guardo il cielo: sta iniziando a fioccare.

E qui commetto il primo errore serio della giornata: decido di partire lo stesso.

LA PARTE BRUTTA

Adamo mi scorta fino a Cassino, perché la strada è brutta e lui vuole essere sicuro. E ha ragione: la strada è effettivamente brutta e inizia a nevicare seriamente. Ma una volta imboccata l’autostrada le cose sembrano farsi molto meno complicate e dentro di me cresce l’immotivata sicurezza che l’avventura sia finita, perché sto tornando alla piena civiltà e perché nelle avventure non succede mai niente sulla via del ritorno.

Dopo una prima oretta di viaggio, ricomincia a nevicare. Tanto.

Passo accanto ad un Autogrill ma decido di non fermarmi, perché sono ansioso di tornare e perché ormai manca poco, anche andando molto piano. Un’ora e sarò a casa, continuo a ripetermi.

Questo è il secondo errore grave della giornata.

Perché le gomme non sono adatte per tutto quel nevischio e per il ghiaccio e dovrei fermarmi per mettere almeno delle fascette di plastica come sostitute delle catene.

Perché il casco continua ad appannarmisi e devo viaggiare con la visiera alzata, ma la neve si accumula sugli occhiali e sono costretto a pulirli con le mani mentre vado.

Perché quello era l’ultimo Autogrill per un pezzo e, una volta superato, dovrò fare un mucchio di km senza trovare un’uscita o una vera area di sosta.
E perché il cattivo tempo, poco dopo, diventa un’imprevista tempesta di neve a tutti gli effetti.

Continuo a procedere ma, dentro di me, monta la paura.

Ho veicoli tutto attorno, camion soprattutto, e non posso fermarmi, solo continuare ad andare, mentre lo sterzo becchetta e non ci vedo quasi nulla.

Se continua così, cadrò e mi farò ammazzare.

Decido di fermarmi in un’area di emergenza.

Metto la freccia. Mi muovo lentamente sulla destra. Entro nell’area di sosta. Fermo la moto ben distante dalla linea del margine dell’autostrada. Sono nel centro dell’area di emergenza.
E poi, per come la percepisco in quel momento, cado dalla moto, trascinandomela dietro, sopra di me.

È strano perché cado sulla destra, finendo nel fosso al margine dell’autostrada, ma la moto era sul cavalletto a sinistra e io stavo scendendo a sinistra.

La verità è che non sono caduto, ma lo capirò poi.

In questo momento sono sdraiato sulla sulla schiena, bloccato con la moto sopra di me a schiacciarmi la gamba destra, mentre la gamba sinistra, non so bene perché, mi fa un male del diavolo.

Nevica.

Sono il Paul Sheldon di Misery.

Un camion si ferma.

Ne scende un ragazzo ucraino, con addosso una camicia hawaiana, bermuda e sandali, che mi leva la Hima di dosso, poi chiama soccorsi.

Poco dopo si ferma un secondo veicolo. A bordo c’è una dottoressa che mi fa i controlli di primo soccorso del caso e mi copre con la coperta termica che trova nel mio zaino. Non mi permettono di muovermi. Ma tanto non ci riuscirei lo stesso.

Dopo qualche attimo vedo entrare in campo da destra un tipo esagitato, che chiede a tutti come sto, se sono morto, se sono privo di conoscenza, se sono stati chiamati i soccorsi. Mi si piega davanti al viso e io lo vedo attraverso il casco. È strano, molto agitato per la sorte di un perfetto sconosciuto che ha visto riverso sulla strada. Poi si alza di colpo e corre via, uscendo dalla quinta del mio campo visivo da cui l’ho visto entrare.

Arriva l’ambulanza e mi caricano.

La gamba sinistra non si muove e, quando si muove, è come se esplodesse.

Mi portano all’ospedale di Alatri.

Intanto io ho avvertito a casa per farmi venire a prendere.

Parlo con i carabinieri, che mi sembrano molto sospettosi sulla dinamica dell’incidente.

Io ripeto quello che mi è sembrato sia successo: sono caduto ma non so come e non riesco a capire perché mi siano fatto male alla gamba sinistra, quando il crollo è avvenuto a destra.

Poi arrivano i referti delle prime lastre.

La testa della tibia sinistra è spappolata.

Un danno da “grande precipitato” mi dicono. Una roba che non si spiega con una caduta da fermo dalla moto. Nemmeno se tutto il peso della mia Hima mi fosse piombato sul ginocchio, cosa che non è successa. La moto mi è caduta sulla gamba destra, scheggiandomi il malleolo destro, quello che è successo alla gamba sinistra non ha nulla a che fare con quella dinamica.

E poi capisco: non sono Paul Sheldon, che esce fuori strada da solo a causa della neve.

Sono Stephen King, nel 1999, che viene travolto da un furgoncino mentre se ne stava tornando a casa.

Mi hanno preso, non sono caduto.

Immaginatevi un biliardo.
La palla numero 9 è a ridosso della buca centrale.

La palla bianca è sul fondo, accostata al margine.

La palla bianca procede spedita con un colpo violento, colpisce di spizzo la palla numero 9 e la manda in buca.

Qualcuno mi ha mandato in buca.

Un veicolo mi deve essere passato accanto, troppo vicino, e deve aver colpito di striscio il mio ginocchio sulla sinistra (il primo impatto, quello ad altissima velocità cinetica), distruggendomi la tibia da quella parte. Il ginocchio si è schiacciato contro il serbatoio della moto (il secondo impatto), facendo a pezzettini la tibia dall’altra parte. Le spinte laterali contrapposte hanno schiacciato l’osso, facendolo esplodere in avanti. Poi lo slancio generale ha spinto me e la moto verso destra, dentro al fosso. È solo a quel punto che la moto mi ha schiacciato l’altra gamba.

Il tipo esagitato che è venuto a sincerarsi che non fossi morto per poi sparire, è il probabile pirata della strada.

Non bello, ok.

Ma almeno ho capito cos’è successo e mi sento meno stupido.
Dopo qualche ora, mi mettono un gesso temporaneo e mi affidano alla mia ragazza e a mio cugino, che a quel punto sono arrivati. Mi caricano (faticosamente) in auto, e mi portano al Gemelli, che è un ospedale di cui mi fido, dove conosco un sacco di medici e un sacco di medici conoscono le mie problematiche sanitarie.

LA PARTE BRUTTISSIMA

Varie ore di pronto soccorso.

Molte lastre, tac e risonanze.

Qualche giorno con la gamba in trazione e i chiodi nel tallone a sostenerla.

Sette ore di operazione.

Tre nuove cicatrici.

Il tutto in un contesto ospedaliero “da Covid” che mi sembra aver perso del tutto la bussola, con pazienti bloccati a letto e trasformati in prigionieri che non posso ricevere visite dall’esterno, praticanti, infermieri e portantini vari diventati inumane guardie carcerarie che non ascoltano e che, quando ascoltano, ascoltano male, creando fraintendimenti potenzialmente letali.
Mi è capitato spesso di finire in ospedale, anche per periodi lunghi, e certe volte sono finito in brutti reparti, ma mai nessuno mi è parso così poco qualificato, così privo di empatia, così abbrutito, come quello in cui sono finito.

Il “potere” dato dalle condizioni straordinarie imposte dal Covid ha trasformato delle persone normali in veri e propri mostri.

Ma di questa cosa, magari, ne riparleremo in futuro.

Comunque sia, è finita.

Mi hanno rispedito a casa con un tutore dall’anca alla caviglia.

Tra una settimana mi tolgono i punti e comincerà un lunghissimo percorso di recupero e fisioterapia.
Tra quattro mesi dovrei essere tornato quello che ero.

CONCLUSIONI

Se l’auto avesse preso anche solo lievemente la moto, oltre che il mio ginocchio, sarei potuto essere morto.

Se il dottore non fosse stato bravo, avrei potuto perdere la gamba o riportare delle lesioni permanenti.

A conti fatti, è andata bene così.

Anche se so che con il tempo la testa della tibia ricostruita logorerà la rotula e che, forse, la gamba non tornerò a piegarla mai più come prima.

Va bene così.

Perché sono vivo e tornerò sano, più o meno.

E perché ho imparato parecchie cose, sia nella prima parte di quest’avventura, sia nella seconda e nella terza.

Se devo essere sincero, credo che questa esperienza mi farà bene e mi aiuterà in futuro.

Perché per quanto non sia effettivamente colpa mia di quanto è successo, la verità è che io ho creato le condizioni di rischio che hanno permesso che avvenisse, sottostimando il pericolo del cattivo tempo e prendendo due decisioni assolutamente sbagliate in funzione di una immotivata sicurezza.

Per il futuro starò più attento.

Intanto, mi sono fornito la carota sul bastone da seguire e ho ordinato la nuova Himalayan.

Per il resto, ho continuato a lavorare come al solito.

A margine, amo le strade, il viaggio, la natura, l’avventura e le moto (soprattutto le moto), più di prima.

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