STAI LEGGENDO : Fare la pace dopo aver fatto la guerra. Come giocando a The Last of Us 2 ho cercato di mettermi nei panni di chi lo disprezza e di chi non la pensa come me

Fare la pace dopo aver fatto la guerra. Come giocando a The Last of Us 2 ho cercato di mettermi nei panni di chi lo disprezza e di chi non la pensa come me

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The Last of Us 2 è un titolo che è rapidamente diventato lo specchio dei tempi. Ecco un punto sulla situazione che cerca di comprendere, senza approvare.

Questo articolo era partito con toni ben diversi, le discussioni degli ultimi giorni mi avevano lasciato dentro un bisogno di chiamata alle armi. L’incipit era già sulle dita: “Viviamo un’epoca di forti cambiamenti, c’è una guerra culturale in corso – mi rileggo e mi vedo già pronto a scalare le barricate con la sciabola in mano – chi non si schiera è colpevole, chi tace fa vincere gli altri, i cani di Pavlov che abbaiano appena sentono odore di politicamente corretto, chi nasconde dietro la paura della censura il ben più fondato timore di non poter più fare quello che gli pare a discapito dei meno rappresentati”. 

Subito dopo avrei iniziato a tratteggiare la linea di confine tipo quelle mappe della Prima Guerra Mondiale che raccontano gli scontri tra gli Stati, in un lungo teatro bellico che unisce le proteste americane, l’imbrattamento della statua di Montanelli, gli scandalizzati dal disclaimer di Via col Vento, le discussioni folli e rabbiose di chi si incazza se Dungeons & Dragons adesso verrà ritoccato per offrire un contesto migliore anche a razze notoriamente “cattive” come orchi e drow, quelli che fanno i paragoni tra statue celebrative di colonialisti e il Colosseo, la Cancel Culture, i Male Rights Activists, le shitstorm chirurgiche, chi agita lo spauracchio della “nazifemministe” e si incazza per i Coco Pops. Ovviamente il tutto sarebbe culminato nel review bombing di The Last of Us Part II, vera e propria pistola fumante delle forze reazionarie.

Senza dubbio un conflitto c’è e c’è da qualche anno. Un conflitto che passa attraverso moltissimi territori, con forme e motivazioni spesso sfuggenti e non sempre del tutto legate a una questione politica. Le tensioni accumulate per anni all’interno della cultura popolare, fino a poco tempo fa rivolta quasi esclusivamente a un pubblico specifico, si stanno liberando in una serie di scossoni che mescolano richieste di ascolto e marketing, conservatorismo nostalgico e voglia di inclusione, rabbia, paura del futuro, semplice voglia di trolling, mobilitazione politica e invecchiamento della prima ondata di geek e nerd. 

Ed io ero pronto a indicare a uno a uno i nemici del popolo, smascherare le loro mosse, analizzare le loro strategie di attacco e ovviamente sentirmi migliore nel processo. 

Poi mi sono ricordato di The Last of Us Parte 2 e del suo messaggio più forte e ho capito che ero indirizzato su una pessima strada. A dirla tutta, non ero tanto diverso da quelle persone di cui spesso rido: quelli che per anni da ragazzi hanno letto Dylan Dog e oggi pensano sia “buonista”, quelli che scoprono la militanza di ZeroCalcare e ne restano delusi, quelli che da piccoli volevano essere Jedi e oggi non sfigurerebbero tra i ranghi dell’Impero Galattico.

Occhio che adesso dovrò inevitabilmente spoilerare.

Il tema di The Last of Us Parte 2, o almeno uno di essi, è la vendetta, l’ossessione per la vendetta, il bisogno viscerale di portarla a termine, anche salvando una persona da morte certa perché al creatore vuoi mandarcela tu. Parla di come quella vendetta spesso maceri all’interno di un circolo di violenza che prende le mosse in maniera inconsapevole e dal quale è difficilissimo staccarsi. 

Una faida in cui i morti che accumuli per te sono solo figure da abbattere, ma che per altri erano amici, amanti, parenti, nomi, volti, ricordi e traumi. Ci dice insomma che nel nostro bisogno di vendetta, di giustizia e di ragione sentiamo solo la nostra voce e che sottrarsi a questa centrifuga richiede uno sforzo incredibile, mentre diventare chi odiamo è un attimo. E attenzione, non sto parlando di perdono, ma di qualcosa di più simile all’assunto di War Games: l’unico modo per vincere è non giocare.

E quindi io posizionando me stesso nella “Grande Guerra Culturale” come ho senza dubbio fatto stavo dimostrando di non aver ben capito il messaggio del gioco, il cui obiettivo è suggerire che dietro ogni odio ci sono sempre due storie e che non potrò mai e poi mai appoggiare determinate pratiche e determinati modi di pensare, ma attraverso ciò che è successo a The Last of Us 2 posso provare ad analizzare il fenomeno senza creare uno schieramento, pur ribadendo che la lotta per l’uguaglianza per me non si discute e togliere i diritti agli altri quando nessuna delle tue libertà è minacciate è  una cosa sbagliata.

Posso, insomma, sottrarmi alla lotta cercando di capirla, tendere la mano invece del pugno. Questo è senza dubbio il frutto di una posizione di privilegio, visto che posso scegliere di partecipare alla lotta, ma non la vivo sulla mia pelle. Mi alzo la mattina e posso pensare che “oggi non mi va di polemizzare su questo tema, perché ne esco sempre triste, deluso e svuotato” senza che nessuno mi chiami frocio, negro, lesbica, nazifemminista, puttana e così via. Senza, insomma, che la mia sottrazione alla lotta mi porti un danno personale. Al massimo mi becco del Social Justice Warrior, diciamo che si può sopportare.

La questione di The Last of Us 2 è dunque uno specchio dei tempi ed è il perfetto esempio di scontro culturale in atto. È come una città in cui i due eserciti si fronteggiano, radendo al suolo tutto ciò che incontrano. Il risultato finale di quella guerra, anche se si pensa di essere i buoni, non può che essere lo stesso di Ellie: perdere gli affetti, perdere le dita per suonare la chitarra, perdere dunque il bello per un senso di giustizia che vediamo solo noi.

Il primo problema è che il messaggio (questo messaggio, tra i tanti) di The Last of Us 2 forse non lo ha interiorizzato neppure l’autore del gioco: Neil Druckmann

Partiamo dal fatto che Druckmann si porta addosso lo stigma di aver “cacciato” Amy Henning, autrice di Uncharted 4, una delle figure più importanti e stimate nel settore da molti anni. Sulla questione girano ovviamente mille congetture fin dal 2014, anno in cui la Henning se ne va o viene cacciata, dipende a chi chiedete, dopo due anni di lavoro sul quarto capitolo. La cosa non deve essere stata particolarmente gradevole ed è inevitabile, visto il carico emotivo legato all’abbandono di un progetto a cui hai contribuito a dare la vita. 

Ovviamente su internet ci sarà sempre qualcuno disposto a dare credito a indiscrezioni e voci di corridoio, anzi di corridodio, ma al di fuori di una cerchia ristretta non si sa niente e questo ovviamente lascia ampio spazio ai complottismi. Il paradosso è che i movimenti alt-right vorrebbero punire Druckmann per aver tolto il posto a una donna. Niente male come twist. 

Come se non bastasse, Druckmann è amico di Anita Sarkeesian, ovvero una studiosa della condizione femminile nei videogiochi che è diventata per molti un simbolo da odiare, l’esempio della “nazifemminista” che vuole influenzare l’industria con le sue idee politiche mettendo al muro chi non mette abbastanza donne in un videogioco. Semplificando, gran parte del Gamergate nasce come reazione alle sue posizioni. 

Personalmente credo che sulla Sarkeesian ormai sia impossibile dare un giudizio sereno e per certi versi mi pare rientrare in quella categoria che probabilmente agisce per il bene, ma si è ormai fatta trascinare in una guerra in cui la sua posizione è così polarizzata da impedire ogni possibile ragionamento, sia in chi la stima, sia in chi la odia come se fosse un nemico da abbattere.

Ovviamente la vicinanza tra i due è ulteriore benzina sul fuoco. In determinati siti è pieno di illazioni sul fatto che la Sarkeesian abbia “rovinato” il gioco, influenzando lo sviluppo. A me pare un po’ strano che un progetto così costoso si basi solo su questo, ma sarei pronto a discutere di fronte a eventuali prove.

Tutto questo va unito al carattere di Druckmann, che di certo non si tira indietro, anzi, ci tiene a dire chiaramente la sua opinione e, secondo me è giusto, ma a volte sembra voler a tutti i costi cercare lo scontro. Per questo sostengo che forse lui stesso non stia poi applicando i giusti precetti del gioco. Ad esempio, ha citato Kurt Cobain, sostenendo che razzisti, omofobi e misogini non avrebbero dovuto comprare il gioco, secondo me ha fatto un grosso errore.

Razzisti, omofobi e misogini avrebbero invece molto da imparare dal gioco, come tutti noi, e ponendosi in questo modo avrà senza dubbio guadagnato il plauso di chi lo stima, ma ha scavato ulteriormente un solco. 

Per carità, non oso immaginare la pressione a cui è soggetto, ma purtroppo essere “buoni” vuol dire anche fare quello scatto in più rispetto alla strada facile del mandare tutti a fare in culo. Per adesso mi pare che abbia reagito con sarcasmo alle recensioni, vediamo che succederà.

E se questa cosa la critico nella Sarkeesian o Burioni, che senza dubbio lotta dalla parte giusta (sì ok, egomaniaco, cinico, con idee discutibili su molti altri aspetti), ma lo fa con toni così sbagliati da non aver convinto un singolo antivaccinista a rivedere le sue posizioni, non posso farla anche io. Non posso permettermi di derubricare semplicemente tutte le persone che danno 0 su Metacritic a The Last of Us 2 come un gruppo di matti che meriterebbero un coltello alla gola se fossimo nel gioco, non posso farlo anche se mi trovo lontanissimo dalle loro posizioni, perché contribuirei semplicemente al circolo di violenza in cui siamo tutti bloccati.

La rabbia verso il gioco è fatta di molte istanze differenti ma è una rabbia e un fandom su cui il mercato dei videogiochi e il marketing che ci sta dietro non è del tutto innocente. Il settore è sì giovane, ma con questa scusa ha marciato per anni in una adolescenza fin troppo indulgente in cui si è quasi sempre guardato soltanto a una determinata categoria di pubblico.

All’inizio i videogiochi erano pensati per più fasce di pubblico, ma col tempo si è spinto sempre di più sui maschi, su temi maschili, su ciò che piaceva ai maschi, sui titoli che funzionavano in un certo modo. 

A questo si è sommata la cultura dell’hype, dell’aspettativa continua, del coccolare la gente sperando che preordini, del suscitare emozioni forti, perché sono quelle che portano all’acquisto e alla difesa a tutto campo delle proprie scelte. Il tutto mentre a ogni messaggio ringrazi il pubblico, gli chiedi feedback, gli dici che sono la cosa più importante di tutte, che sei su quel palco grazie a loro e sei  pronto a cambiare le cose se ti arrivano troppi pollici in basso

Poi è arrivata la disintermediazione, il rapporto diretto col pubblico, perché alla fine la stampa è spesso un male necessario, da controllare in maniera indiretta quando possibile, magari dirottando i fondi sugli influencer, che a loro volta devono in qualche modo creare una fanbase. E niente funziona meglio per compattare i ranghi dei conflitti violenti, delle console war, delle polemiche.

Qualcuno sperava veramente di togliere questo tappeto sotto i piedi di una larga fetta di giocatori senza innescare reazioni violente?

Si pensava davvero che le spinte verso una maggior rappresentazione, generate da calcoli di marketing e giuste richieste da parte delle minoranze, sarebbero state accolte bene, dopo che al buffet si era invitato solo un certo tipo di persone? Eravate certi che non sarebbe successo niente raccontando altre storie dopo anni che raccontavate sempre la stessa?

E tutto questo in un contesto mondiale sempre più impoverito e impaurito, in cui chi fino a questo momento manteneva il controllo sui privilegi si vede minacciato da chi non è più disposto a fare da figura di sfondo? 

Ovviamente ribadisco l’importanza di storie, autori e voci differenti, l’importanza di non essere sempre il centro dell’attenzione e la follia di pensare che oggi un personaggio LGBTQ o di qualunque etnia sia “marketing”, mentre Rambo, Rocky e la maggior parte degli action hero del passato fossero idee creative da difendere senza alcun contesto politico alle spalle. Ribadisco l’importanza di affermare tutto questo, ma non possiamo ignorare ciò che c’è stato.

Anche perché è sempre stato così e questo indipendentemente dal fatto che si parli di diversità o meno.

Quando Conan Doyle uccise Sherlock Holmes facendolo precipitare dalle cascate di Reichenbach ne “L’ultima avventura” il pubblico annullò in massa l’abbonamento allo Strand Magazine, per protesta, tanto da minacciarne la sopravvivenza. I lettori in genere accettavano ciò che accadeva nei loro libri preferiti e andavano avanti. Ma in quel momento iniziarono a prendere sul personale la cultura popolare e ad aspettarsi che le loro opere preferite fossero conformi a determinate aspettative. Parliamo della fine dell’800, oggi e il 2020 e ancora non lo abbiamo capito. 

Questo non vuol dire, ovviamente, che bisogna sentirsi schiavi del pubblico, quello mai, ma che purtroppo certi meccanismi saranno sempre presenti, soprattutto nel pubblico più giovane, più emozionale e più affezionato.

Quindi quando tu uccidi Joel a colpi di mazza da golf nelle prime ore di The Last of Us 2, scelta secondo me assolutamente sensata, per quanto terribile e dolorosa, stai facendo una grossa scommessa col tuo pubblico e purtroppo non tutti sono disposti a giocare con te. Questo giustifica gli zero? No, ma li mette in una prospettiva storica che li rende decisamente meno assurdi. Oltretutto, chi racconta storie purtroppo sa che in questi casi ti devi prendere il bello e il brutto, l’importante è creare un racconto che funzioni.

E qualcosa di simile successa Pinocchio, il cui primo finale era troppo triste e fu riscritto. 

E sono abbastanza sicuro che qualcuno nell’antichità s’è incazzato di brutto perché Achille muore nell’Iliade (ok dopo, nella parte di Stazio), ma poi come con quella storia della vulnerabilità, ma che buco di trama terrificante è? Voto 0.

L’aspetto forse comico è che fra chi oggi si lamenta ci sarà qualcuno che magari ha apprezzato la scelta di decapitare Ned Stark alla fine della prima parte de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, gesto narrativamente bellissimo che rompe un patto ormai stantio col lettore per crearne uno nuovo. The Last of Us 2 lo fa con un pubblico meno secolarizzato, oggi più rumoroso e forse poco abituato a essere provocato in tal senso.

C’è poi chi si è lamentato di dover giocare come Abby, la figlia del dottore che Joel uccide nel primo capitolo e che ha la sua vendetta nel secondo. Una scelta che ho trovato decisamente molto coraggiosa e fondamentale per il messaggio del gioco.

Penso che la rabbia generata da questa scelta sia parte del gioco: non è facile mettersi nei panni dell’altro, soprattutto dopo ciò che gli hai visto fare. Quindi capisco la vostra rabbia, la vostra voglia di non collaborare all’idea di Druckmann, credo faccia parte del messaggio e penso che, paradossalmente, se la cosa vi ha fatto schifo il gioco ha raggiunto uno dei suoi obiettivi.

Le critiche su Abby ruotano poi attorno a una scena di sesso che, secondo i detrattori, sarebbe forzata e che oltretutto in contrasto con presunte decisioni di Sony di censurare altri giochi, mentre qua avrebbe chiuso un occhio. 

La scena, va detto, dura veramente poco, è un momento di romanticismo strappato all’orribile prospettiva della morte in un mondo post apocalittico fra due persone che in qualche modo si ritrovano un’ultima volta e cedono in maniera impulsiva alla voglia. L’ho trovato un momento abbastanza sensato, di sicuro non qualcosa su cui montare un caso, ma posso anche capire che a qualcuno non sia piaciuto. Le scene di sesso nei videogiochi solo adesso stanno iniziando a essere un po’ meno imbarazzanti, ma non è certo la prima che vediamo.

Può anche essere che Sony abbia chiuso un occhio per meriti artistici, ma la polemica pare legata a Senran Kagura Burst Re:Newal in cui è stata eliminato il cosiddetto “Intimacy Mode” che permetteva di palpeggiare le protagoniste del gioco, la cui età è incerta. La censura è brutta e Sony si era già espressa su un altro gioco vietandone l’uscita fuori dal Giappone, si poteva forse trovare una soluzione differente, ma paragonare due secondi di sesso tra adulti con il palpeggiamento virtuale di ragazze… diciamo che è una tesi complessa da sostenere.

C’è poi la grande accusa delle “tematiche LGBTQ” che è forse quella che mi lascia più perplesso perché il tema del gioco non è assolutamente la diversità né il genere di Ellie, che viene tirato in ballo solo in un flashback per scatenare un litigio con Joel. 

Allo stesso modo il fantomatico personaggio trans (inizialmente i detrattori pensavano fosse Abby, per il suo fisico) è di fatto semplicemente una ragazzina che accompagna Abby e che si identifica come ragazzo e, rasandosi i capelli, rischia la condanna a morte da parte della comunità religiosa di cui fa parte. Considerando il mondo di gioco sarebbe molto difficile parlare di personaggi trans, visto che il processo richiede l’assunzione di ormoni e la chirurgia.

Il tema di genere è tutto qua. Non ci sono tirate filosofiche sull’accettarsi, non ci sono momenti in cui il giocatore viene educato, non c’è alcun orgoglio omosessuale. Forse perchè in questo mondo non c’è molto tempo per questo.

Seguendo questo ragionamento è difficile vedere nella corporatura di Abbie ed Ellie una “agenda LGBTQ”. La prima è senza dubbio spessa e muscolosa, ma non sarebbe la prima donna a diventare grossa al mondo. Entrambe vivono in un modo di scarse risorse, lunghe camminate e molto esercizio, il minimo che ti può capitare e che ti cambi il fisico, che ti si asciughi, che si adatti all’ambiente

Infine c’è la questione crunch. Ovvero chi ritiene che sia giusto punire Naughty Dog per la situazione emersa nell’articolo di Jason Schrier. Questo tramuterebbe una lotta da una schermaglia alt-right a un conflitto vagamente di sinistra (sempre che non sia l’ennesimo paravento).

Il crunch time è una pratica orribile, soprattutto quando viene preventivato, quando fa parte della cultura aziendale e magari non viene neppure compensato. Per fortuna negli ultimi anni se ne parla sempre di più, anche se penso che senza una sindacalizzazione e un ripensamento globale del modo in cui vengono fatti e comunicati i videogiochi, quindi anche coinvolgendo un pubblico più consapevole, le cose non cambieranno. 

Schrier sostiene che all’interno dell’azienda qualcuno vorrebbe vedere fallire Naughty Dog almeno una volta, per instillare il dubbio che il perfezionismo a ogni costo non è l’unico modo per fare un gioco, può aver senso, ma fare review bombing non serve a niente se non a azzoppare proprio quegli sviluppatori che si vorrebbe sostenere. Anche perché la critica si è già espressa e tutti quegli 0 ormai sono  nel calderone del “razzisti schifosi”. Sarebbe come sperare di essere ascoltati in una manifestazione mentre un gruppo di mette a ferro e fuoco la città, cosa che puntualmente non accade.

Tra l'altro, vi lancio una provocazioe: forse chi ha fatto il review bombing si è scagliato contro la distruzione degli esercizi commerciali durante le proteste, ma i due atti sono così diversi?

Questo si legherebbe anche al fatto che quando è scoppiato il caso di leak tra le ipotesi sul piatto c’era anche quella di un gruppo di dipendenti a contratto che, spaventati dal rinvio a tempo indeterminato, volevano forzare la mano all’azienda per far uscire il gioco e ottenere i bonus post vendita, che in alcuni casi rappresentano una fetta grossa del guadagno. Questa voce è stata poi smentita da Schrier che ha anche puntualizzato che i benefit erano già stati erogati da Naughty Dog.

Purtroppo, parte del problema è anche lo scollamento tra il pubblico e critica, che spesso guarda verso il basso con pretese di educazione e che si ritiene priva di ogni macchia, che nel giustissimo tentativo di sdoganare i videogiochi come qualcosa che può essere anche “alto” finisce per ottenere l’effetto opposto. Parlare di videogiochi, mescolando analisi tecniche, pareri personali, riferimenti culturali e aspettative del pubblico è un lavoraccio, lo sappiamo tutti.

A volte può essere difficile capire che quel gioco è veramente bello in un settore che nasce con delle storture evidenti, sospetti, guerricciole, voci dissonanti messe alla gogna sui social, ego ipertrofici, embarghi da rispettare, click da portare a casa, pochi soldi, trasformazione di giornalisti in influencer e tutto il resto.

Sono tutte storture però che pubblico e critica dovrebbero imparare a correggere assieme, senza farsi la guerra. Senza gridare contro i giornalisti venduti da una parte (magari amici, magari) e ammettendo dall’altra che il settore e ricco di delicati equilibri da mantenere, soprattutto in Italia, dove girano veramente due spiccioli.

Non prendete le riflessioni sulle varie obiezioni come una sorta di difesa del gioco, The Last of Us 2 si difende benissimo da solo e lo stesso vale per Druckmann, Naughty Dog e tutte le persone coinvolte. Proprio in queste ore è emersa la notizia che sta superando i record di vendita di Uncharted 4, quindi il peso specifico di certi atti va sempre messo in prospettiva. Ciò che interessava capire erano gli spazi di movimento muove questa protesta, che di base mescola connotazioni politiche e personali, meccanismi nuovi e situazioni già viste e riviste nella storia della cultura popolare.

Non voglio non etichettare i partecipanti, non servirebbe a niente, perché definirei solo una parte del tutto di persone che, se vado a scavare nei loro profili, a volte condividono anche le mie stesse idee. Non è stato raro trovare appoggi al movimento Black Lives Matter in persone che sputavano odio sul gioco. Siamo esseri complessi.

E dunque gli 0 forse sono la somma di tutte queste complessità, un tentativo di riappropriarsi della narrazione, di rassicurarsi di fronte a un mondo che propone cose che, orrore, non sono pensate solo per me, di far parte di un evento su scala globale per il gusto di esserci, di sentirsi nuovamente al centro, di mantenere il controllo, di punire chi a torto o ragione, ti ha ferito, di mandare un segnale anche politico.

Per certi versi è la versione ribaltata del gettare vernice sulla statua di Montanelli, con tutti i distinguo storici e umani del caso. Con la differenza che qua non si parla di robe vecchie, ma del presente di qualcosa che possiamo tutti toccare, provare, vivere e discutere, dimostrando che forse non siamo proprio dei nerd schifosi come ci dipingono.

Ciò che posso dirvi io è che secondo me l’esperienza vale la pena e che formare un'opinione solo su ciò che leggete online o cogliete da qualche video o commento riportato non rende giustizia al vostro potenziale umano. Non lo fareste con altri medium, non fatelo coi videogiochi, a cui di sicuro volete molto bene.

Siamo alla fine, scusate se mi sono dilungato.

C’è una frase de Le Città Invisibili di Calvino che ho ritrovato in questi giorni e che credo si applichi perfettamente alla morale del gioco, ma anche alla situazione che stiamo vivendo, con cui vorrei concludere questo… sfogo? Analisi? Mano tesa? Tentativo di gettare ponti? (o ma quanto ci aveva preso Death Stranding?) Chiamatelo come volete, anche la voglia di deporre le armi da uno che fa sempre la guerra sui social e che da un videogioco ha imparato qualcosa.

E non è forse bellissimo che oggi sia un videogioco a insegnarci qualcosa su ciò che stiamo vivendo?

La citazione, comunque, è questa.

“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

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