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Mandy, l’odissea lisergica di Nicolas Cage

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Mandy, il nuovo film di Panos Cosmatos con Nicolas Cage, raggiunge una nuova frontiera nel cinema post-horror

Testo di Alessio Posar

Il premio Oscar Nicolas Cage entra nel bagno, cerca una bottiglia di alcol, urla e inizia a bere, poi urla ancora – più forte – e ancora e si scola l’intera bottiglia seduto sul water. Urla. Le proporzioni dello spazio sono falsate, l’obiettivo – che è un grandangolo – non si muove, il bagno è enorme e Cage è piccolissimo e solo e disperato. Così disperato che il pubblico in sala non sa più se empatizzare con lui o ridere; qualcuno fa entrambe le cose. Questa è la scena più normale del film.

Mandy non è decisamente un film per tutti.

L’opera seconda del regista Panos Cosmatos, selezionata al Sundance Film Festival e presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes di quest’anno, ha avuto la sua première italiana al Torino Film Festival pochi giorni fa. Ambientata nel 1983, racconta l’odissea di vendetta di Red (Cage) dopo la morte di sua moglie – Mandy, appunto – (Andrea Riseborough), bruciata viva davanti ai suoi occhi dai Figli della Nuova Alba, una setta capeggiata dal carismatico e completamente folle Jeremiah Sand (Linus Roache).

L’inizio è lento, sulle note di Starless dei King Crimson, con infinite foreste grigio-azzurre e Cage che fa il taglialegna. L’atmosfera che si crea ci illude di essere in un film che segue il tracciato di Hereditary di Ari Aster, ci prepara a un dramma relazionale sporcato di horror – Red e Mandy vivono soli nel bosco –, a una qualche metafora nel momento in cui una voce annuncia, dall’autoradio, il grande risveglio spirituale dell’America. Invece no.

È un film che gioca con il pubblico e con le sue aspettative. Sembra dirci di essersi stancato dell’intimismo della nuova ondata post-horror: è un giocattolo nelle mani del regista, che si diverte a citare e rielaborare i miti della propria adolescenza. È un diretto discendente degli anni ’80: non si affida all’effetto nostalgia come Stranger Things, ma ne fa una rielaborazione personale e post-moderna tra horror di serie b e suggestioni da Dungeons & Dragons: Mandy legge romanzi sci-fantasy e passa il tempo a dipingere quadri nello stile di Frank Frazetta; nel cielo compaiono nubi dorate, aurore boreali e tre soli rossi; ci sono oggetti magici – come il Corno di Abraxas, che serve a evocare una gang di motociclisti demoniaci vestiti di pelle e borchie in una citazione di Hellraiser di Clive Barker – che brillano di intermittenti flash verdi e rossi; i luoghi della storia hanno nomi come Shadow Mountains e Crystal Lake, che non può non ricordare la saga di Venerdì 13; Nicolas Cage, a un certo punto, forgia un’ascia.

Lo ripeto: Nicolas Cage forgia un’ascia.

kinopoisk.ru

 

Poi, ancora, sulla pellicola si sovrappongono di volta in volta filtri rossi, verdi o viola, le immagini si bloccano come fotografie per sottolineare l’importanza dei momenti, ci sono inserti in animazione che mescolano la sequenza anime di Kill Bill vol.1 di Tarantino alle allucinazioni medievali reinterpretate dal punto di vista nipponico in Belladonna of Sadness di Eiichi Yamamoto. Se qualcuno era rimasto folgorato dalle deliranti sequenze de La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie, sappia che con Mandy si supera ogni limite.

D’altronde, Cosmatos l’aveva già affermato in un’intervista a Filmmaker Magazine: per lui, girare un film non significa tanto raccontare una storia, quanto costruire un oggetto – un oggetto che piaccia a lui; noi siamo solo spettatori. In questo senso, è naturale che l’estetica prenda il sopravvento su una trama, anche abbastanza scontata, attraverso sequenze che si fanno sempre più estreme. E non si parla solo del livello di violenza scenica che continua a salire e dei litri di sangue che zampillano come in un film di Takeshi Kitano mentre Cage grugnisce « Hai strappato la mia maglietta preferita», ma della violenza immaginifica che trascina lo spettatore in un viaggio lisergico. Mano a mano che i personaggi assumono dosi di lsd e veleno di insetti, è lo spettatore stesso che sperimenta le loro visioni, il loro scivolare verso la follia in una sinestetica commistione di realtà e fantasia. Cosmatos aveva definito il suo primo film – Beyond the Black Rainbow – un album elettronico; con Mandy, invece, ha voluto trasporre sullo schermo la sua visione di un disco dei Black Sabbath – i primi, quelli degli anni ’70 – e ha dato vita a un’opera che ricorda tanto il già citato Rob Zombie quanto il Nicolas Winding Refn di The Neon Demon, senza aver paura di mescolare l’eleganza arthouse del film da festival con la sporcizia dei b-movie.

Eppure, con il suo essere distante anni luce dai franchise più di successo del cinema di genere (che siano La notte del Giudizio o The Conjuring, per intenderci) e con il suo approccio autoriale (così tanto da dividere facilmente il pubblico degli horror), Mandy trova posto proprio tra i film da cui forse vorrebbe allontanarsi. E più facile immaginarlo tra It Follows di David Robert Mitchell e Starry Eyes di Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, piuttosto che di fianco al nuovo capitolo di Insidious: non è un film girato per far saltare sulla sedia lo spettatore, ma per essere apprezzato – forse anche solo da una nicchia. Certo, non ci sono grandi messaggi sul disagio adolescenziale, metafore sullo stupro o sull’ambiente tossico dello show business; è solo una storia di vendetta, semplice, di un uomo che ha perso la donna che amava e che per questo si trasforma in un carnefice. Ma è una storia di vendetta che chiede di essere guardata. Possibilmente su uno schermo molto grande.

Mandy non è un film per tutti, nemmeno per tutti gli appassionati di horror, ma chi lo vede non può restare impassibile davanti a qualcosa che, più che un film vero e proprio, è una catarsi.

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