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Ride - il punto di non ritorno del cinema italiano

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La recensione (senza spoiler) di Ride, il film a metà strada tra il found footage e il thriller adrenalico, interamente girato con GoPro che rompe gli schemi del cinema italiano.

Il 6 settembre approderà nelle sale italiane l’esordio alla regia di Jacopo Rondinelli, Ride, scritto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro - sceneggiatori e registi anche del fortunato Mine - coadiuvati stavolta da Marco Sani.

Mine aveva affrontato il tema della guerra e delle mine antiuomo - gli eserciti silenziosi che non necessitano né di rifornimenti né di manutenzione - in un modo laterale, donando allo stallo provocato dall’innesco di un ordigno un taglio prettamente psicologico. Con Ride, i tre autori e il regista hanno deciso di andare ancora oltre, di entrare a testa alta nel mondo dei film d’azione, provando a dare al pubblico le sensazioni di un’iniezione di adrenalina direttamente nel cuore.

Ride, come ci annuncia già il titolo, racconta una corsa: una gara estrema tra riders fuori dal comune. I due protagonisti, Max e Kyle, vengono reclutati dalla Black Babylon, la misteriosa organizzazione alle spalle del torneo, e vengono scelti per le loro performance ai limiti della follia. I due, infatti, vivono alla costante ricerca dell’ennesimo limite da superare, tra parkour ad altezze vertiginose e percorsi di downing fatti a rotta di collo.
La gara che saranno chiamati a compiere, questa volta, sarà la più dura di tutte.

Il film rappresenta un punto di non ritorno per il cinema, non solo italiano. Dal punto di vista tecnico, infatti, la crew di questa produzione non si è risparmiata in nulla: Ride, giusto per dirvene una, è il film che la media di telecamere usate per singola ripresa più alta della storia della cinematografia. La vera novità, infatti, è questa: buona parte delle riprese sono state fatte con le GoPro montate sulle biciclette dei concorrenti, sui loro caschi, sulle loro attrezzature e sparse ad arte lungo tutto il percorso.

Il risultato, almeno a un primo sguardo, è un mix tra i found footage che hanno fatto la fortuna di un certo tipo di cinema, e le riprese in soggettiva che gli amanti degli sport estremi postano sui loro canali Youtube. La bravura del regista e della squadra di montatori è stata quella di rendere organico e coerente tutta l’enorme mole di girato prodotta da queste microtelecamere sparse in giro.

Oltre che aver fatto uscire un film in cui il continuo cambio di inquadrature non facesse venire l’emicrania a tutto il pubblico, che poi era il rischio più grande di una scelta così drastica.

La prima ora del film è uno spettacolo per gli occhi: la vita dei due protagonisti ci viene narrata attraverso gli strumenti di comunicazione che i due usano normalmente, come ogni altro atleta, per documentare le proprie imprese. L’integrazione dei social network nella storia è perfettamente coerente con il tono del film e permette al regista di farci sbirciare dietro le vite private di Max e Kyle attraverso il materiale condiviso da loro stessi. Quando entra in scena la gara e la Black Babylon, il ritmo cambia e lo stesso accade per il montaggio: tagli frequenti, velocissimi cambi di inquadratura, intere sequenze filmate coi droni e tutto il pubblico viene immediatamente catapultato nel mezzo dell’azione, dietro i ragazzi (o accanto a loro, in base alla GoPro del momento), a sentirne il fiatone e l’ansia crescente. Regia e montaggio riescono a calarci perfettamente nelle vite e nei linguaggi di chi pratica queste discipline fino a farne una filosofia personale, esistenze che vivono di stacchi repentini ed emozioni da vivere in prima persona.

L’innovazione tecnica (e l’entusiasmo profuso dagli autori nell'utilizzare) è ben visibile e crea un precedente che dovremmo ricordare nel tempo.

La colonna sonora, scritta appositamente da Andrea Bonini, è interamente composta da musica elettronica, ideale per un film teso e veloce come solo una gara contro il tempo può essere, anzi, fondamentale.

La seconda parte del film non regge, purtroppo, il confronto con la prima: una volta che ci si abitua al ritmo serrato del film, alla sua vicinanza più al linguaggio dei videogiochi che a quello cinematografico, la trama mostra il lato debole di questa operazione. I personaggi tendono ad appiattirsi, i comprimari sfoggiano motivazioni pretestuose e il finale affrettato fa sollevare più di un sopracciglio. Forse sarà stata l'adrenalina che scorre nelle vene dopo i primi minuti e che dopo se ne va, ma un po' si avverte questo sbilanciamento.

Nonostante questi aspetti perfettibili, Ride, è un’esperienza nuova per il cinema e come tale va vissuta: le novità sono state introdotte in tutte le fasi della lavorazione dell’opera.
Nei mesi precedenti all’uscita, è stata attivata una campagna di marketing non convenzionale che aveva lo scopo di raggiungere e incuriosire il mondo degli sport estremi, tramite filmati anonimi sparsi in rete e la messa online del sito della gara organizzata dalla Black Babylon. C'è stata persino una campagna virale al Comicon di Napoli con tanto di bevande energetiche distribuite ai visitatori della manifestazioni.

Il lavoro certosino alle spalle del film, dalla scelta dei colori delle divise dei concorrenti fino alla volontà di girare quasi solo con le GoPro e al conseguente ritmo dato in fase di montaggio è uno dei grandi pregi di Ride e spero che come tale venga riconosciuto non solo in Italia, ma anche all'estero. Di sicuro è una delle opere più internazionali della recente "New Italian Cinema". 
Come spesso accade lo spunto iniziale è ben più grande del singolo lungometraggio, per questo gli autori hanno deciso di sfondare il muro dell’esperienza cinematografica approfondendo alcuni aspetti e le storie di un paio di comprimari usando il linguaggio del fumetto, creando un'esperienza crossmediale a cui il pubblico si sta lentamente abituando e che ormai rappresenta la norma per le produzioni di un certo livello.

Amanti del cinema italiano e dell'azione, siate felici, Ride, è una piccola chicca che va vista con gli occhi giusti, consapevoli di trovarsi di fronte a un lavoro innovativo che, come tutti i primi passi in un nuovo ambiente, potrà avere qualche incertezza, che però è ampiamente superata dall'importanza.

 

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