Concrete Cowboys - Là dove c'era l'erba ora c'è una città
Concrete Cowboy è la storia di un tumultuoso rapporto padre-figlio ambientata nella peculiare rappresentazione della Frontiera alla periferia di Philadelphia.
Alcuni anni fa la mia avventura in Nerdcore iniziò quando chiesi al nostro Leader Maximo di scrivere dell’imminente arrivo di Red Dead Redemption 2.
Rileggere quel pezzo adesso significa guardare ad un me più giovane, più inesperto delle cose della vita e dell’arte. Mi faccio quasi tenerezza, quando non vorrei prendermi a sberle per insegnare al me del passato come campare, o a diffidare dai monopattini.
Sta di fatto che sono abbastanza legato a quel pezzo, un po’ perché è stato l’inizio di tante belle cose, ma anche perché quel testo mediocre è infarcito di affetto per un genere che ormai è diventato una parte distintiva di me: il western.
Dal western ero preso benissimo ma avevo una conoscenza parziale e derivativa, intuitiva anche, ma da quel principio la mia esplorazione per la frontiera come luogo dell’anima ha proseguito ininterrottamente fino ad ora, piazzando quando possibile nel palinsesto settimanale almeno un film di genere, nemmeno fossi la programmazione invernale di rai movie, che data la sconcertante mole di pellicole a palese ambientazione western è diventato un ciclo eterno dove titoli noti e meno noti si susseguono e si ripetono senza discontinuità.
Qualcuno potrebbe tracciare addirittura un nuovo calendario scegliendo come Capodanno di Rai Movie il giorno che passano Sentieri Selvaggi in prima serata.
Il mio approccio è chiaramente più scientifico, cronologico, con alcune incursioni fuori dal tempo che costringo a darmi per eccezioni più o meno meritevoli.
È capitato con un bel film italiano, Il mio corpo vi seppellirà, l’inaspettato western borbonico di La Parola, ed è capitato di nuovo con Concrete Cowboy di Ricky Stub.
Concrete Cowboy si inserisce nella carrellata di film che Netflix ha deciso di buttare fuori a cadenza settimanale per fregiarsi del titolo di effettivo rimpiazzo del cinema anche durante la pandemia. Se ne uscì qualche mese fa con questo trailer che urlava al mondo la loro varietà produttiva ed in effetti guardando la roba che ne è venuta fuori è evidente che il valore maggiormente apprezzabile proprio l’estrema diversificazione come stile e come temi della proposta di pellicole originali.
Con altri attori avrebbe potuto essere tranquillamente una “roba da Sundance”, invece per spingere un po' il vivaio di talenti di Netflix appare Caleb McLaughlin, uno dei ragazzini di stranger things che sembra essere intenzionato a recitare sul serio uscendo dallo stereotipo delle dinamiche di gruppo che animano i protagonisti della serie dei Fratelli Duffer.
A troneggiare su tutti un Idris Elba, silenziosamente carismatico e perfettamente calato nella parte. Qualcuno potrebbe dire ingiustamente “sottosfruttato” quando in realtà si amalgama perfettamente con il contesto del racconto che viene portato in scena.
Il pretesto della storia è un tumultuoso rapporto padre-figlio che deve essere ricucito controvoglia a causa delle circostanze innescanti l’azione. Questo main plot prosegue su binari abbastanza canonici per il genere e non riserve grandi sorprese nello svolgimento o nei colpi di scena, ma non è questa la parte importante. Per certi versi è solo un gancio narrativo per portare lo spettatore a seguire la parte importante: il contesto.
Quello che è davvero nelle intenzioni di Stub è di raccontare la condizione degli addestratori di cavalli di colore alla periferia di Philadelphia e l’intento semi-documentaristico è esplicitato dalla scelta di far recitare nei loro ruoli i diretti interessati. Presi direttamente dalla strada. Questo dà alla pellicola tutto un altro sapore, come ad esempio la scena che vede il cowboy paraplegico montare a cavallo è esplicitamente toccante e scevra da sovrastrutture testuali forzatamente drammatiche.
Questi cowboy contemporanei sono addestratori di cavalli che vivono in condizioni di semi miseria a stretto rapporto, una vera e propria convivenza, con i cavalli che addestrano, in perenne conflitto con criminalità, miseria, condizioni di salute precarie e l’amministrazione comunale incapace di regolamentare la condizione.
Immaginarlo come western è fuorviante. Degli stilemi del genere ha poco o niente o almeno non nel senso strettamente cinematografico che siamo solitamente attribuire alla parola.
Non ci sono sparatorie, non c’è la risoluzione di un conflitto, la pace non viene ristabilita dalla legge o dagli uomini.
La frontiera che diventa limite che diventa periferia
Questo ci spinge a ragionare sul termine e sul concetto stesso di western oggi e del suo imprescindibile legame con le sfumature che ha assunto l'idea frontiera che oggi non è più uno spazio geografico inesplorato e nemmeno più etichettatile con la pratica, risolutiva e a volte leziosa definizione di “spazio dell’anima”.
In Concrete Cowboy assistiamo alla sovrapposizione del concetto di frontiera a quello di periferia, uno spazio reale nel sua essere drammaticamente irrisolto.
La frontiera che diventa limite che diventa periferia, lo spazio di confine al limitare della città lontano dalla sue luci del centro, oggetto di pianificazione, speculazione e disperazione sociale, di “vivere ai margini”, letteralmente.
La traslitterazione da frontiera a periferia non è un concetto nuovo: Sollima con Gomorra punteggiava il cielo partenopeo con le Vele in una rievocazione cementizia della Monument Valley dell’Arizona, e più concretamente sovrapposte nelle opere di Sheridan come Sicario dove al confine messicano di El Paso viene sovrapposta la città generica di Ciudad Juarez nello stato messicano di Chihuahua, per citare le prime due che mi vengono in mente.
Questa narrazione urbana il film la fa molto bene avvalendosi di un repertorio di degrado urbano scenograficamente perfetto nel restituire quel senso di abbandono che non è il vuoto del deserto bensì una condizione materiale dettata da fattori economici e sociali che agiscono come agenti atmosferici sull’orografia degli edifici scavando caverne e canyon nella città.
Scene impreziosite da una buona fotografia che non cade su scelte fighetta evitando stucchevoli correzioni cromatiche, invece funzionale a raccontare un progressivo allontanamento dal centro e un diradarsi urbanistico che sfocia nel degrado.
Il prodotto finale appare quindi come una stratificazione delle tre storie, quella del main plot portata avanti dagli attori, la storia dei Cowboys di Philadelphia raccontata da voci e facce che la vivono in prima persona e il grande racconto urbano di sfondo dove a parlare sono le immagini della periferia.
La composizione produce una buona opera prima, forse non il prodotto più commerciale che potrete trovare su Netflix questa settimana ma è un film dritto, dagli intenti ben precisi che arriva alla fine senza sbavature o errori.