2001: Odissea nello Spazio, cinquant'anni e non dimostrarli
Cinque punti che dopo 50 anni rendono il capolavoro di Kubrick ancora tremendamente attuale, anzi, ancora molto avanti sul presente
Mancano cinque minuti a mezzanotte quando esco dalla visione di 2001: Odissea nello Spazio, il capolavoro di Kubrick restaurato fotochimicamente da Christopher Nolan. L’ultima volta che lo vidi sul grande schermo avevo ventidue anni. Mi trovavo alla Cineteca Nazionale e scorrevano i fotogrammi di una vecchia copia in 35mm tutta graffiata. Ieri sera ci sono tornato con mio figlio Mattia, 12 anni, che se n’è uscito con un “non ci ho capito molto, ma mi è piaciuto!”. Stanley ne sarebbe stato felice.
Al cinema ho ritrovato il monumento che conosco a memoria, ma, come consuetudine, ad ogni visione di un film di Kubrick mi imbatto in tante nuove e inaspettate sorprese. Cinque, in questo caso.
La prima a che fare con l’esperienza in sala. Un film di cinquant’anni fa in una sala di un multiplex ad Ancona? Con mia grande sorpresa le poltrone erano gremite. Molti giovani. In silenzio per tutte le tre ore del film. Nessun cellulare, nessuno sgranocchiare patatine. Una specie di messa laica. Bello!
Il resto ha a che vedere con il film.
Intenzionalità. Kubrick è tutta intenzionalità. L’atto della volontà di un singolo uomo in rapporto al mezzo espressivo. Uao.
Obsolescenza. Non ce n’è traccia. Ogni Singola Microscopica Scelta nella messa in scena e nella produzione di questo film è talmente coerente e coesa che la stessa iconografia sixties di cui il film è permeato diventa simbolo archetipico dello zenit della civiltà umana. O, quantomeno, della sua grottesca percezione. E non è una cosa scontata. Se vi capitasse di riguardare in sala un film come “Star Wars: Una Nuova Speranza”, vi accorgereste che tutta la prima parte (fino all’approdo sulla Morte Nera) è indissolubilmente figlia di un certo look (di set, costumi, capelli e fotografia) anni ’70. Qui no. Nonostante ci sia molto dello sperimentalismo di Mekas e Brakhage tutto è così a servizio dell’esperienza (neanche del “messaggio”) che il film è, ancora oggi, modernissimo e, anzi, più avanti di noi.
Intellettualmente onesto. Il trip finale è la rappresentazione della non-raccontabilità del salto culturale e spaziale che affronta David Bowman. E non è che Kubrick ci goda ad essere impenetrabile. Solo pochi minuti prima, se ci pensate, molti dettagli vengono sottolineati sia attraverso spiegoni (il reportage televisivo) che attraverso scritte (“CAUTION: EXPLOSIVE BOLTS” inquadrata più volte sul boccaporto del pod). Ma qui no. Kubrick decide di lasciare a noi l’interpretazione della cosa. Ci vuole coraggio.
Pensate a Nolan e al finale del suo “Interstellar”. Si, okay Kip Thorne e okay il concetto di “tesseratto”, ma è tutto comprensibile. Ci metti un minuto e ci arrivi. Nolan e il fratello sceneggiatore sono intellettualmente disonesti perché pescano concetti semplici e, tramite la messa in scena, li fanno sembrare complessi. Il trick è che il pubblico, arrovellandosi su “Inception” o “The Prestige” pensa di star ragionando su cose importanti e complesse. Ma non è così. Sono robe semplici. È solo un trucchetto. Non ti stai trovando in un contesto culturale più ampio e alto.
Kubrick invece non ne ha timore. Gira una sequenza bellissima che richiede, esige, pretende il tuo apporto attivo! Non si può liquidare quella sala da letto Luigi XVI idealizzata senza venirne coinvolti intellettualmente. E, you know what?, la risposta non è nemmeno dietro l’angolo. Non basta qualche minuto di ragionamento. È difficile, ma è bellissimo. L’atto dell’uomo di tracciare un percorso, di riconoscere un senso è quello che ci identifica come specie. Probabilmente Kubrick suggerisce che ci vincola. Che rallenta la nostra evoluzione. Ecco perché osa spingerci a questi ragionamenti non limitandosi (e limitandoci) ad un banale “ma quindi la trottola alla fine cade o no?” Come non essergliene grati?
Qualità d’immagine. Il film venne girato in 70mm. Ieri sera, sullo schermo di una multisala del 2018, si vedeva forse meglio dell’ultimo Marvel. Poche tecnologie sono sopravvissute meglio alla prova del tempo che quella dell'emulsione cinematografica. Pensate se fosse stato girato in uno dei formati digitali di oggi. Se riguardiamo “La Minaccia Fantasma” oggi lo troviamo annacquato e poco contrastato. Il master del prequel di Lucas è in formato 1920x1080. Non avremmo mai modo di vederlo a qualità migliore. Il film di Kubrick puoi proiettarlo in sala a 4K senza perdita di dettaglio (anzi! acquisendone un po’ rispetto alla mia copia Bluray).
La persistenza della visione. Una delle lezioni più interessanti a cui ho avuto modo di assistere durante gli anni al Centro Sperimentale di Cinematografia aveva a che fare con uno studio accademico. Si cercava di capire se i nostri occhi decodificano un’immagine in un modo univoco tra soggetti diversi.L’esperienza (che, curiosamente, aveva molto a che vedere con la rieducazione di Alex in Arancia Meccanica) prevedeva l’utilizzo di lenti a contatto speciali con un anello riflettente. Indossarle non era la cosa più piacevole del mondo, ma molti studenti si prestarono a questo esperimento.
Una speciale telecamera era in grado di tracciare il movimento delle pupille mentre venivano mostrate al soggetto alcune foto e spezzoni di film. Questi movimenti venivano poi sovrapposti alle immagini utilizzate. Il risultato era inequivocabile: quando venivano mostrate fotografie o illustrazioni ogni percorso era univoco. Ognuno di noi, cioè, analizza l’immagine in modo differente. Ma quando si trattava di sequenze in movimento, tutti gli occhi scansionavano la scena nella stessa identica maniera (prima la porta che si apre, poi il volto di lei, poi la mano che afferra la cornetta, poi il sole che entra dalla finestra …). Tutti noi leggiamo il film nello stesso modo. Ma cosa accade quando in un filmato un soggetto diventa immobile?
Cosa accade quando l’inquadratura si sofferma su un dettaglio? Beh, succede che per qualche secondo l’iter delle pupille rimane identico per ogni individuo, poi però, dopo due o tre secondi, i percorsi di lettura cambiano. Subentra, cioè, l’io cosciente. Subentra l’intenzionalità. Ed è proprio perché “2001: Odissea nello Spazio” reclama, a gran voce, il nostro coinvolgimento, che Kubrick decide di tenere lunghe le inquadrature. Quando Bowman, attraverso l’oblò del pod, osserva il corpo senza vita di Poole che ruota nello spazio Kubrick ritarda il taglio di montaggio così tanto da farci sentire (direi fisicamente sentire) la nostra responsabilità nel decifrare quell’immagine così potente e disperata. L’uomo come elemento irrilevante nel pozzo senza fine di un universo indifferente. Terribile. Ma vero. E l’atto di coinvolgere la nostra parte cosciente è un dono grande. La persistenza della visione.
Ah, per fortuna non lo hanno ridoppiato.
Grazie Stanley.