13 Reasons Why è brutta perché è vera
Si parla di effetto “13 Reasons Why”: riteniamo il suicidio di Hannah Baker più violento delle violenze stesse che l’hanno portata al drammatico gesto. Ridicolo, no?
Ci sono due modi di apprezzare l’arte. Il primo, è quello che ti porta ad analizzarla, passarla ai raggi X, scrutare ogni pennellata, trovare una nota di difetto, un’inquadratura imprecisa, una trama bucherellata e fare inconsciamente un bilancio pregi/difetti, anche in base al proprio bagaglio culturale. Secondo questo modo, un’opera è brutta o bella, capolavoro o merda, imprecisa o perfetta.
Poi c’è la possibilità di lasciarsi trasportare, fidarsi di una storia e dei mezzi scelti per essere raccontata. 13 Reasons Why è un'esperienza (prima) e un messaggio chiaro (seconda), una serie coraggiosa perché ha scelto di trasmettere emozioni sgradevoli, suscitare scalpore scegliendo temi e rappresentazioni forti.
Ehy, it's Hannah, Hannah Baker. Live and in stereo.
Prima di guardare la sua vita attraverso i suoi occhi e guidati dalla sua voce, potremmo avere la tentazione di chiederci perché, nel 2018, coesistano le audiocassette, i Joy Division e i social media, anche se accennati. Poi inizia la storia e l’intento è quella di viverla. I punti di vista si alternano e si intrecciano. Il suicidio, un atto violento che pesa in ogni scena, su ogni personaggio, ad ogni parola. La frustrazione. Il senso di colpa. Le emozioni. I ricordi. I sentimenti.
Ma Il fulcro di 13 Reasons Why non è l'atto in sé, bensì tutto l'universo dietro e oltre lo stesso.
La verità ha più punti di vista. Ogni verità è la nostra verità. Il bullismo non è il più grosso della scuola che ti prende a pugni. Lo stupro non sempre avviene per strada, per caso, per colpa di uno sconosciuto. Non tutte le ragazze che definiamo carine sono consapevoli di esserlo o felici di stare al centro dell’attenzione. Non tutti i comportamenti nascono da un pensiero proprio, quanto piuttosto dalla ‘necessità’ di apparire e sentirsi parte di qualcosa. C’è un motivo dietro ogni nostra azione, dietro quelle degli altri, che per la maggior parte delle volte ignoriamo quale sia.
E poi c’è l’atto che ha scosso e che scuote l’essere umano al giorno d’oggi, la decisione di togliersi la vita, in questo caso sotto una diversa prospettiva. Il suicidio non come “grido d’aiuto”, bensì come “atto d’accusa”. 13 Reasons Why è una storia che soffoca. È intima, è intensa. È protesta. È cruda, nuda. Fa male, come la vita quando hai 17 anni.
Hannah Baker è una ragazza intelligente, sensibile, insicura, con la sensazione di sentirsi perennemente fuori luogo per questo. Così tanto da non riuscire a capire che Clay la stima, la rispetta e prova qualcosa per lei.
Hannah, così come gli altri protagonisti della serie, è una semplice adolescente che vuole vivere quelli che ci vengono venduti spesso come ‘gli anni migliori della nostra vita’. Il pacchetto adolescenza fatto di compiti, assenza di responsabilità ‘da vita vera’, di amici e feste. Nessuno ci dice che, in realtà, forse è proprio quello il periodo in cui ci sentiamo più soli in assoluto. Persi e confusi alla ricerca di una nostra identità, alle prese con i nostri pensieri che si formano e si alzano in piedi, diventando le fondamenta del nostro ‘nuovo carattere’ e allo stesso tempo gettati su un palcoscenico, col pubblico che deciderà se sei una A o una B, un 4 o un 10, una troia o una figa di legno, una porca o una cessa, un figo o uno sfigato, un coglione o un principe, un asociale o l’anima della festa. All’improvviso, il riflettore è su di te: vai bene a scuola? Hai amici? Hai un ragazzo? Perché no? Sei normale? C’è qualcosa che non va?
Nella fretta di ottenere ciò che abbiamo bisogno per una vita normativamente ‘normale’, ci viene detto che dobbiamo farci accettare, o perlomeno provarci. 13 Reasons Why va visto nella prospettiva del nostro continuo cercare di entrare nel vestito che tutti vogliono che indossi, soprattutto da adolescenti. Hannah Baker potrebbe avere tutto, c’è chi dice così. Hannah Baker ha un bel culo, degli ammiratori, le ragazze sono gelose di lei. Per alcuni è sinonimo di successo. Hannah vuole un’amica, Hannah non ha pregiudizi. È aperta, spavalda. Ironica. Adolescente. Si sente un peso per i suoi genitori. È sensibile.
"Ma è anche bugiarda, drama queen, esagerata…"
Vi è mai capitato di vedere una cosa che volevate vedere? Ve ne accorgete subito, perché è quella cosa che vi fa pensare che se la vostra ex guarda le vostre storie su Instagram è perché le mancate o chissà cos’altro. Vediamo cose che durano un attimo e il nostro cervello le elabora in base alle nostre esperienze, al nostro carattere. Funziona così pressapoco per tutto. Questo fa di noi dei bugiardi? In un certo senso si potrebbe dire che non c’è una verità assoluta. Per questo ce ne sono tante, date dai punti di vista. Per questo vediamo i protagonisti da diverse angolazioni ed ognuna di esse è vera in quanto parte di un tutto del quale noi afferriamo solo ciò che siamo predisposti a vedere.
Il motivo per cui 13 Reasons Why ha suscitato polemiche è l’esatto motivo per cui bisognerebbe guardarlo con occhi diversi: nella nostra società, quello che ha passato Hannah non si chiama bullismo ma normalità, ed è per questo motivo che la gente non lo riconosce come tale. Abbiamo abituato noi stessi alla violenza subdola.
Siamo diventati incapaci di percepire la brutalità non tangibile. Quella che passa attraverso i silenzi o delle ‘parole su uno schermo’; quello che si definisce ‘un complimento’ ma che in realtà non lo è. Andiamo avanti accumulando dosi di micro-violenza e l’ironia sta nel non accorgersene, perché, durante la prima stagione, tutto quello che viene fuori da molti commenti sugli episodi è la frase “ma non starà un po’ esagerando?”.
Ed è qui che entra in gioco l’effetto “13 Reasons Why”, questo meccanismo ne è la prova schiacciante: riteniamo il suicidio di Hannah Baker più violento delle violenze stesse che l’hanno portata al drammatico gesto. E si potrebbe tranquillamente sostituire ‘Hannah Baker’ con qualsiasi altro nome e cognome che ha deciso di porre fine alla propria vita, se di proprietà si può parlare. Se sopporti, lotti, ingoi, trattieni, freni, reggi ogni colpo che ricevi dall’esterno (o dall’interno, che nessuno sembra considerare abbastanza) sei un eroe. Se scegli di abbandonare il gioco, un codardo che non ha avuto abbastanza forza per continuare a parare colpi.
Ovviamente, la vita non è fatta solo di questo; è risate, noia, crescita. È umanità e il suicidio non è una risposta (o così siamo obbligati a scrivere e dire a noi stessi). Per questo, la seconda stagione di 13RW diventa più didascalica, smorza l’onda emotiva della prima e ci regala bellissimi monologhi sui ruoli in società, sul liceo, sui rapporti, sulla famiglia. Nonostante la trama non perfetta, sceglie di far vedere il tutto con la lente di un adolescente. Se i primi 13 episodi parlavano alla pancia di un adulto cresciuto, la seconda spiega alle nuove generazioni la necessità di dialogare, comunicare, esprimere i propri sentimenti. Ottimi anche i talk show che vengono proposti dopo la visione della serie, dove attori, creatori, esperti e pubblico si confrontano sulle scene più emblematiche, spiegandone i motivi. Per completare il progetto, il sito 13reasonswhy.info diventa un utilissimo hub per trovare numeri d'emergenza, consigli sulla visione della serie, risorse video e documenti su tutti i temi trattati dalla serie.
13RW è importante per il suo pubblico di riferimento e per un paio di generazioni, una serie che vuole aggiustare un po’ i meccanismi di una società troppo abituata a nascondere, a connettersi ma non parlare, a scambiarsi le parti intime ma non i sentimenti. Lo fa portando la crudezza in primo piano, in tutte le sue declinazioni: c'è da chiedersi, alla fine, se questa serie si merita di essere criticata per l'aver mostrato una ragazzina che si taglia le vene e non per aver rappresentato la violenza in tutti i modi in cui si può far male.