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Viviamo nella distopia di Configurazione Tundra

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Tra filosofia della mente e politica, il libro ci trascina nella distopia di Configurazione Tundra e ci costringe al confronto con il nostro stesso presente.

Venerdì scorso è stato il mio primo giorno di telelavoro. L’ho inaugurato spostando la scrivania dall’angolo migliore della casa a quello più buio e freddo, dove ho collocato il laptop aziendale. Nessuna ragione obiettiva alla base di questa scelta, se non una vaga intuizione sul rapporto intrattenuto dalla mia interiorità con la disposizione dei mobili. Per lavorare avevo bisogno che la scrivania fosse lì. La mia recensione di “Configurazione Tundra”, libro d’esordio di Elena Giorgiana Mirabelli (Tunué editore), parte da questo aneddoto personale per due motivi: in primo luogo perché il libro di Mirabelli parla soprattutto di Spazio, e di come questo possa influenzarci in modi tanto profondi quanto impercettibili; in secondo luogo perché il romanzo ha (o quantomeno ha avuto per me) la capacità di intercettare una dimensione molto privata - producendo una lettura, e una ricostruzione di significati, altrettanto personale.

Nel romanzo la dimensione dell’interiorità va a braccetto con quella politica: Configurazione Tundra ci offre un mondo distopico in cui architettura, urbanistica e filosofia si fondono nel cosiddetto “Modello Fiani”, un sistema di organizzazione della società basato su una rigida organizzazione dello spazio. “Decoro, efficienza e sicurezza” sono i valori imprescindibili che sanciscono la realizzazione di un “nuove architetture spaziali e politiche”: le Città-Bioma, singoli complessi urbani costruiti lungo un’unica linea retta in cui tutto - dalle forme ai colori agli odori - è studiato per influenzare i comportamenti degli abitanti, sottraendoli a quel libero arbitrio che impedisce il raggiungimento di una vera felicità.

 

Prendendo in considerazione “le diverse dimensioni dell’umano, anzitutto quelle biologiche”, il Modello si pone l’obiettivo di “concepire le strutture spaziali così da renderle capaci di amplificarne alcune e reprimerne altre” con lo scopo ultimo di garantire agli uomini una triade in cui coincidono efficienza, felicità e soprattutto specializzazione. Per Marta Fiani, ideatrice del Modello, il nodo gordiano è tutto lì, nel problema della “mancata specializzazione umana”, nei vuoti e nelle deviazioni e nelle soste che costituiscono gli infiniti possibili e dunque gli infiniti vicoli ciechi in cui ciascuno scopre il dolore. Percorrendo all’infinito la linea retta della Città-Bioma, ogni uomo diventa cittadino e ogni cittadino ha la propria funzione, il proprio ruolo, il proprio percorso. Specializzarsi equivale a essere felici

Tra le varie regole che scandiscono la vita degli abitanti, c’è quella dell’Altrove: a ognuno sono concessi tre mesi all'anno di riposo, da trascorrere in una casa diversa dalla propria nella quale non troveranno alcuna traccia dei precedenti abitanti. La “regola della neutralità” è una delle tante norme che garantiscono la tenuta del Modello, ed è proprio la sua rottura a innescare il movimento della narrazione. Nella Città-Bioma di Tundra, durante il (o per meglio dire all’interno del) proprio Altrove, la protagonista del romanzo - Diana - scopre i diari personali di Lea Fiani, la figlia dell’ideatrice del Modello. Attraverso quei quaderni Diana ripercorre la vita di Lea, spezzando il secondo taboo di Tundra: quello del ricordo. 

Nel mondo delle Città-Bioma la memoria è un ostacolo, e l’oblio uno strumento da usare “consapevolmente, per rendere le direzioni più pulite e precise. Per mantenere quella rotta verso nord” (il punto è centrale e andrà ripreso). Diana, che a malapena ricorda sua madre - una dissidente deportata sulla Città-Bioma di Isola - si scopre affascinata suo malgrado da questa ricostruzione pezzo a pezzo della vita di Lea Fiani, grazie alla quale scoprirà una linea di fuga dalle maglie opprimenti della necessità del Modello. 

                                      Lo spettro di un Grande Fratello immanente infesta il romanzo

Attraverso l’incontro con l’alterità di Lea salta anche il terzo caposaldo del Modello Fiani: la dittatura del calcolo, del quantificabile, del determinato. La specializzazione del Modello implica che ogni esistenza si componga di un “numero finito di mosse”, e che dunque tutto sia riconducibile a una dimensione matematica. La Guida, l'organo di governo che incombe su tutte le Città-Bioma, insegna a “considerare l’interiorità altrui come qualcosa di calcolabile e preciso”, rappresentabile in uno dei grafi che sono il simbolo di una facoltà conoscitiva assoluta, in cui ogni variabile - persino Dio - può essere presa in considerazione. E tuttavia di fronte alle lettere di Lea, Diana “non [riesce] più a produrre grafi ma solo immagini”. Alla facoltà del prevedere si oppone così quella del vedere (che ritorna a ogni “ti vedo” pronunciato da Diana nei suoi dialoghi mentali con Lea). Non a caso l’abitazione di Lea è in via Oida n. 7: οἶδα, perfetto del greco ὁράω, “io so perché ho visto”.

È proprio sull’imprevedibilità dell’Altro che si svilupperà la seconda fase del romanzo, in cui Diana ripercorre nei fatti le esperienze di Lea e incontra i tre uomini di cui quest’ultima le parla nei suoi diari: Ettore, Pao e Mr. Iulio. I tre personaggi rappresentano, ciascuno in modo diverso, aderenza e divergenza dal Modello, ma nel relazionarsi con loro Diana scopre ciò che il Modello dovrebbe impedire: l'inatteso. Gli incontri - soprattutto l'incontro con Ettore - non vanno come dovrebbero, nasce una “frattura”, e nonostante le retoriche della Guida (l'imprevisto sarebbe un semplice incidente di percorso che nasce dal “confondere calcolo con aspettativa”) il sospetto è che su questa pretesa di prevedibilità assoluta dell’Altro il Modello si incrini definitivamente, offrendo finalmente a Diana una via d’uscita. 

In poco più di cento pagine, il romanzo di Mirabelli offre un punto di vista sul mondo e sull’interiorità tanto inedito quanto capace di risuonare con il lettore. Come ha scritto Jacopo Nacci, la scrittura si sviluppa in profondità: partiamo già nella verità (è delle primissime pagine la frase in cui è racchiuso il senso dell’opera: “[...] ti senti capace di costruire coordinate e controllare emozioni. In realtà non c’è nessuna scelta, sei preso nell’azione – come un incantamento, all’interno di un ciclo. Poi qualcosa salta. Quell’incantamento gira a vuoto, ne comprendi la realtà e riesci a renderti conto. [...]) ma la mettiamo a fuoco progressivamente, affinando il ragionamento attraverso la narrazione e le citazioni degli pseudobiblia di Marta Fiani; come ci ricorda Diana “[...] quello è il problema: il vedere. Riconoscere lo sfondo e la figura in primo piano, abituarsi alla messa a fuoco, oltre che alla selezione.

Attraverso un linguaggio evocativo, che rinuncia ai grafi e offre immagini, Mirabelli ci mette nelle stesse condizioni di Diana: la sensazione è quella di “essere di fronte a qualcosa che [ci riguarda] – [invischiati] in una prospettiva. Come quando vedi un oggetto solo di taglio [...] vedi solo una faccia, un colore, un suono, un taglio di luce. E credi che sia tutto così chiaro, tutto così preciso che ti convince.” Ma se abbiamo l’impressione di assistere a un conflitto fra due forze polari, due diversi “modi” di vivere (dentro al Modello e fuori) questa impressione è indissolubilmente legata all’ambiguità di queste forze, allo scambio continuo che intercorre fra loro. Forse c’è davvero qualcosa di buono nel Modello Fiani, e ha ragione Diana: l’interesse di Marta Fiani era “puramente speculativo”, e se il Modello ha dato origine a una società distopica la colpa è degli “organi governativi e [delle] strutture burocratiche” che hanno “preso quella visione e [l’hanno] piegata.

In effetti c’è qualcosa di attraente e familiare nella concezione di individuo del Modello: l’ossessione di Marta Fiani per uno Spazio che “liberi dalla schiavitù del Tempo”, del “diventare come acqua”, del prendere “decisioni prive di prospettiva. Legate al presente”,  come se quella del presente fosse “l’unica dimensione”, radicalizza l’idea di una felicità celata in un eterno carpe diem: la vita nelle Città-Bioma è una vita immersa in un eterno presente, priva di progettualità (solo alla fine Diana dirà: “capisco che per la prima volta ho un progetto”) e dunque priva di futuro, ma anche priva di memoria e dunque di passato (l’unica memoria ammessa dalle Città-Bioma, più che assomigliare “alla scatola dei ricordi che cerco di sputare fuori attraverso i racconti” è “una forma di memoria meccanica, che attiene il mio corpo”).

Strappato dallo Spazio alla dimensione del Tempo, il presente nelle Città-Bioma diventa semplice movimento. Ma senza memoria, senza progettualità, questo movimento assomiglia all’incedere degli zombie, felicemente schiavi e totalmente ignari di sé proprio perché privi ormai dell’idea stessa di un Sé. Scrive Marta Fiani: “Troppa soggettività mi turba. Troppa soggettività porta a fraintendere. Se il mio obiettivo è la felicità allora dovrò costruire un sentiero adatto in cui la soggettività viene messa da parte.

Il Modello Fiani ci mostra così il lato oscuro di certe filosofie della mente, tutte variamente legate a un’idea non reificata del Sé (leggendo ho pensato molto al Bergson di “Materia e memoria”) e in questo senso più che una distopia sembra descrivere una versione radicale del nostro presente, in cui l’esperienza del “vivere il momento” è terribilmente vicina a quella del riempire per ore tabelle excel, del ripetere all’infinito lo stesso movimento in catena di montaggio: in parole povere, l’alienazione lavorativa. Con la differenza (differenza?) che questa alienazione diventa, nelle Città-Bioma, l’unica dimensione possibile del vivere. “Se diventi acqua sarai parte del grande organismo statale.

L’indeterminatezza di un Sé-come-movimento si associa così a una pienezza che è felicità ma anche schiavitù, ipnosi, e soprattutto (in qualche modo controintuitivamente) finitudine e determinabilità - un numero definito di azioni, appunto. Il polo opposto, quello di un Sé determinato e reificato, radicato in memoria e progettualità, si associa invece all’indeterminatezza dei possibili (ma poiché invivibile all’interno del Modello, porterà Diana all’unico progetto possibile: scomparire). Al centro, come elemento di rottura e liberazione, l'esperienza di un'Alterità che - positiva o negativa - si oppone strenuamente a calcoli e previsioni.

Questa, lo ripeto, è una lettura del tutto personale, e non deve far pensare che il libro venga meno alla propria capacità di mantenere un’ombra di fondamentale indecifrabilità, anche e soprattutto grazie alla scrittura utilizzata. Sta di fatto che, al netto delle presunte buone intenzioni di Marta - che col suo Modello cercava di fare per sé l’esatto opposto di quel che offriva, diventare “una persona importante” - è difficile pensare che l’appropriazione delle sue teorie da parte delle strutture burocratiche non fosse inevitabile. A dirla tutta, a libro esaurito resta un sospetto inquietante: non sarà che nel Modello Fiani ci viviamo già?

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