The Falcon and the Winter Soldier: la verità e l’allegoria
La Marvel, con i fumetti prima e i film del MCU dopo - per arrivare alla recente serie Falcon and the Winter Soldier - ha scritto la storia delle moderne divinità.
Il primo sogno dell’umanità fu un sogno di assenze e fantasmi.
Addu-duri, sovrintendente del palazzo di Mari in Mesopotamia, sognò di entrare nel tempio di Belet-Ekallim e di non trovarvi più la statua della dea. Al risveglio la donna scoppiò in lacrime: piangeva la scomparsa di ogni immagine-ponte tra l’umanità e gli dèi.
Da allora molte volte gli dèi sono tornati tra gli uomini. Altrettante sono fuggiti. Nel ritorno e nella sparizione, non abbiamo mai smesso di raccontarli. Ma più li raccontavamo, più si usurava il rito. Nessuno sapeva più costruire un altare, così la divinità veniva confinata nella superstizione o, nel migliore dei casi, nella letteratura e nelle storie, nel racconto del mito senza più rito.
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Ci sono fluttuazioni anche oggi, nel nostro rapporto coi miti. Negli anni Sessanta un novello Schlegel guardò alle rovine del recente passato come i poeti romantici avevano fatto con quelle dell’età classica. Ma Stan Lee doveva conoscere bene l’inno vedico secondo cui “L’immortale ha la stessa origine del mortale”, e così dotò i supereroi di superproblemi sin dalle loro origin story, perché le loro avventure fossero più credibili agli occhi dei lettori occidentali. Al divino e all’occultò fu spesso fornita una base scientifica e tecnologica – anche aliena, se necessario – e la storia ripartì ancora una volta tra grandi slanci e rinnovati scetticismi.
“Ciò che per gli altri è superstizione, per noi è scienza”, affermava il Teschio Rosso in Capitan America: The Winter Soldier.
Così per tutto il Novecento: periodi di magra, altri più fortunati, un balletto in cui si alternano epica, parodia, tragedia, nichilismo. I costumi sgargianti degli eroi della Golden Age si fanno via via più dark e tecnologici alle soglie del Duemila. La violenza della battaglia, corrispondenza di ciò che era il sesso per le divinità classiche, è ora edulcorata, ora esaltata nel realismo di sangue in evidenza e ossa rotte.
Capitan America fu ibernato in quanto residuato bellico di un’altra epoca fumettistica, eroe di una propaganda non più credibile, non più in assonanza con lo spirito del tempo. Lo scongelamento del Capitano avvenne non tanto quando fu possibile estrarre il suo corpo tra i ghiacci, ma per una sopraggiunta e ritrovata possibilità che il suo scudo potesse ancora parlare ai contemporanei. Così i suoi albi tornarono a vendere.
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Se il mito va rinnovato perché sia quantomeno avvicinabile da nuovi potenziali fruitori e soddisfare così un bisogno ancora inespresso, nella nostra società è necessario che molte stelle si allineino affinché il cielo si ripopoli di eroi. Reparti marketing, qualità autoriali, sforzi produttivi e tecnologici: tutto deve cospirare perché dalle crepe del contemporaneo torni a sgorgare il mito, per ricordarci che quelle fratture sono lì da sempre.
Ci vuole coraggio, e il Marvel Cinematic Universe in più di dieci anni ne ha dimostrato a sufficienza per tornare a raccontare la presenza degli dèi – dunque l’ascesa, che poi è sempre un ritorno che già predispone alla caduta.
Sappiamo che Endgame era la caduta con tanto di sacrificio (e di rito globale, questo sì, nell’andare in massa al cinema, in tutto il mondo, negli stessi giorni): così la Fase 4 del MCU e il post-blip raccontano nuovamente un’assenza e un potenziale ritorno.
D’altra parte il tempo del mito è sempre ciclico.
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Tuttavia l’assenza corrisponde spesso a una più diffusa incapacità di credere, prima ancora che alla sparizione dell’eroe dal quartiere o dalla città di turno. Si smette di credere perché si è esaurito un ciclo, oppure perché chi ha fruito di quel ciclo si illude di vivere in tempi apparentemente più complessi, inspiegabili rispetto al passato tanto da apparire inediti nella storia dell’uomo.
Quando Steve Rogers si ritira, ha già dato vita a un fantasma. Come nel sogno di Addu-duri, entriamo nello Smithsonian Art Museum col timore di non trovare più traccia dello scudo di Capitan America tra i pannelli che ne celebrano le avventure. Ma anche stavolta il fantasma è quello di un’immagine, non più di un uomo. Il simbolo – lo scudo – ha ecceduto l’uomo, lo ha trasceso. Ecco allora che il fantasma invoca il mito, di nuovo. Ecco allora che il governo statunitense nutre la necessità del mito di giustizia e democrazia affidando lo scudo a un mortale.
“Gli eroi di oggi non possono più permettersi il lusso dell’integrità” sospira nostalgico, parlando con Karli, uno dei giovani Flag-Smashers in The Falcon & The Winter Soldier. Il ragazzo cresciuto coi fumetti del vecchio Cap sarà poi ucciso brutalmente da colui che porta ora lo scudo, il folle e involuto John Walker.
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John Walker, futuro US Agent, non è cattivo: è solo un mortale destinato a rimanere tale nonostante la ricezione dello scudo e del siero.
Mortali sono inizialmente, nella miniserie, anche Sam Wilson (in crisi e in bancarotta), Bucky (ex golem in terapia) e Karli (persa nel furore rivoluzionario). Ma risultano ingannevoli queste rappresentazioni verosimili degli eroi, come anche i rimandi alle inquietudini geopolitiche della realtà di qua dallo schermo (terrorismo, rifugiati, razzismo, disuguaglianze).
Ingannevole è anche la rappresentazione cruda, in parte singolare per il MCU, della violenza: ossa del collo spezzate a morte, lame che inchiodano braccia e mani al muro, e poi lo scudo a stelle e strisce imbrattato di sangue giovane e idealista.
Il piano della verosimiglianza, che pure potrebbe portare a credere i più scettici, s’incrina e si infrange facilmente: semplificazione, ammiccamenti eccessivi all’attualità globale e minutaggio insufficiente sono trappole difficili da scansare. Qualcosa stride. È su un altro piano che TF & TWS gioca la sua partita col ritorno degli dèi, allora. Quello dell’allegoria.
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Il ritorno del mito è la storia di tutti i ritorni del mito, che a sua volta è la risonanza dei molti nell’uno. La molteplicità del difforme si cristallizza in una forma intellegibile ma non per questo univoca o meno ambigua. Nell’allegoria dello scudo vibrano immagini e storie diverse, ramificate, complesse.
Simbolo di giustizia e democrazia per il mondo libero e bianco, in quanto emblema dell’America lo scudo è però anche sinonimo di oppressione e schiavitù. Può Sam Wilson, un nero, portare quel simbolo? Può sperare che l’America sia riformabile dall’interno solo perché permette a un nero di portare lo scudo del più amato tra i suoi eroi?
Qui troviamo tensioni che non sono solo quelle degli USA odierni, ma stanno in seno a un dibattito interno all’America nera, dunque all’America intera, che dura da sempre. Una possibile risposta è nelle parole del vecchio Isaiah Bradley: niente compromessi coi bianchi, nessun nero che abbia dignità accetterebbe quello scudo.
Ma gli stessi interrogativi, tanto morali che politici, attanagliano Karli e i Flag-Smashers, e in fondo sono gli stessi per ogni movimento rivoluzionario. Diplomazia o teste tagliate? Rivendicazioni politiche nei luoghi della democrazia o piuttosto attacchi suicidi contro i simboli del potere che opprime? Ciò che per noi è un attentato terroristico, per altri è un atto di ribellione portato da eroi nazionali contro invasori e dittatori – quindi anche contro gli USA che si avventurano in Iraq come in Afghanistan e in Vietnam.
L’urgenza portata da queste domande non è solo quella che anima Sam Wilson, e non è tale perché oggi viviamo in un mondo più duro e complesso rispetto al passato: ma perché è l’urgenza di sempre, di tutti gli uomini e le donne di tutte le epoche.
In che modo partecipiamo al mondo, in che misura speriamo di poter incidere su ciò che ci sta attorno? Quando è giusto fermarsi, qual è la linea da non oltrepassare? Quale tesi, quale verità siamo disposti ad abbracciare?
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A proposito di verità, anche in questo caso lo scudo racconta una storia che ne contiene molte altre. Ad esempio quella del supersoldato bianco e senza macchia, che poteva appunto permettersi “il lusso dell’integrità”: una verità edificante, dunque edificata, edificabile a favore di telecamera e di propaganda.
Mescolando il canone del MCU con quello fumettistico – del resto anche il mito classico è fortemente instabile, sintesi di canoni e versioni contraddittorie di una stessa storia –, sappiamo infatti che il supersoldato Steve Rogers è il risultato di un’epoca di orribili sperimentazioni congiunte da parte di USA e nazisti su neri, ebrei e migranti. L’eugenetica per selezionare e potenziare il “meglio” della popolazione mondiale e debellare il “peggio”: da qui arriva lo stesso liquido che scorre nelle vene tanto di Steve Rogers quanto di Johann Schmidt, Isaiah Bradley, John Walker, Bucky o dei Flag-Smashers.
Ma cos’è il siero del supersoldato se non la ricerca del superuomo, del divino nell’umano, e quindi il tentativo, moralmente aberrante forse persino al di là dei presupposti razzisti e classisti, di ripristinare il mito attraverso la scienza e la tecnica? Erano questi i piani del Teschio Rosso, convinto appunto che “Ciò che per gli altri è superstizione, per noi è scienza” e ben consapevole, pure, che “L’immortale ha la stessa origine del mortale”.
E siamo di nuovo, ancora una volta, dalle parti di Prometeo o del geniale Dedalo, sorta di Tony Stark dell’epoca classica. Dedalo che si mischiò alle questioni divine e sfidò, omaggiandolo, il mito con la progettazione del labirinto, delle ali artificiali (con Icaro-Falcon al suo fianco) e con i primi robot/golem della storia. Erano questo le agalmata, statue in grado di simulare lo sguardo e l’articolazione delle membra degli dèi, che meravigliarono persino Platone per la loro verosimiglianza rispetto all’immagine divina.
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No, come contemporanei probabilmente non andremo in pellegrinaggio allo Smithsonian, e forse neppure sogneremo il museo orfano dello scudo e delle statue del Capitano. Non sappiamo costruire altari e preghiamo sempre meno: in compenso sappiamo ancora costruire storie e ravvivare il mito. All’occorrenza, lo rebootiamo cambiando il nome di uno show in coda all’ultima puntata o azzerando la numerazione di una serie regolare a fumetti.
Di tanto in tanto solleviamo lo sguardo al cielo per decifrare tra le stelle un messaggio che ci aiuti a orientarci sulla terra. Questo cielo che un tempo era di carta e oggi è uno schermo sempre acceso, brulicante di costellazioni.
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Riferimenti
“La letteratura e gli dèi”, Roberto Calasso (Adelphi, prima edizione 2001)
“Cambiare idea”, Zadie Smith (minimum fax, 2010, traduzione di Martina Testa)
“Capitan America: la verità”, Robert Morales, Kyle Baker (Panini Comics, 2017)
“Capitan America: il primo vendicatore”, Joe Johnston (Marvel Studios, 2011)
“Capitan America: the Winter Soldier”, Joe Russo, Anthony Russo (Marvel Studios, 2014)
“The Falcon and the winter soldier”, Kari Skogland, Malcolm Spellman (Marvel Studios, 2021)