

The Revenant — La recensione: Il buono, il brutto e il redivivo
Cosa fareste per un Oscar? Sareste disposti a mangiare pesci crudi? A dormire dentro la carcassa di un cavallo? A rischiare di perdere una mano per il freddo? Io forse no, voi non lo so, ma né io né voi siamo DiCaprio, che ogni giorno si alza in una villa di lusso, cercando di non ... The Revenant — La recensione: Il buono, il brutto e il redivivo
Cosa fareste per un Oscar? Sareste disposti a mangiare pesci crudi? A dormire dentro la carcassa di un cavallo? A rischiare di perdere una mano per il freddo? Io forse no, voi non lo so, ma né io né voi siamo DiCaprio, che ogni giorno si alza in una villa di lusso, cercando di non svegliare l’ennesima modella che gli dorme accanto, per vedere immagini come questa.
The Revenant è una storia di vendetta che mette in scena una leggenda americana più volte raccontata e rimasticata: Hugh Glass, cacciatore, guida e esploratore viene quasi fatto a pezzi da un orso, i suoi compagni lo lasciano da solo in mezzo ai boschi, credendolo morto, ma lui non solo sopravvive contro ogni pronostico ma li trova e si vendica.
Iñárritu (scritto rigorosamente col copiaeincolla) prende questa storia e la trasforma in un lunghissimo virtuosismo fatto di panorami mozzafiato, luci naturali, piani sequenza e movimenti di macchina che ispirano ammirazione ad ogni cambio di inquadratura. Lo spettatore è continuamente rimbalzato tra campi così stretti che il fiato degli attori appanna la macchina da presa e scorci che sembrano presi da un documentario sul Canada, pronti a puntare il dito sull’insignificante dimensione dell’uomo di fronte alla natura. Ci sono momenti in The Revenant in cui puoi quasi percepire la difficoltà di catturare quella lama di luce, quel riflesso, quel momento perfetto, quell’espressione dell’attore che si sveglia dentro il ventre di un cavallo morto. La scena dell’attacco degli indiani riscrive completamente le regole del western e rappresenta per il genere ciò che lo sbarco in Normandia di Salvate il Soldato Ryan fu per i film bellici.
D’altronde il regista con Birdman aveva fatto capire che i blockbuster facili li voleva lasciare agli altri, adesso era arrivato il momento di tenere fede alla parola data.
Una bellezza inalterata e selvaggia dunque, che contrasta con l’incredibile durezza della vita dei coloni americani del 1800, personaggi rozzi, brutali e animaleschi dipinti fondamentalmente come uomini delle caverne che hanno sostituito la clava col fucile. Un mondo in cui gli uomini si uccidono, rubano e ballano ubriachi mentre le donne sono poco più che oggetti con cui sfogare gli istinti più bassi, in cui anche gli indiani non sono certo il classico “buon selvaggio” ma ribelli incazzati col mondo che non ci pensano più di tanto a piantarti una freccia in gola.
Se The Revenant è un western (e non credo lo sia) cerca di farlo nel modo più spietato possibile, buttando via il mito della frontiera, dei coloni gentili e dell’eroismo per lasciarci un gruppo di razziatori in territorio ostile che arraffano ciò che possono e chiamano gli indiani “negri degli alberi”.
Questo non vuol dire che non ci sia spazio per un certo spiritualismo, affidato ai sogni in cui Glass rivede la moglie morta e dove il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki può dare libero sfogo al suo lato più visionario e “malickiano”.
The Revenant è il classico film che fa della violenza e di un certo compiacimento splatter una parte fondamentale della propria narrazione e che pur raccontando una storia incredibile cerca di farlo col maggior realismo possibile, senza lesinare dettagli di budella, sangue, frecce che trapassano occhi e gole che gorgogliano per il sangue. Il tutto è incorniciato da una colonna sonora dal suono sorprendente moderno, che accompagna le immagini alternando ritmi ossessivi e quasi tribali a momenti più evocativi ed eterei.
Essendo la storia così semplice che la si potrebbe narrare solo per immagini, il film fa un uso estremamente parsimonioso della parola, soprattutto per quanto riguarda DiCaprio, che, complice una ferita alla gola, si esprime per gran parte del film con rochi grugniti e sguardi allucinati. Il risultato è una performance estremamente credibile nel ruolo di vera e propria incarnazione della Vendetta, lontana da ruoli facili e gigioni come quelli di Django e Il Lupo di Wall Street. Se è vero che l’Academy ama chi è disposto a perdere il proprio fascino hollywoodiano recitando ruoli in cui appare brutto, deforme e persino ridicolo, non so altro cosa possa fare il povero Leo per convincerli.
Un altro che rischia seriamente la statuetta è Hardy, ormai perfettamente calato nel ruolo dell’attore trasformista, che mette in scena un cacciatore di pelli texano molto loquace, sfregiato, avido e cinico dall’accento quasi incomprensibile. Un cattivo perfetto con cui è praticamente impossibile empatizzare, un personaggio sgradevole e fastidioso, completamente lontano dal fascino del male.
La Vendetta è senza dubbio l’apparente tema principale di The Revenant, ma ci sono almeno due altri importanti tematiche che scorrono parallele, uno è il senso del divino e l’altro è il bisogno umano di qualcosa che ti porti avanti, uno scopo supremo che ti permette di superare tutto ciò che hai di fronte. I due temi sostanzialmente si mescolano in un unico grande messaggio: tutto ciò che ti tiene in vita, tutto ciò che fa battere il tuo cuore, sia la voglia di vendetta, uno scoiattolo che ti impedisce di morire di fame, il desiderio di una vita migliore nel Texas, tua moglie morta diventa automaticamente il tuo dio personale.
Il problema di tutta questa magnificenza, di tutto questo ben di dio visivo e di questa incredibile prova attoriale drammatica è che purtroppo in certi momenti crolla sotto il suo stesso peso. Ci sono momenti in cui The Revenant sembra un episodio girato molto bene di “Uomo vs Natura” con DiCaprio al posto di Bear Grylls. Il modo quasi fortuito con cui il protagonista riesce a sfuggire la morte per mano di un orso, del freddo, della gravità, degli indiani, della setticemia, delle rapide, guarendo in poco tempo da ferite terribili che vengono cauterizzate con la polvere da sparo (sì, come in Rambo) o curate, come in Call of Duty, dal semplice riposo, tendono ad assumere col tempo un retrogusto comico.
Ok, sei lo spirito della Vendetta, sei una fottuta nemesi personificata, però a tutto c’è un limite. Inoltre la quantità di sfighe che sembrano tormentare Glass e chiunque osi condividere la sua strada sembrano figlie di una di quelle capricciose divinità che fecero vagare Ulisse per anni. In effetti ci sono momenti in cui The Revenant più che un western atipico sembra una tragedia greca ambientata in Canada.
Questa apoteosi di fortuna e sofferenze finiscono per risultare quasi ridicole e per certi versi impediscono al film di creare un forte legame con lo spettatore. Noi non soffriamo con Glass perché ciò che gli succede è totalmente fuori da questo mondo. Pur riconoscendo l’evidente sforzo produttivo e recitativo finiamo per rimanere tutto sommato molto distanti dalla sua storia e dal suo dolore perché è troppo perché è semplicemente troppo.
Il risultato è una pellicola bellissima, ricca di scene spettacolari ma che rischia in certi momenti di scadere nel virtuosismo fine a sé stesso, nel “Dio cristo, sto mangiando carne cruda con le palle a bagno in un fiume gelato, me lo dai questo fottuto Oscar?”.
Dunque Academy fallo, prima che qualcuno si faccia male sul serio.