Ecco perché non ci meritiamo The Blair Witch Project
Più o meno una ventina di anni fa, il mondo veniva bombardato da una campagna di marketing con pochi precedenti: un film horror talmente tanto tremendo che le prime proiezioni avevano provocato attacchi di panico e fughe in massa dalle sale cinematografiche, un film che in realtà era un frutto di una cassetta ritrovata dopo ... Ecco perché non ci meritiamo The Blair Witch Project
Più o meno una ventina di anni fa, il mondo veniva bombardato da una campagna di marketing con pochi precedenti: un film horror talmente tanto tremendo che le prime proiezioni avevano provocato attacchi di panico e fughe in massa dalle sale cinematografiche, un film che in realtà era un frutto di una cassetta ritrovata dopo che i protagonisti erano scomparsi: la vita vera era arrivata al cinema e aveva promesso di farci tremare dalla paura.
Lo sviluppo della rete, la sua influenza sulla nostra quotidianità e l’inevitabile assuefazione a cui siamo arrivati oggi, molto probabilmente avrebbe annullato del tutto l’efficacia di quel battage pubblicitario, che invece nel 1999 fece da apripista al successo del film (poco più di 60.000 dollari di costi a fronte di quasi 250 milioni di incassi in tutto il mondo).
Immaginate oggi un film la cui promozione parte dagli stessi presupposti del primo The Blair witch Project: a parte il fatto che non ci crederebbe più nemmeno un preadolescente – che ha visto almeno mille compilation di creepypasta su YouTube e ha più pelo sullo stomaco di un mercenario –, basterebbe anche solo una banale ricerca su Google per far tirare il fiato ai più preoccupati e rasserenare gli animi dei genitori più in ansia. Tranquilli, non è una storia vera. No, non è nemmeno così sanguinolento come vogliono farci credere.
Quindi The Blair Witch Project fu solo una grande trovata pubblicitaria?
No, fu molto più di questo e la sua eredità è ancora ben presente nella cultura pop.
Innanzitutto, diamo a Cesare quel che è di Cesare: ai due registi del film – Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez – va riconosciuto il merito di aver preso tutta la sottocultura degli snuff movies, dei mockumentary e delle leggende metropolitane e averla frullata in una salsa horror da manuale. Ricordo ancora oggi alcune scene del film (quella delle mani sulla tenda ancora mi terrorizza prima di chiudere gli occhi in campeggio) e non possiamo certo negare che le tre parti in cui è composto il lungometraggio non siano equilibrate tra di loro, in un ideale piano inclinato che da un certo punto in poi corre verso la fine.
Anche la scena finale, con la macchina da presa al suolo, l’inquadratura sbilenca e la luca fioca ha gli innegabili pregi di lasciare lo spettatore con l’ansia della risposta mancata, di legare il pubblico alla volontà di saperne di più e di scatenare dibattiti e discussioni (anche sui forum, bei tempi) su cosa volesse realmente significare.
Se il film ti segue anche dopo che le luci si sono accese, diciamo la verità, vuol dire che è stato un buon film.
Se poi il film in questione è talmente potente da generare un’eredità ancora forte dopo venti anni, allora è stato seminale.
In questo, The Blair Witch Project ha definito i canoni del found footage moderno: l'occhio della telecamera che diventa il punto di vista dello spettatore, dando spesso una visione parziale della storia ma proprio per questo funzionale alla trama. Il girato in soggettiva - per la quasi totalità del film - che aumenta ancora di più l'immedesimazione dello spettatore, io quale soffre di mal di mare per le inquadrature mosse e vive la paura di non sapere cosa viva e si nasconda alle spalle del protagonista - e, quindi, alle sue. Infine la bassa qualità delle immagini, la mancanza di luce e l'effetto sgranato, che hanno fatto la fortuna di tutti i video cospirazionisti della storia e che forniscono la giusta suggestione del vedo/non vedo che in un bosco tetro produce subito un terrificante prurito alla base del collo.
Perché, allora, non ci meritiamo The Blair Witch Project?
Perché il primo The Blair Witch Project è paragonabile all’imprenditore talentuoso che riesce ad accumulare una fortuna: tutto quello che è venuto dopo, invece, sono gli eredi che dilapidano tutto il suo lascito e finiscono a fare le comparsate in televisione per racimolare i soldi per arrivare alla fine del mese.
Non tutti i suoi eredi, sono stato troppo crudele. Diciamo una buona parte.
Di esempi negativi ne abbiamo a bizzeffe, basta puntare il dito a caso sugli elenchi di film horror degli ultimi quindici anni per pescare decine di titoli che hanno provato a basare il loro successo sulla combinazione telecamere a mano e basato su una storia vera (wink wink!).
Partiamo dai sequel: Il libro segreto delle streghe, del 2000, e Blair Witch, del 2016. In entrambi i casi né i registi né gli attori né gli sceneggiatori o ogni altro tecnico coinvolto sono riusciti a ricreare la magia del capostipite, limitandosi a rifare il compitino aggiungendo ulteriori spunti poco originali (tra l’altro il film del 2016 fu protagonista di una querelle tra il regista e la produzione riguardo al montaggio finale che uscì in sala).
La sfortuna di girare un sequel di un film che ha fatto scalpore e ha raggiunto il successo deve essere già di per sé abbastanza dura da sopportare. Se poi il film girato non è all’altezza, il fardello diventa insopportabile. È il caso dei registi di Rec 2 e Rec 3 e di tutti i sequel di Paranormal Activity – ben 4 film, mica pizza e fichi. Anche Alien: Origin – mockumentary di Prometeus (quindi col materiale di partenza già fallato) ha avuto la sua giusta dose di critiche negative.
Rimando sulle opere prime, invece, come non citare, poi, V/H/S, girato come una serie di cortometraggi horror infilati però in un contenitore che faceva acqua da tutte le parti? Oppure ESP - Fenomeni paranormali, una produzione horror canadese/statunitense, che scimmiotta i video degli youtuber che si infilano nei posti abbandonati per fare qualche visualizzazione in più? Se li avete visti, sapete di cosa sto parlando. Se non li avete visti, bravi, continuate così.
Il vero problema è stato l'abuso dei topos tipici del genere found footage horror: nel momento in cui i registi e i produttori hanno cominciato a esser convinti che un girato dalla mano incerta, una finta storia vera, un bel mix di leggende metropolitane e una buona campagna di marketing fossero elementi sufficienti a sopperire la mancanza di trama, attori decenti e montaggio dignitoso, eravamo già all'ennesimo film fotocopia. In più, nel corso degli ultimi venti anni la rete ha fatto passi da gigante e il passaparola di un tempo - che al massimo raggiungeva una cerchia ristretta di amici - è stato istituzionalizzato da siti specializzati e iperprofessionali.
Oggi, diciamoci la verità, nel momento in cui esce un trailer qualsiasi, possiamo sapere all'istante vita, morte e miracoli di ogni aspetto della produzione del film in questione.
Addio effetto sorpresa, benvenuto XXI secolo.
Sul fronte opposto, quando al genere found footage è stata aggiunta un’idea originale o un nuovo punto di vista – cosa che fecero vent’anni fa proprio Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez – sono nati dei piccoli capolavori. Peccato che questa combinazione sia avvenuta pochissime volte.
È il caso di Cloverfield, di J.J. Abrams. Il film, interamente girato come se fosse una ripresa amatoriale di una serie di ragazzi in fuga da un un’invasione aliena, ha avuto il merito di alzare di nuovo la qualità del genere, creando un universo coerente e un film assolutamente godibile. Poi J.J. ha voluto strafare con il suo universo espanso ma questo è un altro discorso.
Nello stesso anno, gli amanti dei film di zombi hanno potuto ammirare Rec, produzione spagnola che ha fatto tanto parlare di sé per la crudezza delle immagini e la capacità di coinvolgere lo spettatore. Sempre per rimanere a tema zombi, anche il maestro George Romero ha voluto cimentarsi col found footage: nel 2007, infatti, ha tirato fuori Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi, quinto film dell’esalogia sui morti viventi inaugurata nel 1968 (ne abbiamo già parlato qua).
Vi lascio con un altro spunto positivo: visto che abbiamo parlato di snuff movies, found footage e compagnia cantante, non posso non citare A serbian film, del 2010. In questo caso il termine disturbante non è usato a caso e non si riferisce a spiriti, streghe e morti viventi. Il regista, Srđan Spasojević, è riuscito a tirare fuori un film che potete vedere solo se avete lo stomaco forte e siete preparati sia sull’argomento cinema horror che sulla guerra che infiammò i Balcani agli inizi degli anni ’90.
Come per Cannibal Holocaust, che fece scalpore nel 1980 e per The Blair Witch Project, che fece fortuna nel 1999, così a Serbian film farà parlare di sé ancora a lungo.
Ma questa è un’altra storia.