Super Mario Odyssey: un gioco per bambini che fa piangere anche gli "adulti"
La nostalgia canaglia colpisce tutti, anche quando ci si ritrova tardivamente a vivere Super Mario Odyssey e a riscoprire la propria infanzia nintendosa.
Sì, sì, lo so, sono già passati due anni (quasi esatti, tra l’altro) dall’uscita di Super Mario Odyssey ma perdonatemi, ci sono arrivata solo ora perché ho comprato tardi Nintendo Switch e mi sono infognata prima con Pokémon Let’s Go Eevee. E no, non riesco a giocare a due giochi contemporaneamente nonostante io sia una donna, e quindi multitasking per natura (risate sessiste in sottofondo). Ah, forse il fatto che io sia una donna mi rende, però, automaticamente una pippa nel giocare i videogiochi? Forse, almeno secondo gli stereotipi che ancora aleggiano online.
Dopo aver battuto la Lega e catturato con la MasterBall quel balordo di Mewtwo che proprio non si lasciava battere, ho deciso di lasciar perdere il completamento del Pokedéx (chepppalle) e abbandonare i miei amati Pokémon per un altro gioco che avevo appena acquistato, Super Mario Odyssey: me l’avevano consigliato molti amici che già possedevano una Switch e, senza nemmeno vedere trailer o gameplay su YouTube, l’ho ordinato su Amazon e l’ho iniziato quasi alla cieca.
Inutile e pleonastico dire che l’ho adorato alla follia e sono rimasta piacevolmente colpita (non sorpresa, perché da Nintendo mi aspetto sempre grandi cose), e i motivi sono innumerevoli: sicuramente una grafica e un gameplay creativi e super ingaggianti. Ma la cosa più bella è che ho vissuto quella nostalgia da magone post-infanzia Nintendiana, unita però ad un entusiasmo per le nuove dinamiche.
Noi nati negli anni ‘80-’90 soffriamo di una bruttissima sindrome abbastanza comune, chiamata “Sindrome dell’orfano da Nintendo 64”. Per lo meno, io non ho ancora trovato una console che mi faccia sognare ed emozionare come quando inserivo la mia cassettina dentro al cassettone plasticoso e impugnavo quella specie di manubrio ragnoso chiamato controller. Per gli amanti di Nintendo, soprattutto N64, la Switch è stata una manna dal cielo e ciò che più si avvicinava ai nostri sogni infantili infranti (anche se lontana anni luce dai bei pomeriggi passati a giocare a Banjo Kazooie o Donkey Kong 64), e Super Mario Odyssey è stato il gioco perfetto per rivivere quelle sensazioni, dedicato a noi che ci facciamo ancora le pippe pensando a Super Mario 64.
Vero è che la facilità nel finire Odyssey forse lo fa calare di qualche punto: ci si sente quasi degli adulti che stanno rubando l’innocenza a dei bambini, pensando “Come? tutto qui? Ho DAVVERO finito il gioco battendo Bowser la prima volta che lo provo ad affrontare?”. Questa sensazione, personalmente, non l’avevo mai provata con Mario 64: sarà che ero piccola, sarà che erano altri tempi, ma c’erano alcuni livelli (soprattutto quello sott’acqua, mia kryptonite in qualsiasi gioco) che ho sempre trovato quasi insormontabili, e che ho dovuto riprovare almeno un centinaio di volte prima di riuscire nell’impresa. O prima di abbandonarla definitivamente: ebbene sì, non ho mai finito il gioco prendendo tutte quante le stelle dorate a differenza dei miei fratelli collezionisti di astri. Me ne vergogno molto.
In cerca di una console che mi faccia sognare ed emozionare come quando inserivo la mia cassettina dentro al cassettone del N64
Comunque, la sensazione di giocare in un mondo nuovo, colorato, bellissimo nelle sue insidie, rimane intatta in Odyssey e ci fa scendere una lacrimuccia nostalgica. Quando batti il boss finale c’è persino un follow-up del gioco ambientato nel castello di Peach, con la possibilità di entrare nei quadri che si squagliano e di scalare le torri, la stessa vetrata del passato e addirittura Koopa Troopa che ti aspetta lì, serenissimo, nel giardino come se non fosse passato neanche un giorno… c’è da dire altro?
Con Super Mario 64, Mario Kart, Mario Party e Mario Galaxy ci eravamo già abituati a tutto: colori sgargianti, stelline che luccicano, strade fatte di arcobaleno, mostri fantasiosi e musiche che dire catchy era quasi un’offesa. Ne abbiamo viste e sentite di ogni, ma Nintendo continua a sorprenderci: ogni mondo di questo gioco è caratterizzato da personaggi fantasiosi, ambientazioni originali e colonna sonora pazzesca, ad opera di Naoto Kubo, Shiho Fujii e Koji Kondo. Alcune ambientazioni riprendono quelle di Mario 64 (il deserto, l’acqua, la neve con anche il mini pinguino del meme “Don’t talk to me or my son never again”… quanti ricordi), altre sono completamente nuove. Personalmente questa varietà sempre sorprendente è una delle cose che mi è piaciuta di più nel gioco, insieme al cappellino lanciabile, che ti permette non solo di colpire i nemici, ma anche di impersonare tantissimi personaggi solamente scagliandoglielo addosso.
Una delle cose che secondo me è additabile come effetto “WOW CHE FIGATA” e che mi ha sorpreso moltissimo, è sicuramente il finale. Sappiamo tutti che Peach è stata additata, negli ultimi anni, come la principessa “anti-femminista” per eccellenza: lei sta nel suo castello, immobile, quasi muta, ad aspettare che qualcuno faccia il lavoro sporco per lei ed elimini il cattivone del gioco. Solo così l’eroe potrà avere accesso al suo cuore e al bacio della principessa. Lei non parla, non agisce, aspetta e basta, e non si scoccia nemmeno nel farlo.
In Super Mario Odyssey per fortuna non è più così, o per lo meno, non del tutto: Peach viene sì rapita da Bowser, come una sorta di moderno King Kong, ma, una volta salvata dall’eroe-idraulico dal cappellino magico, questo non basterà a conquistarla, tutt’altro. Peach, pressata in egual modo sia dal mostro che da Mario, tirata dalle braccia e corteggiata fino alla nausea con doni e regalucci, alla fine compirà una scelta inusuale: lascerà i due combattenti a litigare, mentre lei, con una visibilissima rottura di cocones, salirà sulla sua nave volante con la sua ancella-cappello, abbandonando i due malcapitati con la bocca asciutta e la serata in bianco. Essere salvata, nella narrativa di Odyssey. non significa più essere un oggetto dipendente dalle mani del buono o del cattivo di turno, ma fare quello che si vuole senza dover donarsi a qualcuno che non si accontenta di un ringraziamento verbale.
Che dire: un finale eccezionalmente nuovo in quella che è stato più o meno sempre una favoletta in cui il valoroso eroe amante dei tubi veniva obbligatoriamente ricambiato del proprio sentimento, riprendendo un po’ il dantesco “Amor, ch'a nullo amato amar perdona” nella chiave del Regno dei Funghi.