Sanremo 2023 - La trattativa
Il festival di Sanremo è senza ombra di dubbio l'evento televisivo più importante dell'anno, e come ogni anno siamo sempre qui, piazzati davanti al primo canale, un po' per FOMO, un po' per capire da che parte tira il vento.
Come ormai da consuetudine ogni fine Sanremo è impossibile non fermarsi un attimo a guardare indietro, a raccogliere i pezzi sparsi in queste cinque serate del festival musicale più importante d'Italia.
Togliamoci subito il pensiero: mai come quest'anno la musica è irrilevante allo svolgimento dell'evento e quindi ininfluente per le sue discussioni postume.
Sanremo non parla di musica. Sanremo parla di tracciare un confine, la differenza che passa tra ciò che e dentro e ciò che è fuori un determinato ambito di rilevanza per la cultura popolare italiana più bassa, non nel senso della forma o del messaggio, ma dal punto di vista della trasversalità, in un dialogo tra chi sa, chi non sa.
Sanremo non setta un trend. Sanremo è comunicazione di regime.
Ogni anno dietro le quinte avviene la selezione delle tematiche, delle "emergenze cultuali" che il Paese ha bisogno di assimilare. Il Presente, come emanazione del più complesso e stratificato Contemporaneo, presenta una serie di sfaccettature e complessità che il pubblico timorato di Dio, che lavora e che vota per il partito di maggioranza e che alla sere vuole solo "staccare la spina" davanti uno schermo deve comunque assimilare per decodificare la realtà. Esattamente come i primi anni di attività della RAI si sono interessati ad alfabetizzare il pubblico col maestro Manzi in Non è mai troppo tardi, esperimento scientifico vero su cosa potesse e non potesse fare la televisione e come questa agisce sul suo pubblico.
Sanremo rappresenta un rituale collettivo nel senso stretto del termine.
C'è un officiante, c'è una liturgia, c'è una formula che viene decisa da un concilio ogni anno ma che resta sempre molto simile a sé stessa con punti fissi inalterabili, una scansione regolare dell'evento secondo la quale è previsto anche l'imprevedibile. E quando non c'è imprevisto lo si crea a tavolino (un saluto a Pippo Baudo), in rispetto della liturgia, da quando il colpo di pistola che si sparò Luigi Tenco, a riprova che lo spettacolo va avanti, più forte di tutto.
In questo rito il pubblico non ha mai una parte inattiva, è allo stesso tempo spettatore e divinità da appagare, come la brama di sangue del Moloch di Cabiria, un ideale più alto, superiore alla somma dei singoli.
Sanremo è quello che succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile.
Da una parte c'è la musica, compartimentazione in generi del Presente, artisti scelti per farsi carico di un sentimento che diventa narrazione, un messaggero sacrificale che in re riassumete tutta una categoria di artisti in un range di similitudine, lanciati sul palco e fatti scontrare tra di loro nel più fulgido esempio di democrazia diretta che il nostro paese conoscerà mai (si vota più per Sanremo che per le politiche, se non per il fatto che il festival si tiene ogni anno), accompagnati da ospiti "storici" (o storicizzati) in odore di gerontocomio (quando non di camposanto) con il compito di fare da buttadentro per chi, magari, un nome come Elodie non dice niente ma alla riunione dei Pooh (la più grande rock band italiana).
Gli artisti rappresentano lo zeitgeist, incarnazioni dello spirito del tempo.
Dall'altra parte l'organizzazione del festival è il potere consolidato, mutevole, a volte volpe, a volte leone, capace di adattarsi per restare sempre uguale. Il suo compito è tracciare la forma che deve assumere il presente che scorre attraverso di esso. Gli artisti, come anche i Governi, vanno e vengono, a volte ritornano in ginocchio (da te) a rendere omaggio alla macchina, il Festival è qui per restare.
Sanremo è uno, ma nella narrazione popolare assume molteplici forme: l'orchestra, il pubblico, la giuria demoscopica, la giuria di qualità, il direttore artistico, il presentatore. Gerarchie e conciliaboli, figure e organi in apparente contrasto solo per simulare una parvenza di conflitto.
Sanremo ha un solo scopo, essere il Sistema.
Non ci sono concorrenti, non ci sono polemiche, lo scopo di quel palco è normalizzare, tenere tutto dentro, il normale e l'anomalia, lo strano e il conforme, la maggioranza e l'opposizione, perché non puoi mai essere contro Sanremo mentre sei su quel palco, sei colluso in quanto prestato al gioco, all'inizio magari anche sentendoti lusingato, pensando che magari, questa volta, sul palco qualcuno potrà fare la differenza, e invece anche la differenza è pesata, misurata e inglobata.
"Ogni resistenza è inutile" citavo per l'edizione dello scorso anno.
In questo scenario, Amadeus è l'uomo della Provvidenza, la sua missione è quella di stemperare, normalizzare e svilire qualsiasi sacca di resistenza all'egemonia culturale imperante, arrivato in un momento storico in cui Sanremo teneva alcune cose fuori, aprendo il palco dell'Ariston ai Millenials.
Arrivati al penultimo anno del suo mandato gli effetti si vedono tutti. Nel giro di quattro anni la "stranezza" è completamente svanita dal palco.
Nessuna esibizione brillante, nessuna locura.
Gli artisti che hanno vinto in questi anni hanno subito un moto parabolico diventando quello che il festival ha voluto che fossero. Mamhood, i Maneskin, Blanco, sono tutti stati assorbiti dal successo, arrivati al grande pubblico e resi identificabili. Dati in pasto ad un pubblico troppo più grande di quello della propria bolla fino a diventare altro, senza possibilità di tornare indietro.
Nessuno si scandalizza più per i tatuaggi di Achille Lauro, o per le performance dei Maneskin, o per i testi di Blanco perché il rituale sanremese ha avuto successo e quelle gioventù, quelle diversità, sono stati rese comprensibili al pubblico. Hanno ricevuto la pacca sulla spalla da Gianni Morandi, l'approvazione della patriarcale autorità superiore e ciao.
Il "caso Blanco" in questa interpretazione degli eventi è l'equivalente di un'esecuzione capitale.
La dimostrazione che il pubblico dell'Ariston che l'idolo eletto a furor di popolo l'anno scorso (e la cui eco è ancora forte nella cultura di mossa, ricordata attraverso la martellante pubblicità di Spotify ad ogni intervallo) ha le gambe di argilla, tramite una serie di movimenti fraintesi, sfociando nel "vai a cacare" urlato del pubblico, perché se c'è qualcosa di più bello che glorificare qualcuno è vederlo cadere, mentre con candore da ragazzino e la completa estraneità da quell'ambiente, lui voleva solo cantare di nudes, paste e sfasciare composizione floreali fatte apposta per essere sfasciate. Nella completa omertà di Amadeus che dichiarerà poi "non so doveva fare qualcosa con le rose".
Il processo di assimilazione culturale non avviene solo sulla musica ma su tutto, cosichè è il turno che anche Instagram sia sdoganato al pubblico della RAI, con un volto che dopo averli accompagnati col gioco a premi della prima serata di RAI1, li traghetta verso un'esistenza di analfabetismo funzionale su un social ormai morente e irrimediabilmente commercializzato, a fare numero spendibile verso qualsiasi agenzia di comunicazione.
Come anche Morandi che spiegando male il significato del termine Boomer ne altera per sempre il significato.
Il monologo di Angelo Duro è un altro esempio di come agisce il festival sul piano comunicativo. Quando qualcosa arriva su quel palco anticipando che il prossimo contenuto a cui il pubblico sta per assistere è fatto apposta per "scandalizzare" si ottiene l'effetto opposto, così come gli inviti a cambiare canale, o le polemiche anticipate settimane prima accoppiate all'annuncio di concorrenti ed ospiti: il pubblico ha il tempo di assimilare quella polemica e farla propria cosicché arriverà preparato sapendo già cosa sta per vedere e quanto quello sarà conforme all'idea di quella cosa che si è fatto.
Come per lui, gli altri monologhi, un format ormai sdoganato e futile nel suo tentativo di infilare un contenuto standardizzato dal testo preapprovato all'interno di un contenitore ma che, per istanze comunicative e perché nessuno vuole offendere il gentile pubblico di casa, piazzato sottovoce, ad orari improbi per non svegliare lo spettatore medio a cui il monologo è rivolto mentre è riverso addormentato sul divano a causa della durata estenuante della trasmissione.
Il festival dell'anno scorso poteva ancora essere considerato ecumenico, potevi ancora riconoscere, sviliti, i generi di appartenenza dei vari artisti. Ora non c'è più niente.
Una dimenticabile serie di canzonette tutte uguali su cuore e amore, in cui le singole identità spariscono in nome del bel canto. Un sistema che ricompensa il più conforme, il più "sanremese".
Non c'è niente di cui stupirsi perché se il festival è questo è anche colpa nostra, ironisti da tastiera, mematori dell'internette uniti dall'aspirazione di diventare protagonisti di un momento, cavalcare lo spirito del tempo e avere i nostri 15 minuti di celebrità per la battuta più fulminante o il meme più epico lanciati contro il treno del festival che si vorrebbe veder deragliare.
E non serve nemmeno barricarsi dietro una parvenza di superiorità morale e intellettuale rimarcando di quanto Sanremo non lo si guardi, con l'unico effetto di risultare anacronistici e scollegati dal presente.
In un modo o nell'altro abbiamo contribuito a rafforzare la posizione dello status quo, rivelatosi impermeabile a tutte le decostruzioni, pascendo delle sue stesse macerie.
Definitivamente, non il festival di Sanremo di cui abbiamo bisogno ma il festival che ci meritiamo.
Vuoi saperne di più? ascolta lo speciale di Cap & Tanz in the morning.
La mia playlist di Sanremo 2023.