Budella, sangue, mutilazioni, mostri, nessun tipo di tutorial, nessuna pietà per il giocatore, nessunissima voglia di spiegargli le cose, tenerlo per mano e gratificarlo senza motivo. Moonstone A Hard Days Knight (gioco di parole volutissimo sui Beatles) era questo, che ti andasse bene oppure no, ma era anche assurdo, visionario e geniale, forse per questo rimane tutt’ora uno dei vecchi giochi più venerati da chi possedeva un Amiga.
C’è stato un periodo in cui le console erano Disneyland e i PC erano la sala giochi malfamata in cui ti offrivano la droga tra una partita e l’altra ed era bello così.
Prima che Mortal Kombat arrivasse sul Megadrive, le console erano tendenzialmente mondi puccettosi in cui il sangue non esisteva, i mostri sparivano una volta uccisi e tutti erano felici. Gli sviluppatori erano bloccati da accordi che vietavano la violenza in ogni modo, così da garantire un divertimento sano per tutta la famiglia.
I PC invece da anni se ne sbattevano allegramente di ogni tipo di restrizione e proponevano tranquillamente gli infilzamenti di Prince of Persia, le teste mozzate di Barbarian, i denti saltati di SpeedBall 2 e una cosetta chiamata Doom. All’epoca ancora nessuno parlava di “videogiochi violenti” nè dei possibili danni per le giovani menti, anzi più violento era il gioco, più avevi amici che venivano da te per giocarci omagari farselo passare con XCopy mentre facevi merenda.
Era anche l’epoca in cui non ti chiedevi se un gioco era difficile. Tutti i videogiochi erano difficili, perché erano basati sul concetto di spillare quattrini ai ragazzini, inoltre le storie erano quelle che erano, i mezzi a disposizione pochi, quindi la difficoltà era il modo miglior per far sì che un gioco durasse di più.
Moonstone rappresentava la summa di questi due filoni, non era assolutamente interessato a farti stare bene, se non quando avevi sterminato con successo un’intera popolazione di ratti mannari, i quali altrimenti ti avrebbero impiccato con la loro coda.
Anche l’interazione con gli altri giocatori non era in alcun modo improntata verso la collaborazione. Se incrociavi il tuo cammino con un altro cavaliere controllato dal PC o da un amico dovevi ucciderlo e rubargli qualcosa. Volendo potevi anche tagliarli la testa dopo averlo abbattuto. Un gesto inutile e puramente estetico creato con l’unico scopo di umiliare l’avversario. Perché così è la vita.
Ma cosa era Moonstone? Fondamentalmente il progenitore di Dark Soul e di molti titoli action rpg in cui ti vesti in armatura per fare a pezzi mostri sempre più grandi, raccogli oggetti e cerchi in qualche modo di capire come usarli. Un titolo che nel ’91 riusciva a mescolare lo spirito dei giochi da tavolo, un buon sistema di combattimento, generazione casuale dei nemici, un sistema di loot, equipaggiamento e progressione del personaggio, un sacco di mostri e la buona sana vecchia ultraviolenza.
Scopo del gioco è trovare quattro chiavi che sbloccano l’accesso per l’area al centro della mappa in cui potremo sconfiggere il mostro finale e recuperare la famigerata Moonstone. Detta così sembra facile, la realtà è più vicina a una macelleria con scarsissime norme igieniche da cui devi uscire nudo e bendato senza beccarti un’infezione.
Prima di iniziare bisogna scegliere uno dei quattro cavalieri, completamente identici tra di loro, tranne nella zona di partenza. La mappa del gioco infatti è divisa in quattro ecosistemi differenti. Ci si muove a turno, ci sono città in cui commerciare, cumuli di pietre in cui fare sacrifici per ottenere più forza e soprattutto dei punti che possiamo visitare con uno scopo molto semplice: uccidere tutti. Queste zone sono infatti popolate da mostri totalmente casuali che variano in base all'ambiente di riferimento e che hanno come unico scopo nella vita procurarci la morte nel peggiore dei modi possibili.
Scavando nella memoria ricordo: troll in armatura che ti impalavano con lance lunghissime, mostri di fango che ti affogavano, alberi viventi che ti stritolavano, centauri che ti schiacciavano la faccia, enormi uomini lupo che ti mangiavano vivo, leoni cornuti che ti infilzavano, giganti che ti spiaccicavano con un bastone e, appunto, i famigerati ratti mannari che ti saltavano addosso e che si appostavano su un ramo per cercare di impiccarti.
Ogni colpo a segno faceva spillare sangue, che restava sul terreno, così come ogni nemico morto, che in alcuni casi veniva diviso in due dai nostri fendenti, stramazzava al suo zampillando sangue come in un film di samurai o cadeva semplicemente in una pozza di sangue. Il numero dei nemici era commisurato alla loro forza, più erano deboli più erano numerosi, in alcuni casi il risultato al termine dello scontro era una vera e propria carneficina in cui non si vedeva neppure più il terreno.
Ah tanto per gradire, c’era anche un drago che ogni tanto svolazzava sulla mappa e attaccava i giocatori, ucciderlo era un’impresa, ma ti garantiva un sacco di pozioni, oggetti magici e altre amenità. Finire Moonstone era un’impresa che poteva durare anche poco, perché se ti capitavano mostri troppo potenti quando eri ancora all’inizio potevi giusto goderti un decesso spettacolare e sprecare una delle vite a disposizione.
Eppure, nonostante i suoi incredibili meriti, quando qualcuno snocciola i suoi giochi preferiti su Amiga, Moonstone non è mai tra i primi. È la classica cosa che ti piace, ma che non ti ricordi subito, come un vecchio tormentone estivo, come quel libro che hai letto in vacanza 20 anni fa ed è ancora sporco di sabbia, come quel tizio con cui eri amicissimo alle medie e ora non ricordi che faccia avesse.
Forse è solo il tempo, o forse Moonstone è nascosto tra le pieghe del cervello perché qualcosa dentro di te sa che non dovrebbe piacerti così tanto a dieci anni sterminare trenta ratti mannari e poi esultare mentre il loro sangue ti arriva alle ginocchia, quindi preferisce tenertelo nascosto.
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