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Più Libri Più Liberi: i cinque anni di Charles Brandt spesi per The Irishman

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I retroscena di The irishman di Netflix raccontati dall'autore Charles Brandt, il quale ha speso cinque anni della sua vita conversando con Frank.

The Irishman è un film di indubbio successo e caratura, specialmente perché coinvolge alcuni grandi del cinema nel tentativo di raccontare un vero spaccato di storia americana. Pochi però conoscono i retroscena della pellicola di Scorsese, specialmente in relazione a quella che è stata la lunga stesura del libro da parte dello scrittore, investigatore e procuratore Charles Brandt.
Per fortuna però l’organizzazione di Più libri Più Liberi, il festival della piccola e media editoria di Roma, ha invitato l’autore direttamente alla Nuvola per parlare della sua opera, a fronte dell’uscita del film e dell’omonimo libro ri-pubblicato da Fazi Editore. L’autore è stato presente in due talk: uno spontaneo all’interno della cornice di Fahrenheit nello spazio Rai/Radio3, mentre l’altro – quello principale da programma – si è tenuto proprio nel palco più grande con la presenza anche di Pif, altro personaggio collegato alla narrazione delle vicende mafiose.

Ciò che ti colpisce di Charles Brandt è la facilità con cui parla di un processo durato anni e anni, dei quali 5 sono stati spesi in lunghi interrogatori e discussioni con lo stesso Frank. Il racconto, narrato e interpretato da Robert De Niro nel film, è un lungo susseguirsi di omicidi, criminalità e collegamenti con alcuni degli eventi più importanti della storia americana, nonché con la vita politica e quella della malavita.

Tutto questo, come afferma lo scrittore, è venuto fuori attraverso un approccio empatico in cui si è cercato di far accettare a Frank il fatto che si sarebbe potuto liberare del peso che lo attanagliava, trattandolo con cortesia e sottolineando il fatto che a ogni rivelazione, anche la più piccola, era un sollievo. Parole che nel libro sono riassunte nel concetto dell’anima e del cuore che combattono contro tutte le cellule del corpo, intente a tenere la bocca cucita.

Se consideriamo con chi aveva a che fare Brandt, il risultato vivibile nelle pagine scritte di suo pugno è sorprendente, specialmente perché durante tutti quegli anni la mafia era ancora attiva nonostante si avviasse a quel processo di decadenza che ormai le apparteneva. A Frank sarebbe bastata una chiamata, come le tante che faceva al principale boss della Pennsylvania, quello succeduto a Bufalino, e dire una frase apparentemente innocua come “imbianchi le case” per mandare un ordine con cui uccidere Brandt, il quale comunque ricevette anche qualche minaccia non proprio velata.

Eppure ciò non avvenne, anzi Brandt ha raccontato alla platea che Frank aveva mentito ai suoi compagni proprio per evitare che comprendessero che lo scrittore stava facendo un libro proprio sul coinvolgimento della famiglia Bufalino nel caso Hoffa, depistandoli dicendogli esattamente l’opposto.

Il metodo di Brandt ha infine funzionato sotto ogni aspetto, nonostante abbia incontrato non poche difficoltà nel momento in cui si toccava l’argomento della seconda guerra mondiale, sul quale Frank era chiaramente molto suscettibile. Ogni volta che si menzionava il conflitto o gli si chiedeva di rispondere di ciò che aveva fatto sotto il generale Patton, si alterava e chiudeva ogni canale comunicativo con lo scrittore, sbraitando e minacciandolo.

Del resto è comprensibile, specialmente se si guarda a come le conoscenze della sua esperienza di guerra lo hanno aiutato nell’imbiancare le case per i suoi datori di lavoro, qualcosa che è resa chiaramente nel film fin dai primi momenti e nel modo in cui risolve alcune situazioni spinose. Nonostante l’evidente livore del mafioso, Brandt continuò a insistere sulle debolezze di Frank con l’ausilio di esperti bellici e veterani di guerra per riuscire a “metterlo all’angolo” e fare leva sul senso di colpa che provava per tirare fuori informazioni vitali per il resoconto della sua vita.

Da un lato la descrizione di Brandt apre le porte a un approccio spiccatamente umano, che va ben oltre la dialettica poliziotto-condannato in favore di una prospettiva pietistica. Il suo lavoro è infatti spesso stato rivolto a condannati alla pena capitale o a ergastolani che non sarebbero mai più usciti di prigione, bisognosi di trovare conforto e togliersi i pesi prima di passare all’altro mondo. Un frequentatore della malavita potrebbe vedere questo sentimento come il più alto tradimento verso i compagni di una vita, tuttavia dall’altro lato del pensiero è invece la liberazione finale, l’ultima possibilità di redenzione per andarsene in pace senza rimpianti.

La stessa che Brandt ha offerto a Frank, colta nella sua interezza ed espletata nella morte spontanea e volontaria dell’irlandese, il quale disse al figlio che “stava timbrando il cartellino” prima di decidere di non mangiare più. Ciò avvenne immediatamente dopo aver confessato ogni cosa a Brandt, in un momento storico che ormai segnava la fine della mafia italo-americana come l’America l’ha conosciuta.

L’intimità del racconto di The Irishman è un qualcosa che anche nella pellicola si fatica a vedere, non tanto perché manchi qualcosa all’esecuzione quanto perché quei cinque anni passati a stilarlo sono stati pregni di silenzi, riflessioni, mutazioni e indagini nel fondo più basso della criminalità, un peso che Brandt ha dovuto sopportare per il bene della singola verità dietro quel vecchio uomo ormai malandato. Cinque anni nella mente del criminale, senza scavare ma grattando gentilmente la superfice fino a togliere strato dopo strato, assorbendone l’impatto psicologico e trovando conforto sulla spalla dello stesso criminale che si interroga.

Ed è qui che The Irishman si conferma essere un racconto estremamente delicato: nei piccoli dettagli, nelle inquadrature in cui si vede Frank fermo a riflettere, nel momento in cui difende la figlia, nelle mura della sua casa e dentro la cabina della macchina che utilizzava. Uno spettacolo che non mira all’empatia, non ci fornisce una glorificazione dello stile mafioso, bensì racconta l’odissea moderna di un uomo che ha sempre cercato di convincersi di non essere uscito distrutto dalla sua vita.

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