Non c'è uscita dal Planet Sangre.
"Il pianeta Sangre" di Norman Spinrad è uno dei "classici maledetti" della SF, una storia cupa e inquietante, una discesa negli inferi della fantascienza sociologica.
Poco prima della stretta per la seconda ondata di Covid ho fatto un giro in un mercatino antiquario, uscendo dal lavoro. C’era l’inquietante clima di sospensione proprio di questi nostri strange days. Non sapevo ancora con certezza che nei prossimi tre mesi saremmo tornati nella bizzarra distopia della didattica a distanza, che mi fa sentire in una puntata di Black Mirror, magari in un sequel dell’episodio Archangel. Tuttavia qualcosa era nell’aria. Indagavo curioso tra i libri dei banchetti più raffazzonati, consapevole che era qui che avrei potuto fare qualche trouvaille gustosa: gli stand più seriosi avevano prezzi ragionevoli ma più alti, da non giustificare l’acquisto casuale, compulsivo, e comunque tematiche lontane dai miei interessi pop. Recupero qualche fumetto, ovviamente, e poi lo vedo. Il Pianeta Sangre.
Norman Spinrad era una mia personale fissazione negli anni dell’università, quando cercavo di farmi un quadro il più possibile completo della storia della fantascienza. Eravamo in tempi ancora pre-internet, almeno per me – nel mio collegio universitario sarebbe arrivato nel 1996, al mio terzo anno – e quindi la mappatura procedeva faticosa. Spinrad poi aveva fama di autore maledetto, e a differenza dei classici, che avevo trovato agevolmente in varie biblioteche e in parte in acquisto, non trovavo quasi nulla di lui pur trovandolo spesso citato come geniale ed estremo a un tempo.
Ero riuscito solo a ritrovare “Il signore della svastica” (The iron dream, 1972), che all’inizio pensavo affine a “La svastica sul sole” di Dick. Opera eccezionale nello sviluppo, che mi aveva affascinato per l’altissima qualità ma, in sé, non stupito per il tema: “se Hitler avesse vinto la guerra” era in fondo la più classica delle ucronie distopiche (lasciamo da parte il fatto che Dick, nel suddetto “The man in the high castle”, la sviluppa divinamente).
“Il signore della svastica” invece mi lasciò turbato. Come penso molti lettori sapranno, Spinrad immagina un Hitler ucronico che diventa autore di cover di pulp fiction e poi autore di fantascienza. Il romanzo è così disturbante che, come noto, venne proibito a lungo in Germania per il suo essere un apologo del nazismo. Ovviamente, quello che fa Spinrad, di idee libertarie, è l’opposto: una feroce satira del fascismo, ma scritta in modo di essere sanamente disturbante per il suo lettore. In tutta la fantascienza antitotalitaria, ci mettiamo solitamente dal punto di vista di un oppositore al regime dispotico: e se possiamo soffrire che Winston Smith in 1984 alla fine ceda e finisca per amare il Grande Fratello, comunque le sue idee iniziali sono in sintonia con noi lettore (si spera).
Qui Spinrad ci tuffa di fatto nella mente di Hitler, o almeno una sua credibile ricostruzione. Ed era un luogo inquietante, particolarmente disturbante se si avevano alcuni rudimenti di psicologia applicata all’analisi letteraria, riconoscendo tutte le turbe psichiche, i desideri fallici e le frustrazioni celate sotto quella rutilante fantascienza spaziale. Perché ovviamente era quello l’insopportabile: “de te fabula narratur” dice implacabile Spinrad al lettore di pop culture. Lo dissimulerai anche seguendo i grandi che lo imbellettano di raffinatezza sociologica e di estrapolazione tecno-scientifica impeccabile, ma in te c’è comunque qualcosa di affine a questo Hitler nerd – nella peggiore concezione del termine anche se, per paradosso, siamo in una ucronia positiva: in questa dimensione egli trova un modo relativamente innocuo di canalizzare le sue pulsioni di morte.
L’opera ebbe una sua importanza, forse anche nell’attenuare in me il fascino del versante più muscolare della science fiction, negli anni (come del resto naturale processo di crescita, penso), anche quella chiaramente più abilmente dissimulata. Ma mi stimolò ovviamente ancor più a cercare le altre opere: tra queste, Il pianeta Sangre, che da annotazioni rinvenute – o forse qualche dialogo casuale con altri appassionati, non ricordo – era in pratica una trasposizione di Sade in ambito fantascientifico.
Sade l’avevo letto, complici le edizioni economiche della Newton Compton, comprate da qualche compagno sedotto dal pruriginoso e subito abbandonate una volta vista la vera natura di catalogo del disturbante privo di alcuna valenza erotica, mescolato a filosofemi estenuanti, contorti (e una traduzione, mi ricordo, perlomeno non aggiornatissima e faticosa). L’avevo trovato profondamente disturbante, come è ovvio, pur dovendo ostentare una certa indifferenza blasé da intellettuale. Non tanto nell’elencazione di bestialità, ma nella sua mescolanza con una prosa intellettuale, colta, che mi giungeva imprecisa nella traduzione, ma che coglievo presente. Una sorta di Voltaire sulfureo, un Candide volto all’opera al nero, che non presentava le storture dell’eterno ancien regime per stigmatizzarne l’orrore, ma anzi, per incentivare quasi ad accentuarlo. Sia pure, chiaro, nella finzione narrativa.
Quello che sulla pagina riuscivo ad apprezzare, non ero riuscito a seguirlo sullo schermo: “I 120 giorno di Salò” di Pasolini era un must che volevo assolutamente vedere, ma vi avevo rinunciato a metà pellicola (forse meno). Chiaramente, non per scarsa bravura del regista: all’opposto, è ovvio, per la resa perfetta dell’orrore. Ma sulla pagina scritta mi incuriosiva quella speculazione declinata nel mio genere preferito.
Non trovai il libro, e me ne dimenticai. Fino a quel ritrovamento piuttosto casuale.
Il libro, dunque. Pubblicato nel 1973 da Editrice Nord, nella collana Cosmo diretta dal futurologo torinese Riccardo Valla. La traduzione, scorrevole, è di Gabriele Tamburini, specializzato in fantascienza. La copertina riprende un quadro del pittore Antonio Cazzamali, sobriamente efficace. Veniva 1500 lire, l’ho pagato un euro e mezzo. Il risvolto di copertina – di Valla? – definisce Spinrad “autore molto amato o molto odiato”, confermandone la fama di maledetto, e per il resto riassumendo in sintesi lo spunto della trama.
La quale, come detto, è semplice: nel corso di una fase avanzata della colonizzazione spaziale, uno dei tanti pianeti esplorari vede la formazione di una civiltà incentrata sul culto della sofferenza. La casta sacerdotale dominante di Sangre, la Confraternita del Dolore, guidata da un Profeta che è una sorta di primus inter pares, dà al pianeta il nome del sangue, in spagnolo, intitola la capitale (l’unica città esistente) a Sade e venera Hitler come un maestro. Sotto la confraternita, una casta militare spietatissima, e poi masse contadine di allevatori di insetti alieni da tenere schiacciati. La tripartizione classica della società (Oratores, Bellatores, Laboratores) individuata da Dumezil, ma accentuando in massimo grado il carattere vessatorio dell’ancien regime.
Basti pensare all’elemento parossistico che diviene fin da subito evidente, ovvero che le caste superiori di Sangre praticano il cannibalismo come forma di alimentazione, con un carattere magari anche di macabra ironia, stile A Modest Proposal di Swift, ma tratteggiato indubbiamente in modo disturbante.
La cosa interessante di cui mi sono accorto è però quella resa evidente fin dal titolo originale del Pianeta Sangre: “The men in the jungle”. Il focus non è in realtà sul Pianeta Sangre. È suoi suoi conquistatori, “gli uomini nella giungla”, dove inizialmente si nascondono. Tre terrestri, due uomini e una donna, specializzati in psy-ops di infiltrazione e conquista di mondi alieni. Qui sono presentati come liberi battitori, ma non è difficile vedervi esponenti dei servizi segreti occidentali che mettono in opera un piano di destabilizzazione di qualche regime ostile, utilizzando armi terrificanti, diffusione delle droghe su vasta scala, propaganda, disinformazione, doppi e tripli giochi.
E, per quanto più vicini a noi nel modo di pensare, si mostra fin da subito come il loro cinismo e la loro brutalità è identica a quella dei loro avversari (Spinrad fa in modo di porre subito un evento brutale che ci impedisca ogni possibile empatia col protagonista, Brat Fraden), resa se possibile ancor più sgradevole dalla patina di civiltà che ostentano.
Lo sviluppo dell’opera è così una partita a scacchi atroce condotta senza esclusione di colpi, e dove entrambi i re sono neri, in una cupezza di visione che sarebbe piaciuta al Divino Marchese.
Essendo un lettore più smaliziato, Sangre mi ha fatto meno effetto di quanto avrebbe avuto una volta. Ma, indubbiamente, mi lascia un senso vagamente inquietante: depauperato delle facilonerie grandguignolesche, e con meno raffinatezza – e, quindi, meno efficacia – Spinrad mi lascia l’effetto di un Machiavelli che parli dei ben più raffinati (ma non forse più etici) Borgia. Certo, nella descrizione delle efferatezze si può anche leggere tra le righe la possibile condanna, il disvelamento, come voleva giustamente Gramsci, tra gli altri. Ma resta un fondo unheimlich, come avrebbe detto Freud, dove il confine tra esecrazione raffinatamente costituita e voyeurismo malcelato è estremamente sottile. E, credo, è esattamente quello che Spinrad voleva.