STAI LEGGENDO : Marathon, quando il Bungie sfidò Doom (ma se ne accorsero in pochi)

Marathon, quando il Bungie sfidò Doom (ma se ne accorsero in pochi)

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Un gioco avanti sui tempi ricco di ottime idee e ben realizzato, che però rimase quasi inascoltato dal grande pubblico troppo impegnato a giocare sui PC.

Se parlate di Marathon, che sta per diventare oggi l’ennesimo gioco PVP, per fortuna reso interessante da quella che sembra una visione artistica pazzesca, probabilmente solo qualche vecchio bacucco come me si ricorderà di quel gioco di cui avevi sentito parlare tra una partita di Doom e l’altra e che la gente col Mac (sempre che ce ne fosse nel tuo quartiere) portava sul palmo di mano.

Parliamo di un gioco che uscì una dopo lo sparatutto infernale della id Software con soluzioni tecniche e di gameplay all’avanguardia… ma che fondamentalmente nessuno considerò al di fuori della cerchia della stampa di settore e dei pochi Mac user che giocavano. Allo stesso tempo fu essenziale perché Bungie portasse avanti un discorso che diventò un comizio quando i semi di Marathon fecero sbocciare Halo.

Marathon è quindi un ottimo esempio per raccontarci come il progresso spesso segue vie tortuose, che non sempre chi arriva prima su un’idea soprattutto nel mondo dei videogiochi, ha poi il riconoscimento dovuto o ha un impatto dimostrabile sul percorso del medium. Ma anche per raccontarci come la creatività sia spesso un processo evolutivo che può avere degli strappi e delle accelerazioni, ma quasi sempre vive di accumuli, di prove, di buone idee che possono diventare migliori con i mezzi e i tempi giusti.

Prima ancora di Marathon Bungie si era fatta notare per Pathways into Darkness, altro fps nato sull’onda di Wolfenstein 3D che incorporava alcune idee interessanti. I mostri erano disegnati tutti a mano e poi scannerizzati, l’ambiente di gioco era abbastanza vasto per l’epoca e aveva alcune idee interessanti, come i finali multipli, anche se i recensori dell’epoca lo giudicavano ostico e un po’ troppo punitivo. Era possibile, infatti, dimenticarsi degli oggetti o non fare determinate cose, condannandoci al finale peggiore.

Col senno di poi mi viene da dire che va benissimo così, visto che i finali multipli sono ancora in voga. Ma va detto che oggi abbiamo anche molti più strumenti per capire se stiamo andando nella direzione giusta. All’epoca forse era un approccio draconiano, per quanto all’avanguardia.

Pathways into Darkness vendette bene, parliamo di circa 20.000 copie, e trasformò Bungie da un paio di amici, Alex Seropian e Jason Jones, che scrivevano codice nella loro stanzetta in un’azienda con un ufficio e dei dipendenti. E quell’azienda si mise subito a lavorare su un nuovo progetto. Nome in codice: Marathon.

Partendo dalle fondamenta di Pathways into Darkness, Jones migliorò il codice, rendendo il tutto più fluido, e lavoro sull’IA dei mostri, cercando di bilanciare meglio la difficoltà.

All'art direction del gioco lavora Craig Mullins, forse uno dei concept artist più importanti di sempre che ha messo del suo in così tanta di quella roba che faccio prima a linkarvi la sua pagina Wikipedia.

Questa prima bozza si chiamava Marathon Zero e fu quasi del tutto ignorata al MacWorld del 1994. Le novità non erano abbastanza.

Da quel momento il poi tutto il team entrò in un lungo periodo di crunch, rivoltando come un calzino i livelli, il motore di gioco, assumendo personale per scrivere la storia e migliorare l’art direction. Quello che era solo un working title diventò il nome ufficiale del gioco, forse proprio a simboleggiare la maratona di coding necessaria per finirlo.

Il risultato, annunciato il 25 luglio 1994, fu un titolo con 26 livelli single player, 10 mappe multiplayer e un sacco di migliorie rispetto a quanto si era visto prima. Stavolta il pubblico del MacWorld non vedeva l’ora di metterci le mani. Tanto sarebbe uscito dopo due settimane no?

No.

Non ripeterò mai abbastanza che i videogiochi sono creature strane e mutevoli e ogni aspettativa che ci facciamo andrebbe tenuta sottochiave. E questo vale oggi come allora come consumatori dovremmo essere senza dubbio interessanti ma ricordarci che tutto può cambiare. Anzi, a volte è meglio se cambia.

Marathon uscì dopo 5 mesi perché… per Bungie non era abbastanza divertente e tutti i livelli single player furono rifatti da capo.

E tanto per fare paragoni con oggi, la beta di Marathon subì un leak a ottobre del 1994 che scatenò una ridda di discussioni e fece incazzare tantissimo gli sviluppatori, perché ovviamente veniva messo in discussione lo stato di un gioco che ancora non era finito, ma ebbe l’effetto di concentrare tantissima attenzione su Marathon. I leak furono addirittura due, causati dagli stagisti di una agenzia pubblicitaria.

A ottobre uscì una demo con tre livelli mentre il gioco fu completato a dicembre, con lo staff Bungie prossimo al collasso. Jones annuncio la “play until you puke” policy: per uscire dall’ufficio dovevi aver finito il gioco almeno due volte.

Finalmente il 21 dicembre 1994 Marathon era pronto ed era un passo avanti rispetto a tutto ciò che si era visto fino a quel momento. Rispetto agli fps-post Doom di quel periodo, Marathon permetteva di guardare in alto e in basso, aveva l’illuminazione dinamica, il dual wielding delle armi (elemento che Halo renderà identitario) e girava con una fluidità impressionante. Anche il sonoro era curatissimo, non solo nella musica ma con effetti speciali dedicati per ogni arma e ogni mostro.

Anche il multiplayer era avanzato, con una chat in game, bot, 10 arene e un netcode che permetteva di giocare in LAN senza troppi problemi. Se non quello di trovare altra gente col Mac, ovvio.

La storia era abbastanza complessa e raccontata in gran parte attraverso una serie di terminali che offrivano informazioni spesso vitali. In contemporanea con System Shock, Marathon ci metteva di fronte a una IA impazzita, Durandal, che passava il tempo a insultarci e a sfidarci mentre cercavamo una via d’uscita.

Il level design era intricato, con missioni che a volte andavano oltre il semplice “arriva alla fine” e obbligavano al giocatore di ricordare e appuntare le indicazioni dei terminali. Mentre id Software considerava la storia poco più di un orpello, per Bungie era una parte importante che andava a saldarsi col gameplay.

Non era, anche rispetto a Doom, un gioco che amava tenerti per mano e se non fossi stato attento avresti potuto finire per vagare in giro senza sapere cosa fare o in una trappola che ti avrebbe costretto a ricaricare un salvataggio. E si poteva salvare solo in alcuni terminali.

Guardandolo oggi, Marathon era un prodotto molto avanti rispetto al periodo in cui è uscito, sia concettualmente che tecnicamente, forse solo System Shock può essergli superiore. Oggi lo descriverei come un gioco “immersivo”, stimolante, ricco di soluzioni interessanti e un gamplay loop di alto livello. Ma non possiamo ignorare che… è un gioco uscito per Mac, che ha senza dubbio reso orgogliosi i Mac User che in quegli anni vedevano l’utenza PC gonfiare il petto ma che è stata largamente ignorata da migliaia, se non milioni di persone, per anni.

Non per cattiveria, semplicemente perché il mondo PC nel frattempo continuava a produrre cloni di Doom, il dual wielding delle armi arrivò su PC con Rise of the Triad nello stesso giorno in cui uscì Marathon e di lì a poco avremmo avuto il Build Engine, Duke Nukem e compagnia. 

Quello che resta sul tavolo è un gioco decisamente ben confezionato, che merita un posto nella storia dei videogiochi e che è stato un favoloso trampolino di lancio per Halo, ma anche una riflessione su quanto sia complesso parlare di innovazioni, di svolte, di evoluzioni in un settore come quello videoludico

Non pretendo di usare la mia esperienza come esempio universale ma Marathon alla fine era un prodotto semisconosciuto ai più, ignorato e lontano, qualcosa che magari trovavi solo nelle riviste per Mac e a malapena citato in qualche classifica di fine anno o dal tuo amico che ne sapeva di più. E questo non per colpa sua ma perché l’evoluzione passa anche dalla piattaforma in cui cerchi di farla. Altrimenti ti evolvi nella tua isoletta, come alla Galapagos.

Non è sempre detto che essere i primi garantisca anche una grande influenza sul settore e sul pubblico e a volte le tue idee, per quanto ottime, finiscono per essere il famoso rumore dell’albero che cade nella foresta con nessuno che lo può ascoltare.

Oppure qualcuno lo ascolta, non lo dice, e dice di aver creato un rumore migliore. La creatività funziona anche così.

Ma in altri casi dalla tua isoletta di prelevano dopo che hai creato due seguiti, finiti anche su PC, e ti mettono a lavorare per il prossimo progetto Microsoft, quindi, forse, il segno di Marathon, per quanto sbiadito, è comunque forte nella storia dei videogiochi.

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