STAI LEGGENDO : Lost Planet - Fra Colonialismo e Design

Lost Planet - Fra Colonialismo e Design

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Analisi strutturale e concettuale della serie videoludica Lost Planet. Uno sguardo ravvicinato alle componenti ludiche e narrative.

Gelide coltri di ghiaccio che si stagliano per centinaia di migliaia di chilometri. La prospettiva di un planetoide sterile e poco profittevole. L’ingegno e la caparbietà umana nel perseguire una mira espansionistica. Come riassumere in sostanza videoludica queste coordinate narrative?

In un tempo che comincia ad apparire lontano, la console più potente e avveniristica al mondo era l’ammiraglia di Redmond, quella che per Microsoft era la massima espressione del gaming: Xbox 360. Ne conseguì, che per una macchina cotanto performante, occorreva una i.p altrettanto all’altezza. Presentato in chiaro da Capcom all’E3 2006, Lost Planet: Extreme Condition si proponeva come uno shooter sci-fi in terza persona pensato appositamente per girare sulle console Microsoft. In realtà, stando a Kenji Inafune, producer del gioco, la ragione dietro la scelta di Xbox fu legata prevalentemente al sempre più economico prezzo della console; questo avrebbe garantito una maggior capillarizzazione della macchina nel mercato rispetto a quella che poi sarebbe stata PlayStation 3. De facto il costo esageratamente elevato della console Sony avrebbe fatto uscire Lost Planet dalle possibilità economiche di una buona percentuale della platea giocante. Due anni più tardi sarebbe comunque uscito su PlayStation 3.

Attraverso l’ottima direzione artistica di Kenji Oguro, Lost Planet apparì immediatamente come un titolo dalla forma ludica convenzionale, non inutilmente complesso, ma dinamico ed esplicativo al contempo. Un gameplay e un layout quindi fin troppo tradizionali, ma che riuscirono ugualmente ad amalgamarsi a tutte le innovazioni che la casa di Osaka volle introdurre, VS in primis.

I VS (o Vital Suit) furono per Lost Planet una delle componenti di maggior rilievo estetico. Questi rappresentarono non solo una macchina corazzata, ma anche una delle note di divertimento migliori del gioco. La loro formazione concettuale trova immediata corrispondenza nella cultura visiva orientale, questa composta non solo da fumetto e animazione. Personalmente ho individuato numerosi richiami alla linea modellistica Machinen Krieger, oppure nel mecha design di prodotti animati come Metal Skin Panic Madox-01 (design di Kimitoshi Yamane) o Gasaraki (design del grandissimo Yutaka Izubuchi). Rilevanti anche le modeste gamme d’armi equipaggiabili, una per lato zona deltoide. Potenza di fuoco e mobilità.

La presenza stessa dei VS venne suffragata dall’altro importante aspetto del franchise: gli Akrid. Riciclando palesemente una lunga serie di concept da Monster Hunter e attingendo a mani basse dal pantheon kaiju eiga, gli Akrid altro non sono che la forma di vita indigena di E.D.N. III, il pianeta in cui è ambientata la storia. Questi, spesso colossali, brulicavano lungo le distese ghiacciate del pianeta in attesa di compierci agguati (per i più piccoli categoria – S) o per assaltare intere città (lusso esclusivo per i categoria – G) come nel caso del Green Eye. Procediamo con gli antefatti.

Molto frequentemente, in particolar modo nella narrativa, storie di esuli, colonie e colonizzatori si aprono con l’immagine, spesso inflazionata ma mai troppo sbagliata, di una Terra morente. Assiomatico. Nonostante l’abuso d’immaginario, l’idea di una diaspora spaziale non è mai banale; e osservando una serie di contesti (che analizzerò più avanti) presenti nel franchise, facciamo presto a crederlo. Dicevamo: stanchi di una Terra sempre più malata, cominciò a diffondersi nello spazio il profondo desiderio di donare una nuova casa all’umanità. Fu poi la volta di E.D.N. III.

Secondo Treccani il Colonialismo è: In età moderna e contemporanea, l'occupazione e lo sfruttamento territoriale realizzati con la forza dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi.

I primi coloni su E.D.N. III furono non a caso minatori. Approvvigionare risorse. Quale altra logica dietro l’uso del colonialismo? Al di là di questo, la regolamentazione delle estrazioni, così come il mantenimento dell’ordine nelle colonie venne eseguito dalla NEVEC (NeoVenus Construction), la colossale corporazione dietro la colonizzazione e la terraformazione di E.D.N. III. Possiamo escludere dal testo in questione il semplice quanto banale fatto che la NEVEC rappresenta il corporativismo nella sua forma più estrema e cruda? Possiamo anche dire che l’aspetto colonialista e corporativista di alcune componenti presenti nel gioco sono l’immagine trasposta di un modo di fare (ampiamente dibattuto e denunciato in narrativa) tipicamente imperialista? Diciamolo anche. Aspetti simili, seppur indiretti, non fanno altro che avvalorare la qualità semantica di Lost Planet (ma più generalmente del videogioco) nel moderno ecosistema mediale.

In questo quadro narrativo vivremo nei panni di Wayne Holden, ex operatore di sicurezza NEVEC, rimasto ibernato nel ghiaccio per trent’anni. Attraverso gli occhi di Wayne osserveremo l’estremità di un mondo alieno di nome e di fatto. Un mondo che tuttavia non riusciremo a smettere di sfruttare e impoverire. L’esempio sovviene quando, nelle primissime fasi, faremo la conoscenza dell’Armonizzatore; un dispositivo capace di convertire l’energia termica contenuta negli Akrid. Quella energia termica (T-ENG) che la NEVEC cominciò a stoccare in enormi quantità. Il moto degli eventi introdurrà al giocatore fazioni di individui dalla storia triste e collerica. I Pirati delle Nevi, coloni di prima generazione abbandonati fra le tristi dune di neve dai loro stessi datori di lavoro. Sacrificare il sacrificabile.

L’epilogo di Lost Planet: Extreme Condition assurge a ottimi stilemi sci-fi, con un combattimento aereo a dir poco travolgente. È tuttavia in quella circostanza che comprenderemo appieno la natura dietro il Frontier Project. Terraformare il pianeta eliminando ogni forma di vita autoctona. Un sacrificio biblico in nome di cosa? Il profitto che il corporativismo (che potrebbe leggersi anche capitalismo) anela più di ogni altra cosa, o il progresso, questo inteso come l’unico sistema capace di protrarre la vita umana nello spazio?

Con Lost Planet 2, sviluppato e pubblicato sempre da Capcom nel maggio del 2010, scopriamo nient’altro che l’anarchia.

Il pianeta è stato in parte disgelato, lasciando spazio a fitte foreste pluviali laddove un tempo si innalzavano vaste creste di ghiaccio. La NEVEC persiste, seppur pare abbia perso molto in risorse, siano queste economiche o umane. Ciò che al contrario prospera è l’aumento di “sovversivi”, ossia truppe irregolari, perlopiù dedite alla pirateria, che fra un saccheggio e un sabotaggio hanno cominciato a muoversi guerra a vicenda. Il ritorno al tribalismo. La crescente trasformazione planetaria quanto ha influito sull’ecosistema Akrid? Molto. Le bestie sono vive e vegete, forse anche prospere, ma irrimediabilmente furiose. L’uomo ha compromesso senza mezzi termini il loro habitat, spingendoli verso un’inesorabile collasso biologico.

In termini ludici Lost Planet 2 non differiva eccessivamente dal precedente, fatta eccezione per qualche feature di gameplay e per la sua natura multigiocatore. La vera divergenza invece risiedeva nel concept narrativo, questo privo di veri protagonisti; aspetto che al tempo non apprezzai particolarmente nonostante, oggi, ritenga Lost Planet 2 un capitolo enormemente valido. Anche in questo caso Kenji Oguro replica l’ottima direzione artistica del precedente, firmando una storia discreta nel complesso ma ricca in estetismi.

Il setting infatti, rappresentava la vera nota di merito del gioco, rompendo innanzitutto quella catena d’immagini che ci ancorava al bianco assoluto di un pianeta glaciale. L’ottima resa visiva correva parallela a una storia con pretese e obiettivi completamente opposti al precedente capitolo. Il tratto genetico multigiocatore influenzò profondamente la scelta di proporre un’opera meno dedita alla narrazione, focalizzandola contemporaneamente sulla cinetica di un gameplay pensato per il co-op.

Esteticamente meraviglioso e profondamente rinnovato in fatto di design e idee: una maggior varietà di clan e quindi una differente composizione dei vest da combattimento (alcuni dei quali sembrano richiamare una certa animazione anni ’90, Production I.G in primis), VS largamente rivisti e Akrid sempre più affascinanti quanto altrettanto imponenti.

Come accennavo sopra, Lost Planet 2 si presentava narrativamente discreto, pur riservando qualche piacevole sorpresa. Perché seppur non adeguatamente all’altezza di Extreme Condition, questo riusciva ugualmente a esaltare dinamiche capaci – alla stregua del primo – di coinvolgere il giocatore in contesti e situazioni incredibili.

Volendo leggere Lost Planet 2 attraverso una critica più complessa e sociopolitica, è possibile apprendere – nuovamente – ciò che Lost Planet aveva intelligentemente mostrato anni prima: la totale incapacità dell’uomo di anteporre il benefit comunitario al profitto. Perché è proprio il profitto ad aver innescato le miriadi di lotte intestine che infuriano su E.D.N. III. Una prospettiva sociale affrontata con maggior zelo in Lost Planet 3.

Riavvolgiamo la storia. I primi coloni umani approdano sul gelido pianeta altresì noto come E.D.N. III, tutti assolutamente ignari delle reali condizioni di vita, ma soprattutto ignari della presenza Akrid. Jim Peyton è uno di loro, uno dei minatori, costretto per ragioni meramente economiche ad attraversare lo spazio conosciuto ed esplorato, per lavorare a bordo del suo Rig, un precursore rigorosamente disarmato dei più moderni VS.

La vita di Jim scorre in maniera asettica, consapevole di vivere per il solo scopo di guadagnare abbastanza soldi e quindi poterli spedire alla propria famiglia sulla Terra. Una vita in fin dei conti non dissimile da quella vissuta da molti nostri connazionali, che in tempi passati si calavano da minatori nelle profondità del Belgio, con l’obiettivo ultimo di mantenere le proprie (e numerose) famiglie nel Belpaese.

Sviluppato da Spark Unlimited e pubblicato da Capcom nel 2013, Lost Planet 3 è in termini assoluti l’esatto opposto del precedente capitolo.

Votato alla narrazione a dispetto di un gameplay più dolce, il capitolo finale della trilogia cominciata nel 2006 torna a solcare le nevi di E.D.N. III. Esattamente, trattasi di un prequel. Niente di esageratamente frenetico, ma al contrario tutto più riflessivo. Le immagini che scorrono compiono un mosaico di sfruttamento e incertezza, dove le vicissitudini di Jim vengono esacerbate da contesti colmi di dolore e mestizia. Immaginate di ritrovarvi su un pianeta freddo e lontano, dove le vostre competenze vengono sfruttate dalla corporazione che vi ha illuso promettendovi ricchezza facile. Schiavi del capitale? Può darsi, ma Jim fa quel che fa per uno scopo ben preciso; uno scopo che esula dal arricchimento personale. Il tempo scorre finché non finiremo coinvolti in qualcosa di ben più grande e drammatico. La cruda verità viene palesata come una gettata d’acqua fredda... più fredda della temperatura media del pianeta. Cosa fare allora?

In Lost Planet 3 la firma ludica è sì più docile, tuttavia il dinamismo resta una parte fondante dell’esperienza. Il gunplay rimane piuttosto invariato, mentre cambia l’approccio al dispositivo meccanizzato. Come spiegavo sopra, in questa timeline il concetto di Vital Suit è ancora nella fase prototipo, al contrario in campo minerario viene fatto uso dei Rig, enormi macchine bipedi (più grandi di due terzi dei VS visti finora) che avremo modo di utilizzare soltanto in determinate fasi di gioco.

Vuoi per la mancanza di Capcom (e quindi di un’attitudine orientale) che in passato aveva importato nel franchise tutto il suo stile, vuoi l’assenza dei VS dal ruolo di coprotagonisti, Lost Planet 3 è a mio modesto avviso il meno riuscito. Attenzione: meno riuscito, non brutto. Perché per quanto il gioco sia esente dalla stragrande maggioranza dei valori estetici e in parte ludici che avevano celebrato in passato la serie, riesce ugualmente a tracciare quella linea narrativa che un fanatico fantascientista come me non può non apprezzare. I valori topici della narrativa fantascientifica qui sono più forti e presenti che nei precedenti capitoli, a loro volta maggiormente influenzati dall’animazione.

In definitiva, quello di Lost Planet è stato un franchise decisamente ricco di meraviglie sul piano estetico visivo, quanto altrettanto ricco di spunti etici. Cercare di comprendere le basi ideologiche dietro il profitto in ambito coloniale qui è possibile. Non si tratta di un’argomentazione forzatamente ricercata; basta giocare ai giochi. Il videogioco è un medium che non mi stancherò mai di apprezzare. Nessun campanilismo mediale, ma solo realtà.

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