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L’intelligenza artificiale tra cultura pop e realtà

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Un'analisi dello stato dell'arte sul tema dell'Intelligenza artificiale, partendo da tre prodotti culturali recenti: il fumetto Visione, il film Ex Machina e la serie tv Westworld.

L’intelligenza artificiale viene definita come la branca dell’informatica addetta allo studio dei fondamenti teorici, metodologici e tecnici che consentono la progettazione di hardware e software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana (definizione di Marco Somalvico, da Wikipedia). In realtà la materia in oggetto ha ancora svariate descrizioni, ognuna pertinente con il particolare settore a cui fa riferimento: si passa dalle intelligenze che agiscono umanamente e si arriva a quelle che pensano come un uomo, passando per tutti i processi intermedi che descrivono cosa significhi e se esista una differenza tra il pensare umano e il pensiero razionale.

Senza dubbio è un settore complesso e conteso che travalica la singola materia e sfocia in quel campo grigio in cui l’informatica e la matematica dialogano con la filosofia e l’estetica.

Non dobbiamo stupirci se in questo dibattito anche la cultura pop abbia voluto dire la sua, mettendo in scena i prodotti più disparati: lungi da me volermi soffermare su tutto quanto sia stato prodotto nel corso degli anni sul tema, voglio però prendere tre esempi – un fumetto, un film e una serie tv – come pretesto per capire dove siamo arrivati con la fantasia e a che punto siamo con la realtà.

Intelligenza artificiale

Il fumetto – Visione: Un po’ peggio di un uomo e Un po’ meglio di una bestia

Questi due volumi editi dalla Panini nel 2017 raccolgono i dodici albi che compongono la miniserie dedicata alla seconda intelligenza artificiale più famosa della Marvel, scritti da Tom King e disegnati da Gabriel Hernandez Walta. Una storia di vita quotidiana, mogli, figli, cani e villette a schiera nella provincia americana in cui il sintezoide prova a integrarsi con gli umani, con scarso successo. Il fascino di questa storia, al di là dei sottotesti sul razzismo e il pregiudizio, sta tutto nella modalità con cui Visione prova a mescolarsi con i suoi vicini umani: avendo già coscienza di sé stesso come macchina senziente, l’Avengers decide di catalogare i comportamenti umani e di imitarli pedissequamente. Non si interroga – almeno inizialmente – sul senso delle azioni compiute. Si comporta in un certo modo perché è quello che farebbe un uomo (quindi, in realtà un essere non sempre razionale).
Diventare umano, secondo questo particolare approccio all’intelligenza artificiale, significa imitare i nostri schemi di pensiero.

Ex Machina

Il film – Ex machina

Questo film, diretto da Alex Garland e interpretato da Oscar Isaac, Domhnall Gleeson e Alicia Vikander ha qualche punto in comune e svariati punti di divergenza rispetto al fumetto Marvel: anche in questo caso l’Intelligenza artificiale ha già coscienza di sé – sa di essere l’opera di uomo, un artefatto creato in un futuristico laboratorio – e deve apprendere l’interazione con gli umani e il comportamento degli uomini in generale con lo scopo di superare il famoso test di Turing. Nel corso della storia, non sarà la semplice imitazione a fare la parte del leone ma la crescita dello stupendo robot creato dal geniale protagonista Nathan Bateman (Isaac) avverrà attraverso l’interazione con un altro essere umano. È molto affascinante vedere come, nella mente del regista e sceneggiatore, un’intelligenza artificiale già cosciente di esserlo e capace di apprendere, possa avvicinarsi a noi uomini facendoci delle domande.
In Ex machina, quindi, le risposte di un uomo alle domande di un robot permettono a quest’ultimo di imparare in autonomia cosa vuol dire comportarsi come noi. Un altro interessante punto di vista.

Westworld

La serie tv – Westworld

Questa serie, prodotta dalla Hbo e andata in onda nel corso del 2017 ha spopolato su tutti i fronti, mettendo d’accordo pubblico e critica e facendo nascere gruppi di discussione che ancora oggi si interrogano su cosa volesse dire ogni singolo dettaglio alla luce delle risposte fornite dalle singole puntate.

Il punto di vista degli sceneggiatori di Westworld – tra cui spiccano Jonathan Nolan e Lisa Joy – è ancora diverso da quelli trattati finora: in questo caso, i poveri robot non sanno di essere tali, né di vivere in un parco di divertimento a tema, e sono costretti a subire le angherie degli uomini che sfogano le proprie frustrazioni su coloro che non possono reagire. Le tematiche trattate da questa serie vanno al di là di quella sull’intelligenza artificiale e arrivano a toccare argomenti come la violenza, la sopraffazione e la bestialità di cui siamo capaci noi umani: ai fini di questo articolo mi concentrerò solo sulla prima, però.

Gli androidi di Westworld non sanno di essere tali e lo svolgimento della storia ci guida attraverso il doloroso percorso con cui i robot prendono coscienza di sé come macchine. La nascita, si sa, è un momento traumatico per tutte le creature, quindi non vedo perché non debba esserlo anche per chi è già nato ma deve per la prima volta fare i conti con il sentirsi umano e con la relativa possibilità di scegliere. L’intelligenza artificiale di Westworld comincia a rendersi conto di non essere umana nel momento in cui ricorda episodi del proprio passato. Episodi violenti, per essere precisi, che si manifestano sotto forma di sogni o visioni.
In questa particolare serie, quindi, i robot possono prendere coscienza di essere tali attraverso il ricordo di quanto accaduto loro in precedenza e l’elaborazione del significato di questa esperienza e di quelle passate.

La fantasia si è spinta, quindi, nelle direzioni più disparate, accumunate dalla volontà da parte delle IA di affrancarsi dal ruolo di semplici macchine per diventare degli esseri capaci di pensieri autonomi, se non addirittura di sentimenti, e quindi come tali essere considerate.

Intelligenza artificiale

Dove siamo arrivati, invece, nella nostra realtà quotidiana? Qual è lo stato dell’arte del dibattito sulle intelligenze artificiali?

Molto più indietro della fantasia, tanto per essere chiari.

Per darvi un punto di riferimento, ci stiamo ancora muovendo sulla definizione stessa di intelligenza: secondo alcune teorie, l’intelligenza si definisce come la capacità di apprendere dalle proprie esperienze, quindi non risolvere un determinato set di problemi – per quanto numeroso – ma essere capace di usarlo per risolverne altri, di altro tipo. Altre teorie, invece, si concentrano sull’autocoscienza: una macchina diventa intelligente, quindi, quando si rende conto di essere tale. Cosa accadrà da quel momento in poi, in quel cervello fatto di cavi e schede, non è dato saperlo. Per ora.

Sulla seconda tipologia non possiamo ancora esprimerci, in quanto macchine autocoscienti non ne abbiamo ancora viste, in giro. Certo, ci sono dei computer che hanno superato svariati test ma possiamo farli rientrare nella grande casistica del primo caso, ovvero quei sistemi che hanno imparato come funziona un meccanismo e come evitarne gli ostacoli.

Il dibattito, quindi, gira intorno alla prima tipologia di intelligenza: a questa categoria fanno capo la maggior parte delle IA attualmente in circolazione, quelle di cui avrete sicuramente sentito parlare. Sto parlando dei sistemi di deep learning, in cui una rete di unità – che imitano il funzionamento dei neuroni del cervello umano – vengono collegate tra loro e gli vengono forniti dei dati da processare. Il loro funzionamento è relativamente semplice: ogni passaggio di informazioni tra un nodo neurale e l’altro aggiunge informazioni su quel particolare problema – guidare una macchina, rispondere a un cliente, giocare a Go – e man mano che si procede in profondità il sistema stesso, sbagliando e correggendosi milioni di volte, impara il metodo giusto per superare un determinato ostacolo.

Il principio su cui si basano quindi questi sistemi è al contempo efficace e limitato: efficace perché fornisce una soluzione corretta al problema posto in essere (almeno la maggior parte delle volte); limitato perché fornisce all’IA un modello di ragionamento/calcolo utile solo a risolvere quel particolare problema. La meravigliosa capacità dell’essere umano è proprio questa, tra le altre: apprendere un determinato comportamento e saper applicare una particolare reazione a tutte le occasioni in cui è necessario, senza limiti.

Il passaggio successivo è attualmente in corso: l’Università di Padova sta lavorando a delle reti neurali con caratteristiche particolari, definite macchine di Boltzmann. In queste IA, le connessioni tra gli snodi neurali non vanno solo in profondità ma tornano anche indietro. Il che significa che, in versione rudimentale e perfettibile, la macchina trova una soluzione per un problema e la rielabora, ragionandoci su, spacchettandola in una serie di informazioni separate che arricchiscono ulteriormente la rete stessa. Non più il classico percorso input-ricerca di una soluzione attraverso la reiterazione di un tentativo–output ma input–ricerca di una soluzione attraverso la reiterazione di un tentativo–output–rielaborazione–analisi del contesto– raccolta di informazioni basate su modelli passati e via così.

Le macchine di Boltzmann, per semplificare al massimo, non si limitano a svolgere un’azione solo perché nelle milioni di simulazioni effettuate quella dava la percentuale di successo maggiore ma analizzano lo scenario circostante, le variabili future, le aspettative, rielaborano quanto accaduto in passato e per questo compiono una particolare azione. Siamo vicini al momento in cui una macchina ci dirà anche perché ha fatto una particolare scelta.

Finora, questo è quanto di più vicino alla mente umana possiamo permetterci. E non è poco.

Nel frattempo, gli scienziati di tutto il mondo si stanno interrogando ulteriormente su come usare le intelligenze artificiali per semplificare il loro lavoro quotidiano: non mi riferisco alle (spassosissime) macchine di Goldberg ma all’idea del Superumano.

Non ci siamo riletti Nietszche ma abbiamo studiato gli atti del simposio intitolato Superhumans: human and artificial intelligence in synergy. Il risultato è di una banalità tale da lasciarci a bocca aperta.

Finché le macchine non saranno in grado di decidere da sole, la migliore soluzione per rendere più facile ed efficace il lavoro dell’uomo è quello di integrarlo con le abilità peculiari delle macchine.

C’è bisogno di simulare scenari, fare calcoli, prevedere catastrofi o immaginare la traiettoria di un ciclone? Date le giuste informazioni a una macchina e riceverete in cambio la risposta perfetta.
Volete prendere una decisione? Fatelo fare a un umano, che analizzerà il tutto sulla base della sua esperienza, del momento storico e del suo modo di ragionare.
War Games da un lato e Stanislav Petrov dall’altro ce lo stanno dicendo da oltre cinquant’anni.

Con questo esempio non voglio in alcun modo sminuire il ruolo delle IA nel prossimo futuro né fare il luddista di turno, sia chiaro. Mi sto solo limitando a raccontare quanto ci accade intorno in questo momento, alla luce delle recentissime scoperte in materia di Intelligenza artificiale.

Il futuro che ci aspetta, quindi è ancora da scrivere, su tutti i fronti. Una distinzione è doverosa farla, però: i prodotti culturali citati, essendo nati per appassionare (ed essendo gli autori dei maestri del rispettivo genere e medium), sono stati creati partendo da un conflitto – la base per ogni buona storia che si rispetti. (il conflitto tra uomo e macchina, tra creatura e creatore, tra libertà e schiavitù).
La realtà, invece, almeno per ora va in una direzione più integrativa e collaborativa.

Per chiudere il cerchio, quindi, possiamo sperare che fra qualche decina di anni guarderemo indietro ai prodotti culturali citati con un sorriso ammirato, così come abbiamo fatto nel tempo con i romanzi di Jules Verne e alla fantascienza in generale, cercando le corrispondenze tra quanto esisterà e quanto hanno immaginato scrittori e sceneggiatori nel corso degli anni.

E se così non fosse, ti prego, Skynet, abbi pietà di me.

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