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L'Ammazzadraghi e la sindrome dell'impostore

Un drago, una lancia, un cavaliere, che altro di serve per fare un bel racconto fantasy? Il resto devi mettercelo tu.

L’Ammazzadraghi è il seguito di La Battaglia di Campocarne, con cui Roberto Recchioni presentava contemporaneamente il suo primo romanzo e la sua interpretazione di un fantasy più contadino, regionale e lontano dall’epica ma pensato per "giovani adulti" che riecheggiano nel titolo della saga: YA.

Ma se da una parte l’ambientazione era tutto tranne che raffinata, dall’altra la prosa era estremamente controllata, limata, come un bonsai in cui ogni taglio gesto della potatura viene pensato per almeno dieci minuti.

Era anche un fantasy dalla vena fortemente autobiografica, il protagonista, Stecco, era un ragazzo amante delle storie, non portato per la lotta ma affascinato dal mondo di chi si guadagnava il pane sui campi di battaglia. Tutto il suo cammino era una riflessione proprio sul gesto di raccontare e tramandare, di immaginare, riflettere e affascinare. Su quanto la storia debba essere centrale rispetto a chi la racconta e sul potere che ha di rendere ogni uomo un Granduomo.

Un cammino che si concludeva con Stecco che prendeva il posto dei suoi eroi, un po’ come Recchioni si è seduto ormai qualche anno fa sulla poltrona che fu di Tiziano Sclavi al timone di Dylan Dog.

Non è quindi forse un caso che L’Ammazzadraghi parli sì di queste maestose, cattivissime e affascinanti creature (da non confondere con le viverne) ma ci racconti anche l’angoscia e i tormenti di chi dietro la corazza e le armi del cavaliere di ventura nasconde la paura di non essere all’altezza del compito, di chi si sente gli occhi addosso per il ruolo che ricopre, ma comunque si lancia contro il drago, perché questo è ciò che fanno gli eroi, perché questo ci si aspetta da lui.

Insomma, Stecco sembra preda del più classico esempio di Sindrome dell’Impostore, quella strana sensazione in cui pensi di non meritare ciò che hai ottenuto nonostante l’impegno con cui hai lavorato. Difficile anche in questo caso non collegare Stecco a Recchioni e alla sua vertiginosa ascesa che forse nasconde qualche umana e comprensibile insicurezza. Non so come la pensiate voi, ma personale credo che quando senti l'ansia e la paura che ti serrano lo stomaco per quello che stai facendo vuol dire che stai andando nella direzione giusta, perché il gioco si fa duro non quando hai un sogno, ma quando riesci a relizzarlo e devi tenertelo stretto, ma non divaghiamo.

Ma L’Ammazzadraghi non parla solo di lui, anzi, ha tra le sue caratteristiche più interessanti proprio l’ampliamento della prospettiva, visto che ci porterà a saperne un po’ di più su Marta, sua compagna, bussola morale e dispensatrice si scapaccioni, che si imbarcherà in un’avventura personale in cui verrà fuori il suo lato più bestiale, ma anche quello più dolce. Non voglio togliervi il gusto della sorpresa, ma sappiate leggere i segnali metanarrativi che Recchioni lascia qua e là nel racconto per capire l’importanza di Marta in questa storia e ricordatevi di non dirle che è brutta.

Purtroppo resta un po’ in ombra quello che secondo me è il personaggio più divertente e interessante di questo universo narrativo: Trappola, l’apprendista iettatore che sembra uscito da un romanzo di Pratchett e che siamo sicuri troverà maggiore spazio nel terzo romanzo.

Sempre parlando di Pratchett, L’Ammazzadraghi senza un lieve ma deciso cambio di rotta rispetto a La Battaglia di Campocarne per quanto riguarda lo stile, che, senza perdere la sua asciuttezza, si fa più sciolto, meno contratto e soprattutto decisamente più ironico e divertito, ricordando per certi versi il geniale autore britannico. Parlo di quell’ironia a denti stretti fatta di sarcasmo, un finto registro aulico e l’improbabilità dei protagonisti rispetto al compito titanico che li aspetta, tipica delle avventure di Scuotivento o Morty in cui la grettezza umana e il sovrannaturale vanno a braccetto, dove il contadino e il dio possono ritrovarsi a giocare una mano di briscola selvaggia.

In questo è importante tutta la capacità dell'autore di trasportarti nel suo mondo e raccontarti una storia attraverso usanze, soprannomi, luoghi e dialetti che non conosciamo, ma che da subito ci sembrano familiari e interessanti. Perché quando si parla di Fantasy il grande fascino non sta nelle parole, ma in una mappa ricca di posti che non conosci.

Una scelta linguistica importante in quanto vero motore di una storia che vuole volutamente semplificare il “cosa” per dare ampio spazio al “come” e per proseguire un discorso basato sul ritorno all’avventura nella sua forma più pura che Recchioni a intrapreso da tempo e che ritorna anche in 4 Hoods. Una sorta di manifesto letterario in cui ciò che conta, alla fine, è sempre il piacere di un'avventura, una sfida, che sia contro un drago, una montagna da scalare, sé stessi, chi non pensa tu ce la possa fare o l'ignoto.

E dunque che avventura sia, di quelle fresche e divertentei come L'Ammazzadraghi, storie che finisci in un pomeriggio in cui trascuri colpevolmente i tuoi impegni o sei impegnato in un lungo viaggio, in attesa di scoprire che ne sarà di Stecco e di Marta dopo il colpo di scena che chiude L’Ammazzadraghi e che fa venir voglia di andare a tormentare Recchioni su Facebook affinché si sbrighi a scrivere il seguito. Di solito è uno a cui piace essere disturbato sui social, quindi fatelo senza problemi.

 

 

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