La lezione delle Città Invisibili
Breve storia di come Le Città Invisibili di Italo Calvino siano diventante inconsciamente una delle pietre angolari della cultura architettonica contemporanea.
Marco Polo e Kublai Kan passano le calde notti di Xanadu su di una delle svariate terrazze del palazzo dell’Imperatore dei Tartari.
Il tempo oziosamente dilatata tra una partita a scacchi e un’esposizione di memorabilia che il mercante veneziano ha portato con sè dai suoi viaggio.
Qualche volta una scorsa sull’atlante dove sono annotate tutte le città dello sconfinato impero del Gran Kan.
Un numero talmente grande che ormai si è fatto difficile da contare per il sovrano a causa della infinita lontananza della sua reggia dai confini estremi del suo regno.
Ad ovviare a questa sconveniente ignoranza del Kan c’è Marco Polo, che da mercante veneziano è diventato il messo ufficiale dell’imperatore dei Tartari.
Un bel salto di qualità per un ragazzo cresciuto tra le strade di Venezia e diventato uno dei più stretti confidenti dell’Imperatore nonostante le sue carenze linguistiche.
C’è qualcosa in Polo che affascina il Kan, la sua infinita capacità di raccontare il mondo, di cogliere l’insondabile, come se la verità gli si rivelasse inequivocabile davanti agli occhi e avesse l’abilità di riproporla nella sua forma cristallina a chiunque lo ascolti.
Poco importa se la comunicazione tra i due all’inizio è difficile, a colpire il sovrano sono i gesti, i modi, i suoni che Marco articola per i suoi resoconti e la nitida immagine che essi formano nella mente di Kublai.
In questa cornice narrativa da Mille e Una Notte sono narrati notte per notte i resoconti di Marco, Le Città Invisibili che il messo dell’imperatore ha incontrato sul suo cammino, tutte fantastiche, tutte con nomi di donna e tutte così immensamente diverse da quelle che il Kan vede annotate nelle sue seppur dettagliatissime mappe.
Le Città invisibili sono vere e false allo stesso tempo, frutto della sapiente combinazione di elementi appartenenti a città lontane e diverse eppure accomunate da un tratto d’unione che le classifica.
Così, il numero delle città che compongono l’impero dei Tartari diventa sconfinato per davvero, ignorando i limiti geografici del regno per abbracciare tutte le infinite città possibili che la mente umana può esplorare che siano esse passate, presenti e future, tutte compresse nelle narrazione del mercante che di volta in volta descrive una parte di una verità universale così complessa da essere impossibile da osservare tutta insieme.
Marco Polo descrive per punti di vista una realtà multiforme.
“Finchè ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere.”
Italo Calvino compie il suo gioco combinatorio con matematica scrupolosità.
Il libro non ha una fine vera e propria, non si conclude nel senso classico del termine, non ha una trama orizzontale e così i dialoghi di intermezzo quanto i resoconti possono essere letti in qualsiasi ordine.
Qualcuno smaliziano lo definirebbe un libro “circolare” ma è una definizione che non mi piace molto.
La cosa importante che fa inoltre Calvino è lasciare agli studenti di architettura un manuale del possibile che nel corso degli anni si è sedimentato in una certa cultura fino a diventarne una pietra angolare.
Gli studenti di architettura hanno un grande debito con Italo Calvino.
La sua opera per chi ha intenzione di fare questo mestiere oggi è una lettura imprescindibile.
Prima di tutta, nei suoi aspetti meramente descrittivi, fornisce un registro di forme che sarebbe corretto definire iperuraniche.
Quando Polo parla, ad esempio, di una cupola, non ne specifica mai la forma, non descrive lo stile né i materiali o le decorazioni. Quella cupola è tutte le cupole, sta a chi legge darle sostanza e, nel caso che a leggere è uno studente di architettura, immaginare quella forma diventare disegno e poi progetto.
Le Città invisibili diventa una miniera di ispirazioni.
L’altro indiscusso pregio da riconoscere a Calvino è sul piano linguistico.
150 pagine che scorrono lisce in un pomeriggio eppure dense di immagini estremamente vivide e tra le quali ognuno può trovare il suo nucleo di affezione, la sua tematica dominante.
Non è facile trovare un equivalente in nessun libro di architettura “alta”.
Inoltre la narrazione che fa Calvino dell’ambiente urbano cambia a seconda del punto di vista che sceglie per “classificare” le città che Marco incontra. Ciò fornisce uno strumento utilissimo a chi sa coglierne la delicatezza.
Non sono i metri che separano le strade dalle piazze, il numero dei merli dei bastioni delle mura, non il numero di pietre o la quantità di cemento di cui è composta una reggia a descriverne la qualità.
Calvino è un narratore e non un progettista, ma invita a prendere in considerazione la logica narrativa che ha lo sviluppo dello spazio abitato e che va oltre mere valutazioni quantitative e qualitative.
Calvino descrive le città attraverso la vita che serpeggia per le strade, dal punto di vista del viaggiatore occasionale, del cittadino stabile, del mercante, del costruttore.
A modo suo ricorda allo studente estremamente innamorato del proprio lavoro che tutti i progetti sono solo linee sulla carta e poligoni tridimensionali fino a che non vi è instillata la scintilla vitale dell’umanità.
A poco e niente serve inserire nelle immagini renderizzate all’estremo fino al tanto agognato fotorealismo tristi figurine di persone intente ad attività quotidiana se non si riesce ad evocare il sogno della vita.
Il linguaggio di Calvino riesce ad essere sempre semplice. Non si perde in articolate costruzioni, non si sforza di imprimere al testo un tono aulico. Tutto ciò avvicina estremamente il lettore al narratore e facilita l'assimilazione di concetti anche estremamente complessi.
Questo stile rientra a pieno titolo del sapiente mixaggio di concetti elevati con un linguaggio semplice e che diventa la forma perfetta di comunicazione da adottare per la descrizione del proprio progetto ad una platea più ampia.
Perdersi dietro intellettualismi, scelte linguistiche barocche, molto spesso, è un'operazione superflua, qualunque messaggio male esposto perde di efficacia, anche quello più importante. Utilizzare un tono necessariamente elevato fa perdere di credibilità perché rende la comunicazione meno spontanea.
"Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può che essere la città infernale, ed è la in fondo che, in una spirale sempre più stretta ci risucchia la corrente.E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
Vengono esposti i veri timori del Kan, non l'essere sconfitto in battaglia e perdere la sua vita e il suo impero, ma che tutti gli sforzi compiuti valgano a nulla nel momento che tra tante città l'unica che non si può evitare di vistare è l'inferno.