Kraven il Cacciatore manca il bersaglio
Sony tenta di rinnovare il genere con toni più maturi e intensi. Ma "Kraven - Il Cacciatore" finisce per essere un altro cinecomic prevedibile
Quando pensi che il Sony Spider-Man Universe abbia esaurito le frecce al proprio arco, arriva Kraven - Il Cacciatore con l’intenzione di riscrivere le regole del gioco.
Aaron Taylor-Johnson, con il suo carisma fisico, incarna un Kraven che sulla carta avrebbe potuto essere un anti-eroe brutale e affascinante: capace di conquistare un pubblico maturo ormai saturo della formula ripetitiva del Marvel Cinematic Universe. Con la sua classificazione “Restricted” negli Stati Uniti, il film promette un approccio più adulto, tra violenza visiva e complessità emotiva.
Ma quello che poteva essere il film della rinascita, si rivela un prodotto che non riesce a distinguersi dai predecessori: il regista, J. C. Chandor, finisce per impantanarsi in una trama scontata.
La nascita del Cacciatore
Il cuore della storia è il tormentato rapporto di Sergei Kravinoff (Aaron Taylor-Johnson) con suo padre, il gangster Nikolai Kravinoff (Russell Crowe). Intrappolati nella più classica dinamica di abusi emotivi, Nikolai conduce i figli Sergei e Dimitri (Fred Hechinger) in Africa, dove il futuro Kraven vive un’esperienza soprannaturale durante un safari: lì conosce Calypso (Ariana DeBose), sciamana in erba, che lo salva da morte certa. Il resto è tutto abbastanza prevedibile. Le dinamiche familiari, che potrebbero essere il motore emotivo del film, sono ridotte a una serie di stereotipi: il padre tirannico, il figlio ribelle, il fratello fragile.
La narrazione soffre anche di una lentezza strutturale che aggrava ulteriormente il problema. Non si tratta di un problema di ritmo in sé – le scene d’azione sono presenti e ben posizionate – ma di una mancanza di urgenza narrativa. Il problema è che ci troviamo davanti al più classico complesso di Edipo: per crescere, il nostro Sergei dovrebbe sconfiggere (o uccidere?) il padre, ma questo conflitto finisce relegato in uno schema stereotipato.
Anche l’estetica visiva limita il respiro del film, con una fotografia soffocante: eppure all’opera c’è il fin qui apprezzato Ben Davis, che già aveva firmato altri film del MCU. Le scelte di ripresa risultano claustrofobiche e poco ispirate, con una Londra e una natura siberiana (in realtà l’Islanda) che non riescono a trasmettere la grandiosità che un personaggio come Kraven meriterebbe. La CGI, efficace in alcuni momenti, a tratti appare poco convincente: limitando ulteriormente l’impatto di alcune delle sequenze più dinamiche.
Certo, Taylor-Jonhson a torso nudo è un bello spettacolo: ma gli addominali scolpiti non bastano a donare carisma al suo Cacciatore. È inevitabile il confronto con Black Panther, l’altro anti-eroe carismatico del Marvel Cinematic Universe e suo antagonista sulla carta: Black Panther tentava una manovra simile a schermo, raccontare un’epopea familiare ambientata in un contesto visivamente suggestivo, capace in quel caso di combinare bellezza e sostanza. Kraven - Il Cacciatore non riesce a costruire un immaginario altrettanto convincente: a noi resta un personaggio statico, privo del fascino necessario per emergere tra gli anti-eroi. Black Panther costruiva sul grande schermo un’estetica distintiva e al contempo un’identità culturale credibile: lo stesso non succede in questo caso.
Lo stallo del cinecomic
Kraven - Il Cacciatore è l’ennesima dimostrazione dello stallo creativo in cui sembra trovarsi il genere cinecomic. Rappresenta un ulteriore tentativo di Sony di ampliare il suo Spider-Man Universe, ma non riesce a raggiungere il pieno potenziale di un film che avrebbe potuto segnare la svolta. Sebbene sia evidente lo sforzo di proporre una narrazione più adulta, il film si perde in scelte prevedibili. Arrivati a questo punto, in ogni caso, non ha neppure senso insistere sulle scelte di Sony confrontate con quelle di Disney.
Dopo oltre un decennio di successi, culminati nella conclusione della Fase 3 del Marvel Cinematic Universe, siamo entrati in una fase in cui le nuove storie sembrano sempre meno innovative e sempre più legate a schemi consolidati. In questo caso si tenta di bissare l’esperienza positiva di Venom: ma Sony continua a inseguire un progetto di cui fin qui non siamo ancora riusciti a intuire la direzione narrativa, misurandosi con un mercato saturo e un pubblico che inizia a stancarsi di ricette già sperimentate.
Siamo costretti a guardare per la terza volta l’origin-story di un personaggio minore dei fumetti Marvel: Morbius, Madame Web, e se volete è già successo anche con Venom (addirittura in tre film) e pure con l’Avvoltoio nel primo Spider-Man con protagonista Tom Holland. La costruzione di questo universo non pare arrivare mai a conclusione.
Il ritorno di volti storici del MCU come Chris Evans o Robert Downey Jr. evidenzia la difficoltà del genere a rinnovarsi, affidandosi a formule sicure invece di esplorare nuove strade. Forse è il momento per i cinecomic di fermarsi, per i grandi studios di riflettere su ciò che può davvero riportare entusiasmo e freschezza a questo genere e chiedersi cosa possa realmente entusiasmare un pubblico sempre più distante. Forse siamo noi ad esserci stancati di questo topos narrativo, forse la necessità continua di trovare volti nuovi e nuove storie ha finito per diventare un obiettivo commerciale più che artistico.
La caccia a un nuovo ciclo di successi è aperta: ma il cacciatore, questa volta, non sembra centrare il bersaglio.