La leggenda di Hokuto o perché alcune cose devono rimanere confinate all’infanzia
In occasione dei 35 anni di uscita del famoso manga Hokuto no Ken, è tornato al cinema il film La leggenda di Hokuto. Una riflessione a caldo.
Il 25 e il 26 settembre, per festeggiare i trentacinque anni di uscita del famoso manga Hokuto no Ken, è stato proiettato al cinema l’ultimo film dedicato a uno dei personaggi più amati dai trenta/quarantenni di oggi, Ken il guerriero – la Leggenda di Hokuto.
Il lungometraggio si inserisce in un arco narrativo più ampio, formato da cinque film: La leggenda di Hokuto, La leggenda di Julia, La leggenda di Raoul, La leggenda di Toki e La leggenda del vero salvatore. Evidentemente l’originalità è stata usata tutta per i contenuti, tralasciando i titoli.
Al di là del facile umorismo, il personaggio di Ken il guerriero e tutta la combriccola dei personaggi della serie animata – dell’esistenza del manga ne sono venuto a conoscenza solo da adulto – sono stati una buona compagnia per tutta la mia infanzia e quindi ho partecipato alla serata con grandi aspettative.
La leggenda di Hokuto si inserisce perfettamente nella continuity della serie animata diventata oggetto di culto. Gli eventi narrati, infatti, hanno per protagonisti gli stessi personaggi: i tre fratelli Ken, Toki e Raoul, e poi Sauzer, Bart, Lynn e tutti gli altri comprimari. Inoltre, il film è un sostanziale raccordo tra quanto accade durante l’infanzia di Kenshiro – l’allenamento e la formazione alla divina scuola di Hokuto – e l’inizio dello scontro tra il protagonista e il principale antagonista del cartone animato, il fratello Raoul. Nel lungometraggio, però, l’avversario di Ken è Souther (o Sauzer che dir si voglia), meglio conosciuto con il sobrio soprannome di Imperatore del secolo, autoproclamatosi dittatore del mondo post apocalittico in cui l’umanità è sprofondata e unico uomo del mondo conosciuto su cui le tecniche della scuola di Hokuto non hanno alcun effetto.
Le due ore scarse di film accompagnano lo spettatore sul percorso che compie il protagonista, alla ricerca del segreto della (presunta) imbattibilità di Sauzer.
La proiezione non ha riservato sorprese, ogni aspettativa è stata soddisfatta. La giusta dose di gore, con i corpi deformati e le teste esplose dopo il contatto coi punti di pressione, le ambientazioni post apocalittiche che tanto devono a un certo tipo di fantascienza (Mad Max e simili su tutti), uomini sproporzionati e immensi, donne esili e fragili (con le dovute eccezioni!), contrapposizioni tra bene puro e male assoluto ma soprattutto, mazzate a non finire, frasi a effetto da manuale e una buona razione di uatatatatatatatataaaaah.
Mentre guardavo il film, però, un pensiero si faceva strada tra le immagini non censurate di morte e distruzione: ha senso, oggi, rivedere un prodotto nuovo che è rimasto identico a sé stesso?
Provo a elaborare: è ben diverso vedere un classico che è invecchiato bene (Gli uccelli di Hitchcock o 2001: Odissea nello spazio di Kubrick), un tema classico che è stato rielaborato alla luce della narrazione moderna (Rogue One o tutti i nuovi film di Star Wars o The cabin in the wood) o ancora assistere alla proiezione di un normalissimo remake (Robocop, Ghostbusters, ecc.).
In tutti questi casi, sappiamo – bene o male – a cosa stiamo per assistere e le aspettative che ci facciamo si regolano di conseguenza.
Entrando al cinema canticchiavo la sigla di apertura del cartone animato (Mai, mai, scorderai/ l’attimo, la terrà che tremò… so che l’avete letta canticchiando e che adesso state proseguendo con la canzone) e mi sentivo esaltato come quando ero bambino, quando sapevo che per la mezz’ora successiva avrei vissuto avventure fantastiche e provato a sconfiggere i cattivi insieme a Kenshiro. Seduto in sala la sensazione piacevole è durata per la prima oretta, sostituita da un generale malessere non bene identificato.
C’è voluto il sacrificio di Shu a farmi realizzare il tutto: mi stavo annoiando, niente di più, niente di meno. Da qui l’elaborazione del pensiero sopracitato.
Ho cercato di razionalizzare e mi sono dato qualche risposta.
La prima riguarda il mio gusto personale: dal bambino di dieci anni all'uomo di trentasei c’è una bella differenza in termini di materiale visto, letto e ascoltato. Evidentemente, il mio gusto attuale non è più in grado di cogliere il piacere di questo tipo di visioni. Questa risposta, però, apparentemente cozza contro l’ebbrezza che provo quando rivedo alcuni grandi classici di cui sopra.
La seconda è sul disincanto a cui la crescita mi ha abituato: sono diventato un fan del genere horror, ho visto cose che voi umani e così via. Eppure, le scene splatter del film erano le più divertenti.
La terza si concentra sulla modalità narrativa, la costruzione dei personaggi e la trama: in La leggenda di Hokuto si passa direttamente dal bianco al nero, non ci sono sfumature nelle motivazioni dei personaggi e la storia prosegue senza alcuna suspense verso la fine. Questo, forse, è l’aspetto più lampante.
Nessuna di queste tre risposte, da sola, è riuscita a spiegare perché io mi stessi annoiando: l’amaro in bocca non è dovuto a un singolo fattore ma a tutte le concause di cui sopra, tutte ugualmente responsabili.
La leggenda di Hokuto è rimasta ferma alla nascita del manga, anzi alle prime puntate messe in onda su Telecapri, nei lontani e ruggenti anni ’80.
Da allora non sono stati fatti passi in avanti, anzi: il film rispecchia il modo di narrare dell’epoca e anche la sua (ovvia) ingenuità. Se a questo aggiungete che un puntata dell’anime durava venti minuti scarsi e invece il film quasi due ore – stiracchiando al massimo gli avvenimenti – troverete la risposta definitiva al mio malessere.
Questo vuol dire che film del genere siano da evitare?
No, ma solo che bisogna tarare le aspettative su quello che si sta per vedere e, in alcuni casi, portarsi appresso il sé stesso decenne a cui chiedere in prestito la capacità di sorprendersi.