James Bond: analizziamo l'era Craig in attesa di No Time To Die
Sta per calare il sipario sul James Bond di Daniel Craig, ripercorriamo assieme quale è stato il suo apporto all'agente segreto più famoso del mondo
“Piuttosto che fare un altro James Bond preferisco tagliarmi le vene”. Quando, alla fine di ottobre del 2015, viene ufficialmente alzato il velo su “Spectre”, ultima fatica della saga di 007, una frase lascia pubblico e addetti ai lavori stupiti. Non tanto per la notizia, quanto per il tono. Daniel Craig, autore della dichiarazione precedente, consegna pistola, smoking e licenza di uccidere.
Giunto al quarto film della serie, le sue parole risuonano come quelle di un uomo intrappolato in una parte. Prigioniero di James come un Raoul Silva qualsiasi. Sottoposto alla tortura di “Bond, il mio nome è Bond” talmente tanto da rischiare di poter affogarci dentro. Che, per ogni attore che abbia vestito i panni del personaggio di Fleming, esista un inizio e una fine, è fisiologico. Che l’uomo simbolo del riuscito reboot pronunci una dichiarazione del genere, stretto tra Barbara Broccoli e l’altrettanto stanco regista Sam Mendes, suona perlomeno stonato.
E allora, a un lustro di distanza, la domanda resta una sola: perché il buon Daniel ha deciso di allungare l’agonia (parole o comunque sensazione sua) di un altro film, invece che gettarsi su altri progetti?
Forse, è ancora presto per trovare o pretendere una risposta. Il lato economico, certamente, può essere un indizio, ma forse c’è di più. Sta di fatto che, pandemia permettendo, in autunno la EON lancerà finalmente “No Time to Die”. Venticinquesima pellicola di una serie che dura da mezzo secolo, firmata Cary Fukunaga alla regia e Daniel Craig, questa volta sì, all’ultima recita. Tralasciando la trama, le sue connessioni con la Jamaica tanto cara al papà dell’agente doppiozero, è sintomatico pensare che, arrivati al quinto film, sia giusto tracciare un bilancio dell’epoca Craig, durata un quindicennio.
Nessuna recensione, né una sorta di operazione nostalgia. Semplicemente un quesito: quanto e come, Mr Craig ha cambiato questo ruolo, soprattutto se comparato con il periodo targato Pierce Brosnan?
Se, come è indubbio che sia, c’è stata una evoluzione del personaggio, dal Connery di “Licenza di uccidere” ai giorni nostri, è altrettanto chiaro che, per la prima volta, con l’approdo dell’attore di Chester, la famiglia Broccoli abbia provato un “all in”. Una sorta di tabula rasa con il passato. E per farlo, la EON è andata a rovistare tra l’universo dei comic e dei super eroi, alla ricerca di una parola che lo sottolineasse più di qualsiasi altra: reboot.
Nell’anno di grazia 2006, quando la guerra cinematografica tra Marvel e DC era lungi dal partire, la saga di spionaggio – azione più celebre di sempre, con un bagno di umiltà, confermava la sua scelta. Si riparte da zero. Sì, ma uno “zero” diverso. Non solo il nuovo attore, e questo, gossip sulla scelta a parte, è l’aspetto più logico. Tantomeno il (quasi) nuovo regista, con il ritorno di Martin Campbell al ciak. Il progetto va molto al di là. Con “La morte può attendere” si era arrivati a un punto di non ritorno.
E c’era un solo modo per non fare affondare decenni di film tra caricaturali villain e sceneggiature di Serie B. Far rinascere il protagonista. Farlo ripartire dai suoi anni giovanili. Tra fantasmi infantili che riaffiorano, la concessione della licenza 00, il carattere così ingovernabile. Un misto di arroganza, egoismo e disprezzo per le regole che deve per forza essere tenuto a freno. Ed ecco un’altra trovata geniale.
Bond ritorna alle origini, è vero, ma non tutto deve essere buttato. Il pubblico ha bisogno di un collante, di un personaggio rassicurante che agisca da connessione tra le varie “vite” dell’elegante killer. E allora, si punta sulla conferma di Judi Dench come “M” e Dio solo sa perché l’Academy l’abbia ignorata per la sua interpretazione in “Skyfall”.
Prima di capire se l’azzardo ha funzionato, però, è necessario ancora un passo indietro nella storia. Il Bond di Brosnan dura un decennio, condito da quattro film. Al di là della parte visiva, effetti speciali e quant’altro, se mettiamo allo specchio i due, è impossibile non notare le differenze.
Innanzitutto, nonostante gli sceneggiatori siano rimasti tali dal lontano 1999, salta subito all’occhio il “realismo” se così si può definire dello 007 made by Craig, rispetto al suo antecedente. Il quale, forse per estrema mancanza di idee, nella pellicola del 2002 doveva confrontarsi con un tycoon dei diamanti sudafricano, il quale era solamente la maschera del super villain nordcoreano di inizio film. Una forzatura tanto estrema, da apparire comica. Senza scomodare la scienza dei trapianti di organi e di cambio dei connotati, eravamo più vicini a “Face/Off” che a Roger Moore e Sean Connery.
Ma questo calcare la mano nel dipingere i cattivi all’estremo si era già vista in “Il mondo non basta”, dove il full monty Robert Carlyle si trasformava in un terrorista semi immortale e incapace di provare dolore, per via di un proiettile conficcato in chissà quale parte del cranio. Meglio, leggermente meglio era stato il Johnathan Pryce de “Il domani non muore mai”.
Non tanto per il ruolo, abbastanza caricaturale, di un magnate dell’editoria disposto a tutto pur di raccontare per primo la Terza Guerra mondiale. Quanto per il fatto che quel Bond anticipava, o forse confermava, il potere dei media nel mondo di oggi. Non essendo ancora Facebook nei pensieri di papà Zuckerberg, è probabile che avessimo a che fare con un veggente.
Incolpare il solo ruolo degli antagonisti, però, non è del tutto corretto. Il buon James appariva sempre più senza anima, vittima della bulimia da esplosioni e morti troppo spettacolari, trame piatte, che sembravano scritte con il solo interesse di stimolare il pubblico sul quesito “quali location solcherà il nostro eroe”.
E, alla fine, le due ore di film erano un misto tra un giro del mondo mordi e fuggi stile “Sereno Variabile” (la Baku del ’99, la Cuba di tre anni dopo, Bilbao, Bangkok eccetera), un compensato di bombe, fiamme ed effetti speciali e le immancabili conquiste sedotte e abbandonate prima che morte ci separi.
E lui? La spia nata dalla pena di Sir Fleming? Quello capace di far battere d’orgoglio la Britannia intera (non male, visto che Brosnan è Irish)? Relegato in un angolo, vittima dei sopracitati cliché e delle solite battute ammiccanti. Un Bond svuotato, vecchio, curioso solo di provare i nuovi marchingegni del fido Q. Di cosa abbia rappresentato, in quarant’anni di storia, non vi era traccia. Vecchio, sì, ma non di anzianità. Come personaggio. Immobile e anacronistico, mentre il mondo non solo “non bastava”, ma cambiava troppo velocemente.
In quei casi, è questione di rapidità di scelte. Davanti all’ultima fermata, o si scende tutti o si tira il freno a mano e si riparte da un foglio bianco. Barbara Broccoli, che non per altro guida la EON con lo stesso piglio del papà Albert, non perde tempo.
Violento, vittima degli incubi di una infanzia vissuta da orfano, mal visto e disprezzato dai suoi coetanei. Poco propenso al dialogo, dalla risposta pronta e secca. La nascita di un eroe, se tale possiamo chiamarlo. L’entrata nel MI6, che lo plasma, bastone e carota sotto gli occhi di M. Ne forma le potenzialità tenendolo a bada, mentre il futuro licenza di uccidere morde il freno. L’idea, e si perdonerà il paragone per molti eccessivo, è simile alla trilogia del Batman di Nolan.
Il pubblico è stanco. Ci vuole un ritorno al principio. Far conoscere Bond, il Bond insicuro e a tratti maleducato.
Nessuno nasce invincibile. Non esistono cavalieri senza macchia e senza paura, se non nelle favole. Ma qui siamo nel ventunesimo secolo e i racconti e le fiabe al “nostro” interessano poco. Bisogna ricostruirlo, partendo dalle fondamenta. Mettendolo a nudo, per la prima volta fallibile. Facile nel perdere il controllo, a tratti, vedi in “Skyfall” quasi sconfitto, più da sé stesso che dai suoi rivali. Che riconoscono in questa debolezza un punto in comune.
Iconica la scena dell’incontro con Silva/Bardem nell’isola – quartier generale. Due agenti segreti. Anni di morte e violenza stampata nei loro occhi. La fedeltà a una idea. Il tradimento e la scelta. Due poli talmente lontani che quasi si attraggono, come se il villain non fosse altro che una personalità nascosta di Bond.
É questo, al netto di scritture più consone alla nostra epoca e una trama depurata da troppi effetti speciali, la chiave dello 007 targato Daniel Craig. Dopo decenni di binomio buoni/cattivi, la saga al servizio di Sua Maestà scoperchia un mondo dal quale il cinema, ancora oggi, attinge a piene mani. La fine del duopolio Usa – Unione Sovietica è troppo datata per inseguirla ancora. Un personaggio più “umano”, vittima di debolezza quanto e come noi.
Tanto insicuro quanto reale, tanto pericoloso come in pericolo. Sempre sul limite dell’essere messo alla porta per quel suo carattere che ancora non si è formato. Lato debole esposto, dentro il quale tutti possono infilare il coltello.
Anche l’amata Vesper Lynd, che sul quel treno per Podgorica, ne traccia una relazione degna del miglior Freud, lasciando il protagonista silente e quasi umiliato. Già, le donne.
Da ambita collezione che, in un mondo molto “fluid” suonava troppo maschilista, a parte integrante della trama. La scoperta dell’amore, proprio in Vesper, che non si vedeva dai tempi di George Lazenby, un Bond addirittura sposato. E chissà come finirà con la bellezza etera di Lea Seydoux, alias Madeleine Swann. Riuscirà, lei figlia di un rivale tanto temuto quanto rispettato dall’agente segreto, a fargli cambiare strada? É davvero vicina la strada dell’addio? O sarà solo un espediente narrativo per la prossima ripartenza?
Certo, ne è passato di tempo dalle Halle Berry e Denise Richards sedotte, coinvolte e abbandonate senza che spiccicassero più che una decina di parole per un veloce invito a letto. Perché se è vero che Bond si è evoluto, lo stesso possiamo dire delle ormai famose “Bond Girl”. Dall’ambigua Eva Green di “Casino Royale” alla combattiva Olga Kurylenko, entrata addirittura nel Guinness dei Primati per non essersi concessa al nostro agente, segnando un altro spartiacque notevole nella genesi della saga.
Per finire, dopo aver ammirato ad occhi spalancati la bellezza franco – indocinese di Berenice Marlhoe, con una “nuova” Miss Moneypenny. Anche lei, come il protagonista, nuova non solo nell’attrice.
Messa in un cassetto, per fortuna, l’eterno cliché della segretaria bruttina e innamorata, ecco pronto l’evoluzione del ruolo. Giovane, bella, atletica e soprattutto…in azione. Un agente segreto anch’essa, poco propensa alle carinerie, che sfida il suo collega senza essergli inferiore. Alla pari, senza più quegli occhi dolci così sciocchi e demodé che avevano fatto il loro tempo già da qualche decade.
Che eredità resta dei cinque film della rinascita di Mr. Bond dunque? Si tratta solo di un ritorno al passato, per evitare di diventare vittima del personaggio stesso? O davvero il filone continuerà, anche con il nuovo cast? Sicuramente, il cambio di passo nei plot ha aiutato e non poco. Davvero non era il caso di insistere sulla spettacolarizzazione del duello eroe – cattivo.
Il mondo bipolare diviso dalla cortina di ferro è sepolto da tempo e sulla lapida vi è impressa una data che, approssimativamente, potremmo indicare come fine anni ’80 – inizio ’90. Il pianeta sta sperimentando nuovi tipi di minacce. Sintomatico, ad esempio, il richiamo alla lotta per le risorse naturali, come l’acqua, in “Quantum of Solace”. O alla finanza, in “Casino Royale”. Prima l’antagonista sperimentava razzi spaziali per annientare il genere umano, ora la paura corre su Internet, tra guerre telecomandate e operazioni di borsa volte a destabilizzare governi e dittature. In quel mondo si muove Bond. In quel mondo dovrà muoversi il suo erede, che sia esso donna, nero o dal solito, immortale look.
Ancorato al passato e ai topic dei film, certo. Le penne esplosive di Q, l’Aston Martin tirata a lucido, il solito vodka Martini agitato non mescolato, il ritorno della nemesi Blofeld. Ma, allo stesso tempo, predisposto per andare ancora oltre. Evolversi per non perdersi, proprio come l’operazione di make up lanciata, con successo, tra il 2005 e il 2006. E, forse chissà, gran parte di tutto ciò sarà visibile nel prossimo “No Time to Die”.
Per ora, classico trailer a parte, si sa solo che ha visto la rinuncia alla regia del grande Danny Boyle. La produzione si è tuffata su Fukunaga, alla sua quarta opera come regista cinematografico. Il resto è legato a una trama che, sembra, collegarsi molto alle ultime due fatiche firmate Mendes. Un nemico personale, un’ombra che ritorna inaspettata e che ferisce il protagonista. Nell’animo, più che nel fisico. L’ennesimo tentativo di rimettersi alla prova, nonostante in tanti, da M a scendere, gli facciano capire che forse, per James, l’età della pensione stia arrivando per davvero.
Noi, in tutta sincerità, a godersi il suo drink su una baia giamaicana affacciata sul mar caraibico, non ce lo immaginiamo proprio. Già in “Skyfall” ebbe il tempo di “godersi la morte (presunta)”, ma durò poco. Un ultimo duello, contro il premio Oscar Rami Malek, Christoph Waltz come fantasma dal passato, e poi il sipario calerà di nuovo. Il tempo di metabolizzare, criticare o enfatizzare il film numero 25 e poi sarà tempo di gossip. Chi sarà il nuovo Bond? Nomi evergreen, come Tom Hiddlestone? Variazioni sul tema stile Idris Elba? Qualche nome sconosciuto? O il debutto di una “Bond girl”, questa volta protagonista?
Quesiti che necessitano di tempo. Al momento, la sola attesa è capire realmente quando poter tornare in sala per gustarsi il mix di azione, spionaggio e ironia, miscela perfetta che la EON shakera con maestria da tempo. E chissà che, nella sicurezza, questa volta, di poter passare il testimone al nuovo erede, Daniel Craig non sarà più a suo agio e rilassato nella press conference di anteprima. In quella di cinque anni orsono, quella frase sinistra rimbombò come una pietra tombale, salvo poi rivelarsi solo come un teatrale arrivederci. Segno che per James Bond gli anni passano, ma le sorprese, quelle, proprio come il domani, non muoiono davvero mai.