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Indiana Jones, il mito non muore.. Ma non sta neanche troppo bene

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Il quinto capitolo della saga dell'archeologo più famoso del grande schermo non decolla e lascia l'amaro in bocca per le prospettive future. Cosa è andato storto e quando?

I primi quattro film di Indiana Jones si aprono con il logo della Paramount che diventa un elemento visivo diegetico: una vera montagna, il fregio di un gong, il mucchio di terra sollevato da una talpa. Nel quinto episodio della saga, Indiana Jones e il Quadrante del Destino, il logo compare ma resta inerte di fronte a quello prominente della Disney, tanto per ricordare al pubblico chi è che tiene in pugno le redini del franchise. È emblematico ma non del tutto indicativo. Il disastroso fallimento di quest'ultimo capitolo della saga, infatti, ha diversi padri e il deragliamento del brand parte da lontano.

I Predatori dell'Arca Perduta e Indiana Jones e il Tempio Maledetto hanno cementato il mito dell'archeologo col cappello creato da George Lucas e Steven Spielberg, stabilendo gli elementi iconici del personaggio e del brand. Ispirato ai serial cinematografici anni '30, miniera inesauribile d'ispirazione per tanti registi emersi tra gli anni '70 ed '80, Indiana Jones mescola il fascino dell'intellettuale accademico con quello dell'antieroe action dalla scorza dura e il cuore tenero. La ricerca del manufatto mistico è solo un pretesto per gag slapstick mirabolanti, scazzottate, elementi esotici, bestie raccapriccianti e pure un pizzico di splatter, tutto in miracoloso equilibrio tra dark e humour con l'anima musicale, iconica ed incalzante, di John Williams.

Poi, nel 1989, esce Indiana Jones e l'Ultima Crociata, un gioiello che, nonostante alcuni punti deboli nella sceneggiatura (fidatevi, ce ne sono) funziona perché propone un registro opposto ai primi due episodi, favola familiare e commedia on the road con l'eroe tutto d'un pezzo destrutturato (ma non ridimensionato) nel confronto col padre. Spielberg, fissato col tema della famiglia, decide di proseguire la saga su questo registro portando a quel primo grosso passo falso che è stato Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, affogato in eccessi d'intimismo, la ricerca del manufatto diluita in pedanti spiegoni, gag stantie e ripetitive, una sovrabbondanza di personaggi inutili, cgi troppo invadente e, nell'epilogo, l'antieroe accalappiato e domato dal matrimonio.

Il resto è storia recente. La Disney acquista la Lucasfilm con l'intenzione di rivitalizzarne tutti le proprietà intellettuali. Il quinto Indiana Jones resta nel limbo per un po' di tempo. Poi c'è il via libera. Lucas non c'è più, Spielberg decide di passare la cabina di regia a James Mangold che ha già avuto modo di trattare il mito invecchiato con il Logan della Marvel. Ora, prendete gli errori commessi con Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (dal quale viene riconfermato lo sceneggiatore David Koepp), metteli insieme al servilismo fan service della nuova trilogia di Star Wars, e avrete un'idea dell'inerte pasticcio che vi aspetta.

L'ambizione meta-tematica è quella di raccontare l'eroe fuori dal suo tempo, incapace di esercitare il suo fascino sulle nuove generazioni. Gli fa da contraltare il concept attualissimo sui rigurgiti di un nazionalismo che non vuol saperne di tirare le cuoia. In mezzo c'è l'intimismo legacy, con un parziale retcon del precedente episodio per riprovarci con la figlioccia Phoebe Waller-Bridge. E, ancora una volta, regista e sceneggiatori preferiscono soffermarsi su questi elementi piuttosto che mettere sullo schermo quello spettacolo visivo che ci si aspetterebbe.

Pensate ad Indiana Jones e il Tempio Maledetto. George Lucas si trovava in un momento buio, stava divorziando. E il film raccontava di un surrogato familiare (Indy, Willie e Short) che scende all'inferno. Indiana diventa malvagio, picchia Short e sta per gettare Willie nella lava. Naturalmente seguono redenzione e riconciliazione fino al trionfo spielberghiano delle famiglie del villaggio che riabbracciano i bambini fuggiti dal tempio. Il tema c'è. Ma è intelligibile. Il film è asciutto, si concentra sull'azione e sulle gag. È cinema. Non ci sono didascalie, l'intimismo è ridotto all'osso. Ecco, qui accade l'esatto opposto. Gli sceneggiatori preferiscono scrivere il tema in fronte ai personaggi per dare una pretesa di profondità e autorialità alla storia.

E pure stavolta il gimmick, la ricerca del manufatto, è fin troppo articolato. Per trovare l'Arca dell'Alleanza, a Indiana serviva solo un medaglione da mettere in cima ad un'asta. Le pietre di Sankara? Indy sapeva fin dall'inizio dove si trovavano, il problema era andare a prenderle. Il Santo Graal? All'inizio della storia, papà Jones aveva già la mappa. Mancava solo il punto di partenza. Dopo neanche mezz'ora di film sapevamo già qual era il posto da raggiungere. A partire dal Teschio di Cristallo, invece, siamo passati ad una farraginosa caccia al tesoro a tappe didattiche, con meccanismi puzzle alla Tomb Raider-Uncharted.

Harrison Ford ci prova a tenere tutto in piedi, ad aggrapparsi alla vecchia grinta, a proporre un inedito Indiana burbero e malinconico. Phoebe Waller-Bridge gli ruba la scena più di una volta cercando di convincere il pubblico che lei è la predestinata a raccoglierne il testimone. Di contro, scordatevi l'esercito nazista, quello russo o le orde di Thugs della dea Kalì che Indiana affrontava praticamente da solo. Qui c'è un solo cattivo (Mads Mikkelsen) con un manipolo di scagnozzi a ridurre parecchio la portata epica della vicenda. Tutt'intorno un'accozzaglia di personaggi poco utili. Ethann Isidore è ripropone il modello Short Round meno spontaneo e più costruito. Antonio Banderas sta nel film cinque minuti e non sa neanche il perché, quello di Sallah è un cameo puramente fan service e la spia nera (Shaunette Renée Wilson) sembra introdotta solo in virtù del politicamente corretto.La componente action è svogliata e compassata. L'indiscusso talento registico di Mangold non riesce a renderla interessante e cerca di risolverla spesso con gli inseguimenti stradali rifacendosi alla sua esperienza con Le Mans '66 – La Grande Sfida. Non c'è una gag neanche lontanamente memorabile o iconica. Niente massi sferici che rotolano o inseguimenti sui carrelli da miniera. Una volta Indiana si arrampicava sui sommergibili e si lanciava dagli aerei su un canotto. Adesso usa un normalissimo paracadute. Si avverte il sapore dolciastro della glassa disneyana. Dimenticatevi facce che si sciolgono, cuori strappati dal petto e cattivi schiacciati nei rulli compressori. Al massimo avrete qualche sparatoria o colluttazione.

Il bestiario repellente è passato da serpenti, insetti e topi, reali o resi con effetti pratici, a brutte formiche digitali per arrivare qui ad anguille, sempre in cgi, né schifose né pericolose. E a proposito di effetti digitali, il chiacchierato deaging di Harrison Ford mostra ancora alcune imperfezioni, in special modo nella mimica, e alla lunga distrugge la sospensione dell'incredulità.

E veniamo alla pietra dello scandalo. Anche se non c'è stata alcuna conferma ufficiale, pare che ci siano state alcune proiezioni di prova del film con diversi finali. Pare che in uno di questi finali Indiana Jones morisse. Pare che in un altro finale, Pheobe Waller-Bridge diventasse la nuova Indiana Jones. Pare che nessuno di questi finali sia piaciuto al pubblico. Pare che la Disney sia andata nel panico. Pare. Ad ogni modo, in occasione del concerto tenuto lo scorso dicembre alla Scala di Milano, John Williams ha confermato che si sarebbe dovuto girare un nuovo finale. Ed è stata presa la decisione meno coraggiosa, più generica e accomodante, che tiene il franchise ibernato e non effettua nessun passo avanti. Esattamente quello che era successo con L'ascesa di Skywalker dopo che i fan si erano lamentati prima del fan service de Il Risveglio della Forza e poi del contro fan service de L'ultimo Jedi.

Kathleen Kennedy ha dichiarato che forse, un domani, chissà, la saga potrebbe proseguire con una serie tv per Disney Plus. Una verità il film la dice. Indiana Jones non riesce a stare al passo coi tempi e ad intercettare la sensibilità delle nuove generazioni. Ed è dolorosamente chiaro. Al momento, la Disney non sa che farsene.

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