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I Librigame - Una vita a bivi

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Operazione nostalgia: è questo il nome normalmente utilizzato per racchiudere quel fenomeno – in ambito principalmente cinematografico ma anche letterario o fumettistico – che sta riportando in auge i titoli di successo di una trentina di anni fa.

Operazione nostalgia: è questo il nome normalmente utilizzato per racchiudere quel fenomeno – in ambito principalmente cinematografico ma anche letterario o fumettistico – che sta riportando in auge i titoli di successo di una trentina di anni fa.

Un fenomeno che attira lodi e strali, senza vie di mezzo: tra chi annuncia che porterà i figli a vedere tutti i remake dei capolavori della sua infanzia e chi occupa il suo tempo ad alimentare campagne di odio sui social, provare a esprimere un’opinione minimamente pacata e moderata diventa ogni giorno più difficile.

Oggi proverò a fare entrambe le cose, ossia parlare della mia personale operazione nostalgia - traslandola in ambito letterario - e farlo senza raggiungere i superlativi assoluti che si sprecano in giro.

Nelle scorse settimane, facendo pulizia su uno scaffale di quella che un tempo era la mia camera di preadolescente, sono incappato in alcuni librigame, grande passatempo a cui dedicavo ore e ore. Immediatamente li ho fatti miei, rispolverati e portati nella casa in cui vivo adesso, perché trovare un piccolo tesoro come questo e non approfittarne sarebbe stato impudente.

Come nasce la mia passione per i librigame? Molto probabilmente da una furbata dei miei genitori che mi portavano in libreria a comprarne uno in occasione delle visite dal dentista.
Com’è, come non è, da piccolo ne ho collezionato una discreta quantità, saltabellando tra i generi – fantasy, fantascienza e horror su tutti – e coinvolgendo in questa piccola mania anche mio fratello e mia sorella. Un tipico esempio di passione intergenerazionale, insomma.

Per capire se i libri in questione, oltre a valicare le barriere tra le generazioni hanno valicato pure quelle del tempo, ho deciso di rigiocarli uno per uno.

Cosa ho scoperto?

Delle due l’una, innanzitutto: o da piccolo baravo clamorosamente, o la memoria trasfigura strepitosamente i ricordi.
Ricordavo piacevoli pomeriggi estivi passati a scartabellare tra le schede personaggio e le fantastiche avventure che le scelte sempre diverse mi facevano vivere e mi sono ritrovato, invece, perennemente incastrato nel corridoio di una casa infestata davanti a tre porte che puntualmente mi conducevano alla morte.
A un certo punto ho provato l’approccio soulslike: pazienza, rispetto per il gioco e tante bestemmie. Solo così sono arrivato in fondo alla mia prima avventura, con il personaggio sfiancato dalla battaglia e il mio ego finalmente appagato.

L’esperienza in questione mi ha insegnato che non tutte le operazioni nostalgia riescono col buco, ovvero che un’attività che ricordavamo come entusiasmante può essere dapprincipio frustrante, quindi noiosa e - infine - nella migliore delle ipotesi, vagamente soddisfacente.

Un’altra cosa che ho imparato è che quasi tutti i librigame sono invecchiati abbastanza bene, come il buon vino.
Perché da adulto ho provato ad andare più a fondo di quanto sia mai andato da bambino, appuntandomi i nomi degli autori e degli illustratori e facendo ricerche sulle loro opere, le loro influenze e le rispettive fonti d’ispirazione.

Ho quindi scoperto che Steve Jackson (l’autore della serie Sortilegio, uno dei miei primi approcci al fantasy) non solo è un abile compositore di libri game - provate a seguire il percorso del protagonista della serie e mi darete ragione, crescendo insieme a lui e imparando a capire i pericoli che si celano dietro le porte chiuse e ad apprendere a memoria gli incantesimi in dotazione - ma è anche tra i fondatori della Games Workshop, che tutti conoscerete per Warhammer e per aver contribuito al successo in Europa di Dungeons & Dragons. Una storia epica quasi quanto quelle narrate nei suoi libri, insomma.

Joe Dever, d’altro canto, non fu meno eclettico. Un passato da musicista al fianco dei Sex Pistols e di Peter Gabriel fino alla scoperta di D&D, che lo illuminò sulla via di Damasco (per quanti altri autori è stato così, pensateci un attimo!) e che lo portò a vincere un campionato mondiale di giochi di ruolo e a lanciarsi definitivamente nel settore ludico. Per un soffio, o meglio per poche sterline, il primo volume della famosa serie di Lupo Solitario non fu curato proprio dalla Games Workshop - altra coincidenza da far accapponare la pelle - ma dalla concorrente Hutchinson's. Non pago del successo della serie su Lupo Solitario, Dever si è lanciato anche nel mercato dei videogiochi, lavorando alla Sony in occasione del lancio della prima Playstation, allo sviluppo del background dei personaggi di Final Fantasy VII e su alcuni aspetti di Metal Gear Solid.
Insomma se avete avuto un pad in mano negli scorsi venti anni, un po’ della vostra passione la dovete anche a lui.

Meno seminale per il mondo dei giochi (da tavolo, letterari o video poco importa) ma altrettanto importante per me è stato Stephen Thraves, autore della serie di Rupert il selvaggio. In questo specifico caso, purtroppo, posso affermare con un buon livello di sicurezza che lasciare i libri in questione sullo scaffale della mia cameretta non sarebbe stato un errore. La trama a dir poco monotona, i colpi di scena telefonati e i mostri poco originali fanno di questa miniserie di due libri la più noiosa che si potesse trovare in giro. Eppure ai tempi l’avrò giocata e rigiocata innumerevoli volte, viste le condizioni attuali dei volumi.
Di Stephen Thraves si sono perse le tracce, forse perché su più forum dedicati al tema, già dai primi anni ’90 si gridava allo scandalo e i fan accaniti volevano il suo scalpo.

La mia passione per il fumetto deve molto anche agli illustratori dei librigame, molto spesso dimenticati dalle recensioni ma fondamentali quasi quanto gli autori - almeno per la prima selezione in libreria, che il piccolo lettore in questione faceva principalmente sulla base delle copertine.

In ordine di apparizione, John Blache, illustratore della serie Sortilegio, è passato alla storia principalmente per la realizzazione nientedimeno che della prima cover dell’edizione britannica di D&D (all’epoca lavorare con Steve Jackson significava anche e soprattutto giochi di ruolo e miniature, come già detto), mentre Tim Sell, copertinista di Dimensione Avventura si è spinto poco oltre, rimanendo nell’ambito delle copertine letterarie.
Melvyn Grant, copertinista di Viaggio Disperato, la prima delle avventure di Guerrieri della strada, una delle serie minori di Dever, aveva già un nome quando è stato chiamato a illustrare i volumi in questione: il suo stile ruvido, graffiante e pieno di dettagli era già stato notato dagli Iron Maiden che gli avevano commissionato svariate copertine dei loro album. Ora capisco perché quegli umani infettati dalle radiazioni mi ricordavano qualcosa.

Infine, tra gli illustratori dei miei libri, arriva Terry Oakes - copertinista di entrambi i volumi dell’infelice Rupert il selvaggio. In questo caso, converrebbe quasi tenersi solo le immagini, scartando il testo: Oakes, infatti, ha uno stile personalissimo ed efficace, con i chiaroscuri pesantemente marcati (ottimi per un’avventura ambientata principalmente in un dungeon) e dà ai suoi mostri un’aura malefica che da sola fa tremare i polsi. O perlomeno li faceva tremare al dodicenne del tempo.

Tra ricordi e revisionismo storico, la mia personale operazione nostalgia mi ha dato l’occasione per ritrovare una vecchia passione, attualizzandola e trovandone le influenze in giro per la cultura pop. (Che poi è come da queste parti intendiamo la nostalgia NdLorenzo)

Cosa sono le avventure testuali degli anni ’80 e ’90 se non dei libri game con un sostanziale miglioramento tecnologico? E non trovate curioso che uno dei fenomeni dell’ultim’ora (quel Detroit Become Human che ha dato la scossa al mondo videoludico) si basi esattamente sul principio fondante dei libri game?

Insomma, per quanto proviamo a dimenticare alcune cose o a lasciarle in fondo allo scaffale dei ricordi, queste prima o poi torneranno a farsi vedere, sotto una forma leggermente diversa.
Un po’ come i pantaloni a vita alta e le giacche con le spalline.

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