Gormenghast: il fantasy che non c’è
Un castello enorme, una burocrazia infinita, una fuga dal destino. Analisi dell'opera di Mervyn Peake che diventerà una serie tv grazie a Neil Gaiman
Pare che niente meno che Neil Gaiman sarà il produttore esecutivo dell’adattamento televisivo della trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake. Niente potrebbe rendermi più felice e sono certo che nessuno potrebbe fare un lavoro migliore, eppure fatico a immaginare in televisione una saga così intensa, anomala e originale, per il semplice fatto che non è definibile nemmeno in letteratura.
Definire Gormenghast una trilogia fantasy è quantomeno riduttivo. Dove risiede il fantasy in questo ciclo di romanzi? Di magico c’è molto poco e, quando c’è, è ridotto a elementi circostanziali: piccole cose che interferiscono pochissimo con la narrazione principale e che i personaggi danno per scontate. Non ci sono personaggi fantastici, tutti i caratteri del mondo descritto in Gormenghast sono esseri umani.
Tutti tranne uno: la sorella di latte del protagonista, cresciuta solitaria nei boschi diviene una sorta di creatura fatata, ma rimane sempre relegata alla cornice. Quasi una spettatrice esterna che tutto osserva e che i villici temono e disprezzano. Il suo ruolo nella narrazione rimane sempre indefinito e così i suoi presunti poteri magici. Questo modo di affrontare la magia, a mio avviso, avvicina la saga più al genere del realismo magico che a quello del fantasy.
Difficile quindi inquadrare la trilogia di Gormenghast entro un genere o una serie di generi, anche perché Mervy Peake è uno scrittore senza padri (e per il momento senza figli). Illustratore e poeta, approda alla narrativa inventandosi un genere tutto suo, genere che C.S. Lewis definirà per l’appunto “Gormenghastly”. Il Gormenghastly è quindi un genere dove coesistono il grottesco, il gotico, il surreale, l’epico, il realismo magico e il fantasy. Fantasy è l’ambientazione: un’immensa città-castello ai piedi del monte Gormenghast.
La città è un luogo immobile, al di fuori del tempo, completamente assoggettato ai suoi innumerevoli rituali millenari completamente inutili. E sarà proprio a causa di quei noiosi e assurdi rituali che il protagonista Tito deciderà di fuggire interrompendo così la millenaria discendenza del casato, distruggendo quindi il senso di una città che edifica la sua intera esistenza sui suoi riti e sulle sue tradizioni improbabili di cui nessuno comprende il significato, ma che tutti osservano con cieca lealtà e devozione.
Peake è uno scrittore barocco, che si perde in lunghissime e spesso prolisse descrizioni di luoghi e sensazioni. La lettura non è quasi mai agevole: il testo è aulico, difficile e spesso noioso, ma sempre e comunque poetico. Peake è infatti prima di tutto un poeta, e la poetica non abbandona mai l’autore, che inserisce in ogni periodo la sua visione delle cose, il suo senso del ritmo e della musicalità, il suo immaginario e la sua visionaria immaginazione.
Il Gormenghastly è quindi un genere dove coesistono il grottesco, il gotico, il surreale, l’epico, il realismo magico e il fantasy
Che sia bucolico o gotico (nelle descrizioni delle scene fuori e dentro le mura del castello), Peake ci fornisce sempre un’ampissima pennellata evocativa di tutte le cose e dei loro particolari, dalla pietra più piccola all’immensità gravosa del monte Gormenghast, dalle tribolazioni grottesche del servo più insignificante ai turbamenti rivoltosi e infuocati del giovane Tito. Tutto è scisso nelle due facce della stessa medaglia: i luoghi si dividono tra le labirintiche e infinite stanze della città-castello (descritte minuziosamente nella loro polvere, nella loro fatiscenza e nella loro claustrofobia) e la natura incontaminata della foresta intorno alla città ai piedi del monte (descritta nella sua arcadica perfezione come luogo pastorale, incantato e arioso); ogni personaggio allo stesso modo si divide tra i suoi sentimenti di lealtà e di arrivismo, di soggezione e di ribellione, di slanci e di ricadute.
I confini tra buoni e cattivi sono sottili e confusi: ogni personaggio viene descritto in tutte le sue sfaccettature, e spesso difetti e virtù sono così complessi da renderci odiosi i buoni e affascinanti i cattivi (cosa che dovrebbe accadere sempre nella buona narrativa, ma troppo spesso non succede). Ma è difficile dire chi sia il protagonista della saga: nel primo libro assistiamo ai primi due anni di vita di Tito, cosa che lo esclude automaticamente dalla schiera dei protagonisti. Eppure lo spazio dedicato agli altri personaggi è distribuito equamente, senza privilegi di sorta. Sta quindi a noi scegliere per chi tifare, nel bene e nel male.
In questo tipo di narrazione corale mi sembra che Peake abbia precorso le serie tv odierne in cui il vero protagonista non è uno dei personaggi ma l’arena stessa, e in ogni arena che si rispetti non ci si deve affezionare a nessuno perché tutti sono a rischio (vedi Game of Thrones). Anche qui infatti i personaggi vanno e vengono, muoiono o cambiano di registro, si macchiano di delitti e si redimono (o viceversa). È infatti Gormenghast stesso il vero personaggio della saga, l’arena, il microcosmo che tutto contiene.
C’è un segreto racchiuso tra le mura del castello, un segreto antico come le pietre che lo nascondono. L’autore lo menziona appena eppure esiste. Ferraguzzo, lo scaltro e diabolico arrampicatore sociale, ordisce piani elaboratissimi e meschini per diventare il successivo Maestro del rituale, l’unica persona in tutto il castello ad avere accesso ai segreti di Gormenghast.
Riuscirà nell’impresa, ma non avrà abbastanza tempo per accedere al segreto. Ho una teoria a riguardo: la componente surrealista della saga potrebbe in realtà contenere la spiegazione del segreto di Gormenghast. Come dicevo infatti, anche il surrealismo fa capolino tra i generi richiamati in questa saga e risiede proprio nell’assurdità dei rituali di Gormenghast: l’intera città-castello infatti si regge su un complesso sistema di norme completamente assurde e prive di significato.
La burocrazia kafkiana e surreale del castello provoca in Tito il moto di ribellione nei confronti di una tradizione inutile che egli interpreta come unico ostacolo alla propria libertà. Ma è proprio vero che i rituali di Gormenghast sono inutili? Fin dall’incoronazione, Tito, appena compiuti i due anni, manda a rotoli il rituale previsto gettando nel lago i simboli che doveva reggere.
Questo gesto viene ovviamente interpretato in modo funesto dal Maestro del rituale Barbacane che dà in escandescenze. Il primo libro termina in quel momento ma è proprio da lì che cominciano i guai nel castello.
La tradizione millenaria è stata minata e da quel momento ad ogni tentativo di sabotare la tradizione corrisponde qualcosa di sconvolgente, fino al culmine in cui Tito fugge nel bel mezzo della cerimonia delle sculture (la più importante tradizione di Gormenghast) manifestando tutta la sua ribellione: è proprio allora che comincia a cadere una pioggia talmente ostinata da allagare l’intera città, lasciando emersi solo i tetti e le guglie dei torrioni.
E allora forse è proprio qui che risiede il segreto (e il fantasy) di questa saga: una tradizione talmente antica e polverosa da non ricordarne più le origini, che viene perpetrata per lealtà al casato ma senza comprenderne il significato, in realtà potrebbe essere un antichissima, intricata e complessa macro-formula magica creata per tenere a bada la potenza della natura che altrimenti si scaglierebbe con tutta la sua furia contro il castello e i suoi abitanti.
Alla fine del secondo libro, Tito decide di andarsene, ignorando la madre che sostiene che non esista nulla al di fuori di Gormenghast (del resto nessuno ha mai lasciato la città e nessuno sa cosa ci sia al di là delle mura). Nel terzo libro scopriamo che fuori da Gormenghast esiste un mondo, ed è completamente diverso dall’ambientazione gotica e fantasy a cui eravamo abituati.
Veniamo così catapultati d’un tratto in un’atmosfera distopica e steampunk: al di là delle mura Tito scoprirà un mondo tecnologicamente avanzato fatto di mezzi che si spostano senza difficoltà dalla terra all’acqua all’aria, uno stato di polizia super controllato in cui i reietti vivono in una società underground sotto il letto di un fiume, un’immensa fabbrica che costruisce gioielli di tecnologia che in apparenza servirebbero a rendere liberi gli uomini ma che in realtà li schiavizzano.
Tutto ciò a cui Peake ci aveva abituati nei due libri precedenti viene qui ribaltato e smantellato. C’è un mondo fuori da Gormenghast ma non è il mondo che Tito sperava di trovare. Combattuto tra l’obbligo di adempiere ai suoi doveri di settantasettesimo conte signore delle pietre millenarie, e la libertà in quel luogo dove la libertà non esiste, Tito riuscirà a diventare uomo proprio grazie alla difficoltà di dover distruggere la sua pietra di paragone. Il cambiamento di Tito nel corso dei tre libri, così intenso e passionale, ci permette quindi di aggiungere ai tanti generi di questo romanzo anche quello del romanzo di formazione.
Non ci sono elementi per capire se il mondo raccontato in Gormenghast sia il nostro o un altro. Personalmente mi piace pensare che sia il nostro futuro, un futuro in cui antichi dedali burocratici da una parte e vecchi stati tecnologici e repressivi dall’altra si siano sviluppati indipendentemente in due mondi opposti che si ignorano reciprocamente, ma anche in questo caso vediamo che Peake ci descrive comunque meravigliosamente le due facce di una stessa medaglia.
Pur sembrando in apparenza un ciclo completo, forse Peake voleva rivelarci molto di più. Ci sono molte cose lasciate in sospeso che forse avrebbero trovato il loro posto se l’autore non si fosse ammalato di Alzheimer. Eppure, lasciandole così come sono, contribuiscono a evocare quel mondo così strano, illogico e affascinante che altrimenti non sarebbe Gormenghast.