Prince of Persia e la paura di cadere
Prince of Persia non è solo un gioco fondamentale per la storia dei videogiochi ma anche una esperienza ricca di dettagli e di trovate che amplificano l'urgenza e il senso di pericolo del gioco, a partire dal modo in cui mostra la morte.
Ricordo di aver visto quel tizio vestito di bianco e di aver pensato che fino a quel momento niente sullo schermo si era mosso con quella grazia, quel senso di realtà di peso, di umanità.
Prince of Persia arrivò quasi all’improvviso, e come spesso accadeva in quegli anni pensai che non avevo visto niente di più bello e chissà quando l’avrei rivisto. Probabilmente avrei detto la stessa cosa dopo un mese. In un’epoca di dominio culturale di Super Mario, in cui il mio metadone si chiamava Great Giana Sisters, era a modo suo anche un modo per saltare tra le piattaforme.
Col suo costante scorrere del tempo, Prince of Persia non era solo una sfida di riflessi e coordinazione ma una mano alla gola della mia calma sotto pressione, e soprattutto, al mio coraggio. Ogni volta che riuscivo a schivare una trappola o a superare un livello, la sensazione di sollievo era quasi palpabile e la tensione di quelle piattaforme fragili o la sentenza di un cancello che si chiudeva alle mie spalle erano un monito costante. Avevo solo otto, nove anni quando ci giocavo e, onestamente, da persona che oggi non tocca i titoli From perchè non vuole stressarsi, non ho idea oggi di come fosse possibile.
Ma al di là delle emozioni vertiginose, a tenermi incollato c’era questo strano senso di connessione. C’era qualcosa di profondamente umano in quel personaggio animato col rotoscope. Sarà stata l’inerzia che ti faceva avvertirne il peso, le spalle che si muovevano quando lo ruotavi, il leggero sobbalzo con cui attutiva le piccole cadute. Jordan Mechner, filmando suo fratello che correva e saltava, aveva in qualche modo realizzato quella diceria secondo cui le foto rubano la tua anima, imprigionando l’umanità in quelle animazioni.
Sentii subito un legame, un senso di vita artificiale, un vero e proprio avatar, un simulacro, che mi affascinava, mi emozionava sul futuro dei videogiochi, sapeva anche spaventarmi.
Pur nella sua essenziale palette di grigi e blu, occasionalmente sconvolta dal colore della schermata iniziale, Prince of Persia aggiungeva un elemento fondamentale: il rosso crudele del tuo sangue quando finivi in una trappola. Era solo un colore in più, ma faceva tutto. La grande lezione dei giochi di quegli anni, fare tanto con poco.
E, non vorrei dire stupidaggini, ma è molto probabile che sia stato il mio primo sangue digitale. E a posteriori forse anche il primo caso in cui un avanzamento tecnologico mi ha fatto percepire un senso di morte e violenza.
Ma non era solo il sangue, Mechner, nel suo talento, aveva intuito che serviva qualcosa di più. A turbarmi era la posa. Nei cadaveri c’è spesso un elemento della posa che c’è li rende tali anche quando sono composti. Anche quando sembra che dormano qualcosa nel nostro subconscio sa che non è così. Una gamba leggermente spostata, una mano troppo ruotata. Figuriamoci nelle morti violente.
Quando finisci dentro gli spuntoni di Prince of Persa il protagonista non è solo trafitto e sanguinante ma a una posa particolare, da burattino a cui hanno tagliato i fili.
La testa reclinata sul petto, le spalle scese, le braccia molli, una gamba l’altra piegata dietro e una stesa avanti con uno spuntone che trafigge all’altezza della coscia. Non c’era l’ironia di Mario che cade in un burrone con la musichetta triste, non c’era il gore ironico che arriverà con Mortal Kombat o mille altri modi per renderci la perdita di una vita del personaggio un gesto quasi buffo e parte dell’esperienza. Esattamente come un corpo non ci sembra una persona che dorme, là non c’era più vita, non c’è più quel senso di umano che avvertivamo prima della caduta, ma un’esistenza bruscamente conclusa.
Per non parlare della trappola che ti divideva a metà, con una striscia di sangue che saliva su verso il bordo seghettato mentre tu giacevi a terra spezzato.
Quell’immagine ce l’ho qua, stampata nel cervello, ben catalogata in quello strano archivio di ricordi che il mio cervello ha deciso di collegare con i videogiochi. Accanto a lei la pianta esatta dello studio e della stanza della casa dell’amico da cui ci giocai la prima volta. Come se il mio cervello sentisse il bisogno di ricordare tutto il contesto. La paura di vedere di nuovo quel rosso crudele mi spingeva a stare ancora più attento, a essere più rapido, più preciso e ovviamente a sbagliare ancora di più.
Siamo abituati ad associare il concetto di morte nei videogiochi ai cosiddetti “videogiochi violenti”, quelli in cui morire è spesso una costante, qualcosa di previsto, incoraggiato e spettacolarizzato. Sia per quanto riguarda il protagonista che i suoi avversari. Ma alla fine questi giochi, a meno di non perdere soldi, equipaggiamento o altro sono spesso quelli in cui la morte vale molto poco, proprio perché è la moneta più svalutata.
E invece morire è spesso un affare privato, personale, fatto di legami e di sensazioni. La prima volta in cui ho percepito il senso della mia mortalità forse è stato proprio quel pupazzo trafitto in Prince of Persia, fino all’anno successivo, quando in Wings, un simulatore di biplani della Prima Guerra Mondiale, ho visto una lapide col mio nome occupare lo schermo.